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Il Tino

Maturo

(fig.) [di situazione, condizione e sim., che ha raggiunto il pieno sviluppo relativamente agli scopi a cui mira.] Potremmo fermarci qui per descrivere l’evidentissimo percorso di crescita che ha caratterizzato la cucina dello Chef Daniele Usai. Questo processo ha permesso di superare, per sua stessa ammissione, gli estri più giovanili e la voglia di sorprendere ad ogni costo, magari sfruttando sapori e accostamenti decisi (forse anche troppo), portando la cucina verso picchi di raffinatezza che hanno pochi concorrenti, non solo a Roma, ma in tutta la Penisola. Anche quando i piatti si ingolosiscono, l’eleganza resta sempre una costante. Una goduria in frac.

Dinamismo

Questa evoluzione si traduce in un’offerta che stupisce per la tecnica impeccabile, per l’equilibrio, ma soprattutto per la sua dinamicità. I sapori si alternano: amaro, dolce, sapido, umami, mai prevaricanti, ci disorientano; che bello perdersi in questo percorso! Il Nautilus, servito come benvenuto, mette subito le cose in chiaro: il pesce spada maturato ha quasi la consistenza di un carpaccio; il sapore è estremamente intenso, senza però diventare mai pungente; il gel di champagne e le foglie di origano contribuiscono all’evoluzione dell’assaggio, boccone dopo boccone, mentre l’infuso di malva sorprende lo sguardo, ma soprattutto armonizza il tutto. Il “Giardino Iodato” sembra un omaggio all’Insalata di ostriche di sua Maestà Uliassi: un’infinità di erbe aromatiche e di pesci locali (che variano in base all’andamento dell’asta) ci regalano un piatto sempre nuovo, dove è ancora una volta il dinamismo a farla da padrone, mediante una complessità ordinata che si sublima nella bottarga in primo piano. È un antipasto ma, a nostro avviso, è il piatto che meglio rappresenta il percorso, essendo esso stesso un cammino.

Non a caso le stesse erbe aromatiche le ritroviamo nell’ultimo dessert, a completare la regata. La carta dei vini è giustamente complessa, con un’interessante proposta di abbinamenti. Il personale di sala è impeccabile, attento senza scadere nell’ingessatura, assicura il giusto supporto alla cucina di Usai e la necessaria qualità. In generale, il risultato complessivo è veramente notevole anche se questa maturazione non può mai dirsi conclusa. L’asticella deve alzarsi sempre di più e, siamo certi, Usai continuerà a evolversi e a migliorarsi, nella continua ricerca dell’eccellenza.

IL PIATTO MIGLIORE: Il Giardino Iodato.

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Evoluzione

La realtà di Fiumicino sta maturando, da qualche tempo a questa parte, una concreta evoluzione. La ricerca di qualità e innovazione sono ormai capisaldi di diverse realtà locali. Così, non lontano dalla cucina di Pascucci al porticciolo e da Il Tino di Lele Usai troviamo, perfettamente inserito nel contesto, L’Osteria dell’orologio. Lo Chef Marco Claroni non è certo una scoperta ma una piacevolissima conferma che, col passare del tempo, mostra una crescita personale tale da trovare la sua massima realizzazione nella valorizzazione della materia prima e nel tentativo, ottimamente centrato, di minimizzare lo spreco alimentare.

Il maiale 2.0?

L’ottimo livello raggiunto dalla sua cucina traspare sin dagli antipasti, eleganti, ma soprattutto equilibrati. Impossibile non citare la freschezza del Ceviche di ombrina, la dolcezza della triglia e del suo amico peperone, ma soprattutto l’incredibile profumo (che non risulta affatto coprente) di affumicato della Tartare di tonno. Come detto, però, la nota più piacevole è data dall’attenzione all’utilizzo quanto più esteso della materia prima. Non parliamo di protagonismi fine a ste stessi, l’obiettivo principale è sempre fornire portate interessanti e di qualità, riuscire a farlo evitando gli sprechi è una scelta che sicuramente apprezziamo e che premia per come viene implementata. Qui l’utilizzo del pesce trascende, avvicinandosi a quello dell’amico suino del quale, come ben sappiamo, non si butta via niente. In questo senso abbiamo apprezzato la Mazzancolla, cruda con una variazione di pioppini. Le zampe, fritte sono sfiziosissime con la loro salsa; la testa è servita separatamente ripiena del suo condimento. Anche il secondo sposa la stessa filosofia. La Testa di ricciola è perfetta dal punto di vista culinario, soda, insaporita dal suo fondo bruno e sgrassata da un’interessante emulsione alla mela. L’impiattamento potrebbe migliorare, ma il risultato palatale è ottimo. Molto interessante anche la proposta di Macelleria di mare, con salumi e stagionati di pesce, della quale avremmo sicuramente apprezzato un’incursione all’interno del percorso degustativo.

Ben costruita la carta dei vini con numerose etichette anche estere e con soluzioni in grado di accontentare appassionati e non. Il personale di sala è cortese e attento, ma mostra qualche piccola sbavatura dettata, probabilmente, dalla giovane età di alcuni collaboratori che la preparazione e la qualità umana del maître riesce a compensare egregiamente, garantendo un servizio senza intoppi.

IL PIATTO MIGLIORE: Testa di ricciola al forno.

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Il cuoco e il mare

“Ora non è tempo per pensare a ciò che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che c’è.” Cosi Hernest Hemingway, tra le pagine del suo “Il Vecchio e il Mare”, descrive l’avventura e il rapporto quasi intimo con l’altro protagonista di questo leggendario romanzo: il mare. In quel di Fiumicino, nel suo Porticciolo sicuro, Gianfranco Pascucci sembra parafrasare la citazione attraverso la sua cucina che ancora una volta è riuscita a catturarci. Piatti che dimostrano la consolidata maturità che questo cuoco ha saputo dimostrare nel corso del tempo esplorando sì le profondità abissali, ma anche quanto di più semplice possa trovarsi sulla battigia del litorale lì vicino nella diversità stagionale.

Di fatto, è assai nota la conoscenza della materia che questo cuoco esprime. L’ethos del cuoco istintivo e materico è declinato sapientemente tra crostacei, pesci e molluschi. Come un’onda a infrangersi sullo scoglio tra mille gocce, così la cucina di Pascucci camaleonticamente si coniuga tra iodato, salino o salmastro. Sintesi esplosiva tra carnosità vertiginose e fondenti textures.

Ci rimarrà sicuramente impresso il prosciutto di tonno accompagnato dalla sua bottarga e dallo strepitoso lardo di maiale nero direttamente dall’abruzzese Villa Maiella di Peppino Tinari. Il concetto di frollatura, apparentemente ossimorico nell’abbinato ittico, si concretizza susseguendosi tra la tecnica di lavorazione del tonno e la golosità del risultato. Il pesce spada appena affumicato e friggitello è un altro approfondimento di Pascucci sulla complessa consistenza di tale pesce sullo sfondo delle note amarotiche del vigoroso friggitello, raccontato in doppia veste di salsa e arrostito.

Qui la cucina, come una barca, veleggia sicura tra creazioni nostrane e non. Prima, con il gambero che ha perso la testa (anche noi per questo piatto!) partendo dalla sua coda cruda, glassata con una salsa di Marsala, arancia e foie gras per arrivare a succhiarne la testa e i suoi umori. Poi con la gamberessa, appena fritta, croccantissima, da accompagnare all’infuso di salicornia e pomodoro. Dal Marsala agli echi nipponici del tè Bancha, nel risotto con burro alici e uova di salmone, per una sapidità che ha come contraltare i sentori dolci, quasi di cioccolato che denotano questa tipologia di tè.

Come nella nostra precedente visita continua la ricerca sul capitolo dolce. L’ostrica con pan speziato, limone e alga prelude al botto in arrivo. Un must assoluto della tradizione pasticcera romana nella granita di caffè con spuma di pistacchio, bianco di latte, cappero candito servita con uno splendida fetta di maritozzo tostato al burro salato e l’immancabile panna: una storicità magistralmente alleggerita.

Le vele sono ammainate, il viaggio ancora una volta si conclude. Il cuoco e il suo cliente fanno rotta per tornare a casa. Intorno a loro il mare, lo scenario su cui questo cuoco s’impone come uno tra i più capaci interpreti italiani. La nave è ritornata nel Porticciolo, quello di Gianfranco Pascucci.

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Una piacevole conferma nei dintorni di Roma

A 30 km dalla capitale, nel centro storico della città in cui sorge un totem della ristorazione laziale e italiana come Pascucci al Porticciolo, nove anni fa lo chef e patron Marco Claroni aprì le porte de L’Osteria dell’Orologio assieme alla sua compagna di vita e di lavoro Gerarda Fine. Il ristorante, incastonato nell’edificio progettato dall’architetto Valadier, si propose fin da subito come una tavola nella quale gustare il pescato locale, selezionato direttamente dallo chef classe ’84, nella sua interezza.

La filosofia che ha contraddistinto da sempre la cucina dell’Osteria – che lo è solo nell’insegna, vista l’eleganza dell’arredamento e l’assenza di tovagliato – è stata quella di minimizzare gli scarti e di mettere in risalto nei propri piatti le parti meno nobili degli alimenti, ittiche in primis.

Piatti golosi e ben fatti, sempre con il focus sulla qualità della materia prima

La cucina è davvero molto interessante: lo chef non si limita al semplice utilizzo di ottima materia prima, ma persegue la valorizzazione della stessa attraverso sapienti tocchi come brodi concentrati, anche orientaleggianti, e accostamenti centrati con carne e verdure. Le caratteristiche distintive dell’idea di cucina, l’originalità e la golosità, vengono messe in luce nei piatti che osano più di tutti con ingredienti oltreoceano. Ceviche di ombrina, lenticchie, latte di cocco è una rivisitazione non banale di un piatto sudamericano sempre più presente nelle nostre tavole, e anche la pur semplice Variazione di zucca e baccalà ha superato le nostre aspettative per l’insolito e sapiente utilizzo del brodo dashi.

A differenza del passato, il menu non è più un infinito susseguirsi di ottimi antipasti, ma riesce ad articolarsi in un percorso più omogeneo ed equilibrato. Ora, anche la partita dei dolci – buoni e curati – merita la giusta attenzione, così come dimostra il Gelato arachidi e mandorla, pan di Spagna al rosmarino, caramello, cachi, da noi apprezzato per il connubio dolce-salato.

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Una delle migliori cucine di mare d’Italia, a Fiumicino

Nel nostro perpetuo e continuo girovagare per ristoranti poche volte ormai riusciamo a rimanere impressionati. E non necessariamente solo dalla cucina. Impressionati dalle tecniche, dalla volontà, dalla qualità espressa certamente, ma anche impressionati dall’aria che si respira, intensa e vibrante. Quest’aria, che abbiamo respirato qui, è ricca e pregna di sentimento, di voglia di emergere, di determinazione e di tanta, tantissima passione. Un cocktail micidiale, perché con la straordinaria materia prima di cui Gianfranco Pascucci dispone possiamo tranquillamente affermare che ci troviamo, assieme a Lionello Cera, di fronte a uno dei migliori ristoranti di pesce d’Italia. Merito di Gianfranco certo, che ha studiato a lungo e continua a farlo, ma merito anche di una squadra, capitanata da sua moglie Vanessa, che sa gestire una sala veramente di alto livello. E non dimentichiamoci i ragazzi in cucina, sottoposti a lunghe fatiche da parte dello chef, che ha una linea tanto complicata quanto originale e goduriosa, appagante al palato.

Un luogo insomma in cui si respira quell’aria, quel pathos, quel sentimento di trance agonistica che ci fa amare il luogo e ci fa assaporare un profumo intenso di piacevolezza. La cucina di Pascucci, cuoco autodidatta, è cresciuta notevolmente negli anni. Si è affinata, ha guardato ai dettagli, ha lavorato in una direzione molto personale. E l’appunto nostro della volta precedente, accolto, ha portato ancora più in alto l’asticella, migliorando notevolmente il comparto dolce, oggi irriconoscibile rispetto al passato, in positivo s’intende.

La tecnica, l’evoluzione e la qualità delle materie prime

Ma ciò che più ci ha stupito, impressionato, è il fine ed elegante, nonché originale, lavoro sulle ossidazioni e frollature del pesce. Avete letto bene. Ci scampi dal popolo superficiale ogni possibile ironia a riguardo. La tecnica delle fermentazioni, ossidazioni e frollature pronunciate è presente da millenni in moltissime culture, quale metodo di conservazione – ma non solo -, che non deve affatto far inorridire. Pensiamo alla cultura giapponese, ricca di storia e tradizione in tal senso, ma ci basti, accontentandoci, pensare al nostro garum romano, o alla colatura di alici, sua derivata. Gianfranco si è spinto oltre, lavorando su marinature e ossidazioni controllate che trovano l’apice gustativo nella Misticanza di tonno rosso o nel Lardo di centrofolo a impreziosire i Filideu sardi.

Interessantissima la ricerca di consistenza sul Calamaro arrosto alle erbe mediterranee, con il brodo in accompagnamento che riprendeva una sorta di dashi mediterraneo appunto, da far invidia a un piatto del grande Ryugin. Primi piatti ottimi, un asticello davvero memorabile, in cui viene magistralmente esaltata la testa del crostaceo, non a discapito di una stupenda cottura della coda. Il salto quantico sui dolci è evidente a tutti, basti vedere le foto dei dessert dell’anno scorso.

Completano il quadro una sala davvero importante, gestita magistralmente. Ora non rimane che andare a Fiumicino, a respirare quell’aria, che ci riporterà a momenti intensi decisamente appaganti.

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