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San Marco

Dall’osteria alle stelle (Michelin)

Quanto tempo ci vuole per comprendere una cucina? Quante volte bisogna tornare in un ristorante, prima di inserirlo tra i “favoriti”? Beh, quando i piatti racchiudono la storia e i gusti delle migliori materie prime, selezionate da amici, prima ancora che da fornitori, si entra dentro una stanza annebbiata da un incenso che crea due effetti: riportarti indietro nel tempo – accade a chi i gusti tipici, quelli veri, li conosce – o inebriarti, sino a spingerti a viverne il “momento zero”, quello della scoperta. In entrambi i casi si deve aspettare una pacca sulla spalla di Piercarlo Ferrero, patron del ristorante San Marco e noto trifulau piemontese, prima di esser riportati al mondo, ovvero in sala.

Il San Marco di Canelli, culla del vino Moscato, nel 1969 è osteria, diventerà ristorante dopo l’incontro tra Piercarlo, appena ventiduenne, e la diciottenne Mariuccia Roggero. Che si appassiona alla cucina, la studierà, sviluppando i gusti delle materie prime piemontesi che scoprirà giorno dopo giorno. Così facendo inventa nuove ricette e gusti che ammalieranno anche Gualtiero Marchesi di cui ne ricorda ancora oggi insegnamenti e consigli. 

Nel 1989 arriva l’ottenimento della prima Stella Michelin, un riconoscimento che accende i riflettori sulla coppia che diventa così una tappa indiscussa per i turisti stranieri, e non, che da lontano sognano la battuta, i cardi di Nizza, la fonduta, i plin, il bollito, la bagna cauda. Piatti, tutti, che nella stagione autunno – inverno sono innevati da una tempesta di tartufo.

Divisionismo (storico) gustativo

Per intenderci: trent’anni fa il cannellone ripieno di baccalà o il cardo proposto come tartare assieme all’uovo poché erano “innovazione”.

Michelin assegnava l’ambito riconoscimento valutando parametri che, nel tempo, sono mutati. Forse. Fatto sta che, arrivati a quella cucina poi definita  “contemporanea” è subentrata (anche) la ricerca, sia in termini di cotture che di materie prime. Il San Marco non si è mai allontanato dalle sue origini – è rimasto un ristorante classico – continuando a proporre i piatti che lo hanno reso celebre per trent’anni, quelli consecutivi di stella Michelin, affiancando a poco a poco nuove proposte che comunque non lo hanno mai reso catalogabile come “ristorante con cucina moderna”. La spaccatura in termini di percezione è piuttosto netta ma, alla base, ci deve comunque essere la qualità, in termini di sapori e cotture, al netto della creatività. 

Ordunque il San Marco è un ristorante che è riuscito a creare una propria e solida identità, e che non lascia dubbi circa la qualità. È rovente la passione che coinvolge tutti, dagli addetti in sala alla cucina, quando si presentano i piatti simbolici che definiamo come “per sempre in carta” ossia gli agnolotti “plin” al tovagliolo, cremosi e gustosi in cui la sottile velina di pasta raccoglie la carne magnificamente accompagnata dal brodo; ma anche i mitici tajarin ai 40 tuorli che si palesano come fili lunghissimi, disomogenei tra loro e per questo ancora più divertenti, da scoprire in un gusto che appare come una nuvola, il cui sapore rimane come sospeso. Indimenticabile: ecco il valore della ricetta.

La stessa sensazione arriva con il bollito misto di bue grasso accompagnato da verdure e bagnetti della tradizione in cui la carne non solo è come un mantello di sapori, ma è anche un esempio per chi consuma con una sola mano: la carne si sfalda, come il burro. E cosa dire dell’assaggio fatto di finanziera nobile astigiana? Delicata, pura, e fin leggera grazie a quella goccia di Marsala aggiunta, che regala una sorta di accelerazione acetica.  La conferma della luce tradizionale arriva con la bagna cauda piemontese, saporita e un poco troppo oleosa, ma certo emozionante e ossequiosa nei confronti della tradizione.

Ciò detto, lo scorso anno il ristorante ha perso la stella. Dal canto nostro, ci limitiamo a qualche piccola esortazione: puntare più sui piatti tipici, impreziosire la carta dei vini e inserire, pacatamente e senza troppe misture, nuovi piatti, così che, dopo il gelo causato dalla pandemia, sul ristorante possa tornare a splendere il sole e, chissà, anche la luce di una nuova stella.

La Galleria Fotografica:

Un bistrot con cucina d’autore nel caos dei Navigli milanesi

Rebelot in dialetto milanese significa caos, confusione e rende alquanto l’idea dello spiazzamento ( in senso certamente positivo) che potrebbe colpire gli avventori del Bistrot voluto da Maida Mercuri – già fondatrice del vicino Pont De Ferr –  e Alberto Cirla.

Un posto vivace, giovane, dinamico, non banale come lo chef Matteo Monti. Passione da vendere, ottimo talento e curriculum di tutto rispetto con importanti esperienze, tra gli altri, da Paolo Lopriore e Davide Scabin. Difficile definire che luogo sia precisamente il Rebelot. Visto da fuori potrebbe sembrare uno dei tanti ristorantini, spesso senza arte né parte, che affollano il naviglio di Ripa di Porta Ticinese.

Gli interni in legno e mattoni, fitti di bottiglie infondono una piacevole sensazione di calore. I tavoli sono piccoli, la mise en place spartana e su tutto fa bella mostra di sé il bancone bar da cui il bravissimo Nicola Onorato miscela i suoi fantastici cocktail. Si beve bene al Rebelot. Grazie ai drink di Nicola e a una carta dei vini che di scontato e banale non ha nulla. Si beve bene al punto che qui si può venire anche solo per gustare un drink, accompagnandosi con snack o con taglieri di salumi o formaggi davvero ottimi.

Ma al Rebelot c’è anche una cucina davvero interessante. Nella seconda sala, alle spalle del Bar, c’è la piccolissima cucina a vista in cui Matteo Monti con il suo staff, muovendosi alla velocità della luce, prepara quelli che in Carta sono definiti timidamente  “piattini”,  ma che in realtà sono portate in grado di comporre percorsi di degustazione di ottimo livello. E basta poco per comprendere che non siamo nel solito dozzinale  localino da movida dei Navigli, ma siamo al cospetto di un fior di chef.

Qui si beve bene e si mangia meglio

Fantastico il Bollito di cui Monti presenta una versione assolutamente impeccabile e rispettosa della tradizione. Intrigante l’Animella al burro con Topinambur e Panettone, piatto goloso e originale, da rimarcare anche la cottura perfetta della lussuriosa Anatra alla Ticinese.

Una serie di assaggi molto stimolante, una cucina che non annoia mai, una sequenza che non segue necessariamente un filo logico, ma che è capace di recapitare notevoli stimoli al palato, piatti equilibrati, ma ricchi di contrasti di temperature e di consistenze.

Certo, non tutto è perfetto. Al Polpo non ha giovato la temperatura troppo bassa della stracciatella e il brodo Thai, servito in accompagnamento all’eccellente Bollito ci è parso fin troppo scarico. I dessert, poi, nel complesso non ci sono sembrati all’altezza del resto. Ma ci sentiamo di definirli, nel complesso dell’esperienza, dettagli.

La verità è che al Rebelot si beve bene e si mangia meglio. Al punto che abbiamo per un attimo avuto la tentazione di chiedere a Monti cosa volesse fare da grande….ma poi abbiamo desistito.

La galleria fotografica:

La vera prova dei cuochi di alta cucina è sulle pietanze popolari, che riservano spesso gradite sorprese

Metti una domenica a pranzo, quando la bruma ed una leggera pioggerellina avvolge la provincia varesotta. Quale giornata migliore per un tripudio di bolliti?

Locale pieno, sold out da tempo. Con tanta convivialità, un rumore assordante, parecchia voglia di fare festa. E con l’accoppiata magica, bolliti e Champagne. Uno internazionale e l’altro, che Champagne non è, l’intruso italico non convenzionale. E poi un Pommard, vino ruvido e scalpitante di Borgogna, a chiudere il cerchio.

Il menù della giornata si articola partendo dagli animali da cortile… Galletto e anatra per poi approdare ad un tripudio di fassona, con il cappello del prete di manzo, lo stinco anteriore di vitello e il biancostato di fassona.

Non può mancare infine un tour completo del quinto quarto: lingua e testina di vitello, lampredotto, mortadella di fegato, sanguinaccio fatto come un marzapane (pane e sangue, non patate) e cotechino. Per finire in dolcezza, qualche pezzo selezionato di esofago e stomaco.

E per i dessert… piccola pasticceria (tegole alle mandorle, tegole alla liquirizia, madleine de commercy, cannoncini) e una duplice golosità a base di linzer tart e croque en bouche.

Ci vogliono giornate come questa, la domenica che torna domenica della tradizione italiana.

Speriamo in altri appuntamenti di questo tenore, e non soltanto qui!

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Recensione .

Ehilà!
Il miglior bollito dell’anno!
Ma non solo per un gran bollito alla Trattoria Rovello 18, Trattoria per modo di dire, ma che mi riconcilia con una ristorazione milanese piena di fuffa.
Qui al Rovello 18 anche per vivere qualche ora in un ambiente raccolto e familiare, per la sincera affabilità del patron, per divertirsi a scegliere un paio di bottiglie dalle vaste carte dei vini (con ricarichi severi però…) e per l’atmosfera amichevole che si crea spontaneamente quando si incontrano sapori veri da gustare in santa pace, lontani dalle ansie e dalla fretta del centro città.

Però ricordiamoci che siamo comunque in centro, con i suoi costi ed i suoi ritmi, e quindi per riempire a nastro la trentina di coperti disponibili nelle due salette bisogna anche pensare alle mode ed alle supposte necessità dei manager in divisa e delle modelle in dieta.
Saranno quindi almeno sessanta le proposte descritte a penna sul menù.
Nonostante ciò non manca mai qualche pirla che entra e fa domande del tipo:
“Cosa c’è di buono oggi?”
“Qualcosa di diverso oggi?”
“Quali sono i piatti del giorno ? “

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