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Bros’

Alcune premesse

Fra i tratti che delineano l’approccio di Passione Gourmet alla critica gastronomica riteniamo vi siano senz’altro un’estrema attenzione al versante strettamente culinario dei luoghi che visitiamo e, sul versante opposto, la volontà di tenerci il più possibile lontani da un approccio autoreferenziale, in cui l’oggetto dell’analisi finisca cioè per non essere altro che uno specchio per le considerazioni di chi scrive su sé stesso.  Ci rendiamo conto che nel parlare di Bros’, ristorante fin dai suoi esordi al centro di discussioni fortemente polarizzate, saremo costretti a cedere dal nostro secondo intento pur di mantenere salda la presa sul primo. 

Non vogliamo, qui, stabilire cosa sia o cosa non sia fare critica: è però essenziale a questo punto ribadire che giudicare ristoranti, per noi, significa valutare il risultato gastronomico, e ciò naturalmente non limitandoci alla banale piacevolezza ma cercando di premiare il rischio, gli stimoli intellettuali, la molteplicità dei piani di lettura di un piatto o di un percorso, qualora tali aspetti emergano anche dal punto di vista sensoriale e non solo dalle chiacchierate di rito con gli chef di turno.  

Merita la visita?

Delle polemiche mediatiche, siano esse state abilmente ribaltate oppure scaltramente cavalcate dagli interessati, dello sguardo di Floriano Pellegrino sulla Storia dell’Arte e sul ruolo dell’artista nella società, perciò, non vi racconteremo. Non vi racconteremo innanzitutto perché tali argomenti non ci appassionano; in secondo luogo non ve ne racconteremo perché il centro del nostro interesse coincide con il punto di arrivo di un processo. E non ve ne racconteremo malgrado, nel caso specifico, proprio su tali presupposti muova questa collezione Primavera/Estate 2022.

La domanda, l’unica possibile per noi è perciò: il nuovo menu di Bros’ merita la visita? La risposta, dal nostro punto di vista, è che il percorso da noi provato non si limiti a meritare la visita, ma sposti ulteriormente in avanti la bandierina del duo salentino nel panorama gastronomico contemporaneo. Già l’edizione 2020, con la scelta di proporre un menu completamente privo di carne e pesce, aveva permesso di sciogliere ogni possibile riserva sul passaggio di Floriano Pellegrino e Isabella Potì dal novero delle grandi speranze a quello delle promesse mantenute; l’immaginario vegetale salentino veniva, in quell’occasione, riletto per mezzo, prevalentemente, di forme già sperimentate nei menu precedenti ma, in quel caso, senza separarsi dalle certezze accumulate nella breve vita del ristorante.

Bros’: Primavera/Estate 2022

Con l’edizione 2022 assistiamo invece, a nostro parere, a un radicale passaggio verso una fase più matura della cucina di Isabella e Floriano. Una fase, questa, dove anche i motivi ricorrenti più cari vengono in parte accantonati e, in minima parte, mantenuti sotto-traccia: ecco così sparire lo Spaghettone, assenza che trova giustificazione in una sequenza in cui i carboidrati non sono in chiave ma solo accidenti occasionali; ecco il Pomodorino salentino  – aggiungiamo: finalmente! – declinato verso la concentrazione e la dolcezza, col fondamentale apporto della brace a supporto, invece che su mezzetinte di cui a queste latitudini non dispone.

Allo stesso tempo, il sempre presente Cucumarazzu (il carosello) si sveste dei panni del protagonista per indossare quelli del comprimario di lusso in un pericoloso ma elettrizzante equilibrismo con mandorla, tuorlo e uova di pesce. Ancora una volta, però, è quando non si è ancora spenta l’eco per le lodi tessute alla millimetrica precisione del rôtisseur che i Bros’ piazzano i colpi indimenticabili: laddove sarebbe facile, con i mezzi a disposizione, incantare con l’ennesimo soufflé perfetto, ecco una sequenza di dessert, aperta dall’arioso Fegato di pollo, che indaga un rapporto totalmente diverso, e formalmente assai stimolante, fra premesse e conclusioni di un percorso di altissimo livello. 

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L’universalità del dialetto

Molto spesso l’esercizio della critica, in qualsiasi campo, si riduce a una forma di equilibrismo, con la necessità di esprimere un giudizio in maniera per quanto possibile oggettiva, prudente, che consideri in maniera puntuale il suo oggetto di interesse in rapporto ai suoi “simili”, per garantire l’affidabilità della stessa specialmente se sintetizzata in un voto.

Rare volte, però, capita di trovarsi davanti a esemplari davvero unici, di difficile confronto, che generano sorpresa, persino entusiasmo, anche in chi è difficilmente impressionabile. Una visita da Bros’ nell’estate del 2020 rientra in queste occasioni perché qui davvero niente è come altrove; certo, Floriano Pellegrino e Isabella Potì sono estremamente informati su cosa si muove nel mondo della cucina contemporanea, hanno fatto la giusta formazione, sono totalmente inseriti tra le giovani star della gastronomia, non solo italiana. Ma il loro progetto è totalmente originale ed è già oggi pienamente maturo nonostante la giovane età degli chef.

Bros’ è un ristorante di alta cucina profondamente salentino eppure totalmente internazionale, che ha fatto in questo 2020 la scelta di proporre un menù interamente vegetariano nel quale il gusto del territorio trova una sublimazione assoluta, che esprime un amore profondo per le proprie radici e una capacità unica di raccontarle con un linguaggio universale e modernissimo. I due menu proposti si distinguono solo per la lunghezza, sono descritti in leccese o in inglese e sono un succedersi di momenti molto pensati, in cui ogni proposta ha dietro un’idea chiarissima del gusto che si vuole proporre ed è realizzata utilizzando ogni tecnica possibile, da quelle della tradizione a quelle sviluppatesi nei tempi più recenti.

Il menù delle radici

Gli amuse-bouche qui sono effettivamente un’indicazione di quello che troveremo dopo e sono tutto tranne la successione di bocconcini anodini e sempre uguali, pur esteticamente curati, che connotano gran parte dell’alta cucina contemporanea. La sequenza dei piatti parte con note più lievi per poi arrivare a gusti sempre più complessi, dando la sensazione di una successione molto pensata e pienamente appagante, in cui nulla è casuale. La “‘nsalata ‘vanzata” gioca con la memoria degli avanzi più poveri per dare grande prova di tecnica e spingersi su acidità estreme ma padroneggiate con sapienza; lo “spunzale ‘rrustutu, tartufu” è una delizia golosa che sposa il povero e il ricco; la “ricotta scante, finocchietto”, ennesima variazione su un ingrediente essenziale di questo territorio, è una sferzata (unico appunto: ne basterebbe una porzione anche più ridotta, vista l’intensità).

Sulle paste, la combinazione dell’ormai classico “pasta, aju, grassu rancidutu, piparassu maru”, con la “candila, piparussu ‘rrustutu, muddhica” è davvero riuscita, oltre a proporre due dei piatti di pasta più belli a vedersi del panorama nazionale. Dopo altri momenti che vanno dallo straordinario “aju, vaniglia, alghe” al meno riuscito “ciciru lacciu” (mousse di ceci, sedano e riduzione di ceci, l’episodio meno convincente del menu) si arriva a un piatto principale realmente da fondo scala: “carota rossa allu fuecu, noce, fiche”, una straordinaria rapa rossa cotta nella cenere, con salsa alle noci e fico glassato. Degno del miglior Passard, si stampa nella memoria come uno straordinaria combinazione di gusti veicolata in un’immagine di bellezza rara.

Dolci di eccellente livello, come sempre da queste parti, se possibile ancora più riusciti del solito: il “milune di acqua sotto sale, spumone allu casu di capra” è la traduzione di un ricordo (l’anguria lasciata raffreddare nell’acqua di mare che, tagliata, manteneva la nota salata delle goccioline rimaste) e una combinazione totalmente originale di ingredienti (anguria, formaggio di capra, aceto) inusuali in un dessert a qualsiasi livello di ristorazione. Per capire quanto poco di casuale ci sia in un piatto così, vi invitiamo a vedere il video in cui la chef racconta la genesi del piatto e l’impatto gustativo ricercato e ottenuto.

Per evitare fraintendimenti: non stiamo più parlando di un ristorante di grandissima prospettiva, ma di una realtà tra le più importanti dell’intero territorio nazionale, di un pranzo che si colloca tra i migliori dell’anno in termini assoluti e di un’esperienza di divertimento puro, da suggerire con vigore a tutti gli appassionati.

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La cucina del territorio leccese: il dialetto come lingua universale

Un ristorante è un’impresa. Non solo in qualità di esercizio il cui obiettivo primario è quello di produrre utili ma anche, e forse soprattutto, nell’accezione più romantica ed epica del termine. È una sfida onerosa che richiede determinazione, sacrificio, talento e profusione in essa di un impegno totalizzante.
Ognuno intraprende questa tenzone con una propria visione plasmata da sensibilità, conoscenze, carattere e, ultima ma non meno importante, personale abilità, il tutto strettamente legato alle (e dalle) proprie speranze.
Ci sono ristoranti, poi, che oltre questo riescono a far intravedere anche dell’altro.

Bros di Floriano Pellegrino e Isabella Potì riesce, infatti, a trascendere ulteriormente questo classico storytelling, corredando la propria proposta con un piglio che oltrepassa l’entusiasmo giovanile, associandosi piuttosto a una intensità emotiva che sinceramente colpisce, fino a farsi trascinante.
Difficilmente, sedendosi a questa tavola, non si riesce a notare e apprezzare questa tensione, in cui il territorio è esaltato fino a essere trampolino di lancio per raggiungere dimensioni gastronomiche internazionali.

La volontà di fare di Lecce un segmento d’Europa, e non della provincia italiana, traspare persino da particolari come l’arredo, volutamente spoglio, di impronta nordica, dalla presenza in sala di collaboratori di diversa nazionalità e, ancor di più, ovviamente, dal menù ricco di stimoli, idee, tecniche che sollecitano spettri di sensazioni disparati e compositi.

L’articolazione dei menù prevede tre differenti degustazioni di crescente lunghezza. In quello più lungo, un inizio in sordina cede gradualmente il passo a piatti dalla profondità e persistenza sempre maggiori. Oltre ai classici poli gustativi – largamente esplorati – è questa una cucina che fa ricorso anche ad altri canali come il salmastro, il rancido o le stesse fermentazioni per sottolineare, facendogli da spalla o prendendo il sopravvento, questo o quell’ingrediente principale.
È uno stile che non si manifesta attraverso un’espressione lineare del gusto, ma piuttosto reclamando la dovuta attenzione con l’avvicendarsi di sovrapposizioni e accompagnamenti in cui contaminazioni ed espressioni ultraterritoriali completano un quadro di indiscutibile interesse.
Se gli ingredienti locali sono un’opportunità qui vengono sfruttati appieno anche grazie a una maestria tecnica che riesce ad esaltarli nelle loro caratteristiche. Fulgido esempio è il concentrato di peperone e caroselli, ideale substrato che permette alla burrata di trovare un adeguato contraltare alla propria lipidica fattura.

Equilibrio? Non solo, ma anche tanta freschezza

La crema di ceci con aceto, polvere di peperone e melanzana fondente spazia su gradazioni dell’umami in modo assai convincente, e una efficace variazione di susine accompagna un eccellente piccione.
Come detto, alcuni piatti a principio menù, rispettando le consegne di un inizio sottotono, probabilmente cercato, risultano alquanto impalpabili e di difficile decifrazione. Se l’intento è stato quello di calibrare il percorso aumentando progressivamente l’andatura diciamo che ciò non è stato felicemente perseguito.
Guardando a ritroso la differenza tra un certo punto della cena e l’inizio sembra quasi di avere a che fare con due mani diverse. Una più incerta, l’altra più consapevole e decisa. E allora accostamenti come il brodo di olive celline la cui nota salmastra, invero non percepita, dovrebbe completare e arricchire quelle del melone cantalupo, lasciano perplessi.

Non si può concludere non omaggiando il livello altissimo della pasticceria di Isabella Potì, che suggella un pasto in un locale tra i più divertenti dell’odierno panorama nazionale.

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Una rubrica su BBQ & Cocktail, in collaborazione con Bonaventura Maschio

Quarta puntata di “Cuochi alla Brace”: dopo Luigi Taglienti, è il momento dello Chef protagonista di una delle tavole più divertenti del Sud Italia, locale avviato da poco più di un anno ma già capace di sorprendere: Bros’, il ristorante di Floriano Pellegrino.

Nato nel 1990, Floriano è il maggiore di tre fratelli, e la passione per la cucina nasce in loro tra le mura dell’agriturismo di famiglia. A 18 anni inizia a lavorare con lo chef Ilario Vinciguerra, e nello stesso periodo ottiene il premio di Miglior Commis per il Bocuse D’Or. Un anno dopo approda alla corte dello chef Martin Berasategui, dove iniziano una serie di fortunate esperienze all’estero: Luis Andoni Aduriz, Eneko Atxa, Alexandre Gauthier, Rene Redzepi e il francese Claude Bosi a Londra. Nel 2016 grazie al suo ristorante Bros’ ha vinto il premio Top di Domani Touring Club e Sorpresa dell’anno di Identità Golose, oltre al premio Vent’anni di San Pellegrino e Acqua Panna.

Floriano Pellegrino, Bros, Lecce

Fin dai nostri esordi” racconta Floriano “il barbecue è qualcosa che ci appartiene. Il fuoco è un elemento endemico con il quale abbiamo preso confidenza fin da bambini: ricordo ancora le grigliate in famiglia o presso la nostra masseria, momenti di gusto e convivialità.
I numerosi viaggi all’estero se inizialmente ci hanno tenuti lontani, anche se solo per un breve periodo, da questa tecnica di cottura, ci hanno successivamente spinto a comprendere quanto bene si sposasse con l’alta cucina. Penso, ad esempio, all’esperienza da Seiji Yamamoto in Giappone o a quella in Spagna.
Impossibile non pensare, infatti, ai profumi e ai sapori che l’affumicatura rilascia a seconda dei carboni e dei vegetali utilizzati durante la combustione. Non si può neppure prescindere dalla storia: la cottura alla brace appartiene alle culture più antiche, ha resistito al trascorrere dei secoli e ad innumerevoli innovazioni in campo gastronomico. Le abbiamo solo riconosciuto il posto che meritava: abbiamo fatto un vero e proprio salto nel passato, abbiamo messo da parte la padella antiaderente per dare spazio alla brace e ai cocci di creta.

Per quanto riguarda la tipologia di bbq utilizzato, “Da Bros’ utilizziamo un barbecue stile “robatayaki”. Abbiamo scelto quindi, al posto della griglia che poco amiamo, delle stecche di ferro con le quali infilziamo ogni tipo di verdura, carne e pesce. Utilizziamo i carboni più svariati, dall’ulivo, al faggio, al ciliegio e in alcune preparazioni, per l’affumicatura, variamo tra il mirto secco, il lentisco e foglie secche di ulivo. In riferimento al piatto che vi presentiamo, il cui ingrediente principale sono le cozze, alquanto improbabili da immaginare su un barbecue, abbiamo scelto il semplice faggio.

Sempre riferendosi a “Cozze, tamarindo”, il piatto presentato, “…nasce dalla volontà di utilizzare un ingrediente tipico della nostra terra, le cozze per l’appunto. Da sempre il lavoro di Bros’ non è semplicemente orientato all’utilizzo di materie prime indissolubilmente legate al nostro territorio, ma si è spinto oltre nella ricerca. L’obiettivo che sempre ci prefiggiamo dinanzi ad un nuovo ingrediente sta, dunque, nell’individuarne il suo vero background gustativo. Ogni piatto che creiamo deve rinnovare, nella testa e nel cuore di colui che lo assaggia, un ricordo di gusto; deve consentirgli quindi di riconoscere le proprie origini e le proprie radici.
Ed ecco le cozze di Taranto, vera abitudine nelle nostre tavole, servite quasi crude, condite solo con del limone. Abbiamo cercato di creare qualcosa che potesse ricordare questo gusto così poco articolato ma deciso: contrariamente alla tradizione che richiederebbe l’apertura delle cozze “all’ampa”, come si usa dire qui da noi, le apriamo sul barbecue e sarà proprio l’affumicatura ad esaltarne la sapidità. Al termine di questo passaggio, vengono adagiate su una brunoise di sedano croccante fresco, le condiamo poi con il brodo di tamarindo, decisamente più profumato rispetto al limone, e per finire l’olio di sedano che ne completa l’intensità.

Cozze e tamarindo, Floriano Pellegrino, Bros, Lecce

Cozze, tamarindo

1kg di cozze tarantine
200g di sedano fresco
200g di foglie di sedano
250g di olio e.v.o.
90g di tamarindo
800g di acqua

Frullare le foglie di sedano con l’olio, quindi colare tramite carta. Fare poi un brodo con l’acqua e il tamarindo, infine colare. Con il sedano fresco fare una brunoise, pulendolo accuratamente dai filamenti interni ed esterni. Pulire bene le cozze dopo averle fatte depurare, ed aprirle utilizzando il barbecue. Levarle appena iniziano ad aprirsi, ed estrarre quindi le cozze dal guscio. Finire il piatto con il sedano sul fondo, copirlo con le cozze, e in ultimo aggiungere il brodo freddo con l’olio di sedano.

Cocktail in abbinamento powered by Bonaventura Maschio: Bitter Orange Fizz
2/3 di gin Barmaster
1/3 di succo di arancia amara fresco
1 dash di sciroppo semplice
Soda
Spuma di sedano

Shakerare il tutto, e in un tumbler completare con soda. Finire con una copertura di spuma di sedano. Servire spruzzando il bicchiere con acqua marina sterilizzata.

La meglio gioventù per la rinascita del Salento gastronomico

Entusiasmo, determinazione, ambizione e un pizzico di – giovane – follia.

Sono gli ingredienti che renderanno il progetto di questi giovani imprenditori salentini qualcosa in grado di volare ben oltre le aspettative dei confini nazionali. E’ quasi una certezza.

Sì, perché oltre ad essere un vulcano di idee, quelli del Bros hanno e sanno applicare disciplina, organizzazione ed il nobile sentimento per i gusti che contraddistinguono la loro terra, il Salento. E il raggiungimento di questi gusti può anche prescindere dall’ingrediente del territorio, pur di non ostacolare il perseguimento di un obiettivo ben definito.

Dopo aver fatto tesoro dei trascorsi alla corte di grandi cucinieri francesi e spagnoli ed aver portato una ventata di italianità nel laboratorio creativo del Noma, Floriano, Giovanni e Isabella, ciascuno con le proprie esperienze, sono rincasati nella splendida cornice barocca di Lecce, irrompendo nel pieno centro della scena cittadina (non avvezza a questo approccio culinario), con una cucina potente, ragionata e incredibilmente matura. Essenziale, in sintonia con il locale, i cui interni sono affini al design dei ristoranti nordeuropei. Essenziale ma con risvolti sorprendenti. Come un dettaglio che si intravede in un angolo, o come le tante sfaccettature gustative in una scarna stoviglia in cui vengono adagiate una volta una carota, poi un’indivia, poi delle lenticchie.

E’ una cucina che non sbaglia un colpo, nell’idea e nell’esecuzione. E allora capisci che qui si fa sul serio, e siamo solo all’inizio. Alcuni diktat potrebbero sembrare eccessivamente restrittivi, come l’auto-imposizione di preparare i dolci a la minute, piuttosto che cuocere pesci o volatili nel loro intero (del resto, son bravi tutti a cuocere filetti). Ma se i risultati sono questi, tanto meglio continuare su questo solco.

C’è costante studio ed esasperata ricerca, a partire dalle fermentazioni come plausibile base della cucina del futuro, per raggiungere acidità secondarie che diventano alternative o cumulative ad acidità e sapidità vegetali. La linguina pistacchio, pepe bianco e “liquamen“, ottenuto dalla fermentazione dello sgombro, è come un gancio in faccia seguito da un’immediata carezza. Un notevole equilibrio gustativo.

L’aperitivo vale già gran parte del divertimento, all’insegna delle acidità, controllate in modo brillante e razionale, condensate in piccoli ingredienti -qui sì locali- e di stagione (olive e vermouth, e fragole e Campari, esempio di aperitivo mangia&bevi ultramoderno). E in progressione scorrono verdure e legumi il cui gusto persiste fino alle portate principali di pesce e carne, cotti rigorosamente con tecniche tradizionali ed interi e così presentati al tavolo prima di esser sfilettati e serviti. Così l’elegante pescatrice con nocciola e la ghiotta quaglia in tre servizi (dal petto con prugne e fagiolini di mare si passa alla coscia con limone e si termina con la scarpetta con il fondo di cottura del volatile ed il pane al vapore e poi fritto) sono il degno epilogo salato, preludio a qualcosa di forse ancor superiore: la pasticceria, il regno di Isabella Potì. Una delle cuoche del momento e proiettata nel firmamento della grande cucina. È lei l’artefice di dessert contraddistinti da tecnica sopraffina e rimandi alla grande tradizione francese, come il soufflé al formaggio di capra e gelato al nocino, che ci ha letteralmente rapiti e potrebbe già entrare nella classifica dei cult del panorama nazionale.

Più ordinarietà e qualche leggerissima disattenzione si intravede invece in sala, con un servizio, sicuramente professionale, volenteroso e in crescita, che però è costretto a subire il peso della qualità della cucina, con cui è difficile stare al passo.

In un momento storico del Paese in cui il turismo non può non prescindere dalla gastronomia, in una perla come Lecce non poteva mancare una tavola di grandissima qualità.

Da Bros il tempo vola. Bisogna solo avere l’accortezza di non lasciarsi sfuggire nulla.