Passione Gourmet Bistrot Archivi - Pagina 4 di 10 - Passione Gourmet

Racines

Era uno degli enfant prodige italiani protagonisti della scena parigina. Oggi, con il passare degli anni, è diventato  un uomo adulto, un cuoco fatto e finito, che ha modificato in maniera significativa la sua cucina e il suo modo di porsi dai tempi del Roseval.

Da Racines Simone Tondo propone una cucina molto più semplice, con meno fronzoli e orpelli, e si concentra decisamente più sul gusto. Anche perché, è bene ricordarlo, questa deliziosa bomboniera in Passage des Panoramas ha spazi, e conseguentemente accessori di cucina, estremamente ridotti.

Con il fuoco primordiale e poco di più, Simone ci delizia con una cucina profondamente italiana, a tratti anche agricola e ruvida, come il luogo giustamente impone.

Una cucina in cui non manca il guizzo, certamente, come nel Gazpacho scampi e limone, in cui la punta di pepe di Gianni Frasi dona eleganza al piatto, nel bonito, un piccolo tonnetto, servito con cocomero e sesamo, o nelle Linguine con guancia all’origano, olive, pecorino e pomodoro. Piatto tutt’altro che greve, come l’immagine farebbe presagire.

La freschezza e la leggerezza dei dolci – a dispetto di ciò che la tipologia potrebbe far pensare – insieme a un servizio alquanto preparato e accogliente, seppur fin troppo sbrigativo, coniugano un luogo davvero incantevole, che meriterebbe degli spazi meno angusti.
Nota dolente? Il conto, impegnativo per la tipologia di locale. Ma una visita a questo delizioso mignon non dovete proprio mancarla quando sarete a Parigi. Evviva Simone Tondo, evviva Racines!

La galleria fotografica:

Eravamo tre amici al bar, ora abbiamo un bistrot alla moda, a Milano

Porta Romana bella. Il quartiere di Milano vicino alle Mura spagnole è sempre più vivace e ricco di locali degni di attenzione. Come il Dabass, ristorante, bistrot, american bar con un nome che più milanese di così non si può. Un ambiente moderno e insieme retrò, comunque giovane e dinamico. Il primo colpo d’occhio è sul bancone optical in piastrelle bianche e nere, opera dell’artista Graziano Locatelli. Cameriere con piercing, cuochi e barman hipster. “Barbman” intraprendenti. In sala l’accoglienza è curata da Maddalena Monti, padrone del bancone è il bartender Robi Tardelli, in cucina lo chef è Andrea Marroni, e tutti e tre provengono dal Mam della vicina via Muratori. La cucina neo-bistrottiera è più appagante alla vista che al gusto, a tratti scomposto e non coerente con il modello di bistrot moderno e creativo. Ma ha tutte le potenzialità per crescere velocemente. La formula del locale è interessante e la scelta della materia prima anche. Vedi la carne del Macellaio Sergio Motta.

Un american bar dove mangiare (quasi) come a casa

Abbiamo degustato diversi piatti: Cacio e pepe, coratella e carciofi, la pasta era fredda, la coratella troppo asciutta. Gustoso l’Uovo poché con crema di risotto alla milanese e guanciale croccante. Tuttavia, abbiamo trovato un eccesso di cremosità tra l’uovo e la crema alla milanese. Più convincente il Baccalà mantecato con spuma di latte. Tra i piatti più interessanti il Puccia ragù, mini hamburger commisto con la tradizione della Puccia salentina innestata con gli sfilacci di vitello, la scamorza e il cavolo nero. Eppure anche qui si insiste troppo sulla cremosità e sull’impiego del cavolo nero.

Insomma Dabass ha tutte le carte in regola per imporsi, come tra l’altro sta avvenendo come un locale “alla moda”, che per ora ha centrato l’obbiettivo soprattutto sul lato del beverage, mentre il menu, che comunque varia di frequente, non è ambizioso quanto il costo dei singoli piatti fa intendere (in media 18/20 euro ciascuno).

La galleria fotografica:

La prima succursale di Cannavacciuolo: un bistrot comme il faut

Il termine bistrot, oggi molto abusato nella ristorazione, viene associato a una tavola economicamente accessibile, poco formale o, come nel caso del coinvolgimento di un grande cuoco, a una sorta di versione low cost del ristorante principale, una (preziosa) vetrina accessibile a una ampia e disparata gamma di clienti.

Raramente però evoca quello che forse è il significato più autentico da cui nasce il termine transalpino, ossia un caffè/osteria con vini alla mescita.

Ecco, il bistrot di Antonino Cannavacciuolo, tavola pilota delle sue aperture “pop”, che esprime al meglio il vero significato di bistrot.

Dopo essere entrato nelle case di molti italiani, facendosi amare dal pubblico di tutte le età per la sua genuina presenza, Cannavacciuolo ha deciso di ampliare il suo raggio d’azione – per il momento all’interno dei confini sabaudi – cavalcando l’onda del successo televisivo, con due poliedriche succursali del suo bellissimo ristorante sul Lago d’Orta. E, neanche a dirlo, il successo non si è fatto attendere.

Certo, è inutile ribadire quanto lo chef partenopeo sappia il fatto suo in cucina e, soprattutto, quanto sia bravo come ristoratore. Il progetto novarese, sorto negli spazi del foyer dello storico Teatro Coccia, ne è una piacevolissima conferma. Anche al di sopra delle aspettative.

Sala piena, servizio rapido e piatti all’altezza

Il fatto che ci facciano aspettare qualche minuto per (ri)apparecchiare il nostro tavolo (al secondo turno!), servendoci al bar una bollicina e una eccellente pizza fritta, ci fa subito capire che siamo al cospetto di una piccola macchina da guerra. La sala è piena, ma tutto scorre con ritmo incalzante. Nel menu gli antipasti, i primi, i secondi e i dolci sono suddivisi in metaforiche categorie teatrali, ouverture, musical, opera e balletto.

La cucina, affidata al bravo Vincenzo Manicone, viaggia in parallelo con lo stile proposto al Villa Crespi; i piatti sono equilibrati e armoniosi. È una cucina solida ed elegante, caratteristica, quest’ultima, che ha sempre contraddistinto lo stile dello chef partenopeo.

Ad esclusione del sapore evanescente di uno degli stuzzichini iniziali e del pre-dessert (una spuma al basilico e limone), abbiamo apprezzato praticamente tutto: dalla rotondità degli Spaghettoni con trippa, burrata e gamberi rossi, ai domati contrasti fenico-acidi del Risotto con ricci, cavolfiore e tuorlo d’uovo marinato al bergamotto, fino al classico Capocollo di maialino con zucca e aglio nero. Interessanti e moderni anche i dolci, a tratti anche più audaci dei piatti salati, inclusa la golosissima piccola pasticceria nel finale.

Troviamo intelligente anche la politica sui ricarichi delle bottiglie. Assolutamente in linea con i prezzi (contenuti) dell’intera offerta. Bravi.

Il servizio è ben oliato, sebbene si mostri un po’ distaccato e sbrigativo (forse c’e qualche coperto di troppo?); gli ambienti sono poco ariosi e gli spazi ridotti, anche se i dettagli degli arredi sono curati e conferiscono al luogo una identità ben definita.

Un’esperienza complessiva decisamente di qualità.

La galleria fotografica:

Modernità e sostanza a Roma, nel Ristorante neo-bistrot di Davide Del Duca

Montagne russe. Susseguirsi disordinato di salite e discese. Un percorso che molti ripeterebbero continuamente. Picchi di gioia, stupore, spensieratezza. Come ogni cosa, destinata a non piacere a tutti.

Non distante dal quartiere di Porta Portese, quattro ampie vetrate affacciate su strada preservano un locale delineato da freschezza e modernità minimale. Osteria Fernanda si presenta con un design contemporaneo e una proposta da ristorante neo-bistronomico, con un’ampia cucina a vista, regno dello chef Davide del Duca. Un timbro culinario attento alle tecniche moderne, ai contrasti spiccati e agli ingredienti ricercati (anche internazionali), ma radicato nei gesti autentici della tradizione laziale.

Gli amuse-bouches sono una convincente anteprima dell’intero percorso. Segue la piadina di sole cozze ripiena di burrata e ombrina: un piatto che trova nel gel di pompelmo rosa, nell’alga wakame e nel nasturzio il giusto slancio di sapori iodati. Rotondo e sostanzioso il gusto dell’animella accentuato dalla frizzante polvere di fragole. Cottura da manuale per il risotto alle erbe: acidità spinta, attenuata dal gelato al formaggio Conciato di San Vittore del produttore Vincenzo Mancino. Il miso esalta il tutto, in un assolo conturbante. Solido e avvolgente lo spaghettone con melanzana bruciata (ad evocare un nero di seppia vegan) con crudo di gambero rosso, pistacchi e coriandolo. Spigoli gustativi accentuati e carni succulente, sia nell’anguilla laccata con verdure al bitter; sia nel piccione al Bbq con fegato di rana pescatrice e limoni di mare. Sapidità, dolcezza e acidità in progressione.

Dolci dinamici, contaminati e poco zuccherini, come l’ottima spuma di aglio nero, gelato alla birra, bucce di tuberi e crumble di cioccolato. In sala regna l’ordine con massima attenzione per l’ospite, merito di Andrea Marini e Manuela Menegoni, che curano una brillante cantina di oltre 250 etichette: accontentando ogni gusto, voglia o necessità enologica. Osteria Fernanda non può piacere a tutti e non ha la presunzione di farlo. Lo stile della cucina è ben definito e stimola con estro il palato ad ogni portata. Senza ombra di dubbio uno degli indirizzi, per genere e identità, più convincenti della Capitale.

Un neo-bistrot Milanese con un cuoco di talento, ambiente giovane e dinamico.

Basta vedere la foto di apertura per rendersi conto di quanto al Rebelot sia un miracolo ogni cosa. Vedrete sfrecciare Matteo Monti, il cuoco, a 200 all’ora durate tutto il servizio. In una cucina angusta a dir poco, tutti si chiedono come il folletto piacentino riesca ad impressionare clienti affezionati e non con le sue preparazioni.
Cibi e piatti complessi, articolati, frutto spesso di intuito e istinto. Non sempre perfettamente bilanciati ma, ça va sans dire, è già un miracolo che da quei 4 metri quadri esca una cucina decente, figuriamoci alcuni capolavori come Matteo ci ha preparato.

Difficoltà, costrizioni, concessioni, compromessi? Noi, più che il lato oscuro della forza, parafrasando una nota saga fantascientifica, ci vediamo tanto sentimento, tanto istinto, tanta voglia di fare in una condizione disinibita, fin anche irriverente, quasi pulp.
In questo rebelot (confusione, guazzabuglio per i non meneghini) Matteo e i suoi collaboratori hanno mille alibi, ma non ne usano neanche uno. Osano, rischiano, creano, sperimentano. E si muovono con la libertà dei grandi, di coloro che sono sereni perché non hanno nulla da perdere, che sono afflitti, anzi stimolati, dalla trance agonistica di finire sani e salvi ogni servizio.

Ed allora ecco roteare mani, correre a destra e a manca, estrarre, cucinare, rigenerare, lanciare, depositare e poi via, verso un nuovo piatto, verso un nuovo affanno.

Tutto questo genera una tensione immensamente positiva. Noi, un venerdì sera da fully booked, al banco, abbiamo visto Matteo fare almeno 10 km in quei 4 metri quadri. E riuscire a farci degustare dei veri e propri capolavori come ombrina, cozze fritte, brodo di cozze e cacio e pepe, in cui il brodo, intenso e persistente – e leggermente acidulato – aveva un ruolo da assoluto protagonista. Fantastica, stupefacente, ed irridente la schiacciata romana con il diaframma e ottime le alici fritte, con il tocco di pan d’epices a donare aromaticità e dolcezza.

Ma tutti, davvero tutti i piatti tutt’altro che banali oltre che incredibilmente buoni. E a questo punto, per i rischi che si prende, per la cucina che esprime, per l’ambiente in cui lavora e, non ultimo, per un solido e preparato servizio a supporto, abbiamo deciso di arrotondare in eccesso la valutazione, perché secondo noi Matteo e la sua cucina se la meritano ampiamente.

Se volete trascorrere una serata divertente, stimolante e molto Pulp andate al Rebelot, non ve ne pentirete affatto!