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Monchiero Carbone

Sinonimo di Roero

Situato tra le prestigiose regioni vinicole delle Langhe e del Monferrato, il Roero si estende attraverso colline mozzafiato e paesaggi che si sono guadagnati il riconoscimento come patrimonio dell’umanità UNESCO. La terra stessa, composta in gran parte da calcare argilloso con abbondanti tracce di sabbia, racconta una storia geologica affascinante, con stratificazioni fossili risalenti a 250.000 anni fa, quando questa regione era il fondo di un antico mare che, ritirandosi, ha lasciato stratificazioni fossili di conchiglie, ricci e pesci. In questo contesto si inserisce l’azienda Monchiero Carbone, fondata nel 1987 da Marco Monchiero e Lucetta Carbone, azienda che a ben vedere si tramanda di generazione in generazione già dai primi del ‘900 e che oggi è condotta dal figlio della coppia: Francesco.

La cantina ha continuato a espandersi nel corso degli anni. Si è infatti riportata l’Arneis sulla collina di Renesio, zona in cui si crede abbia trovato i natali questo vitigno, e si è impiantato il Nebbiolo nella frazione di Anime. Francesco ha anche ampliato i vigneti di Monbirone e Printi e sviluppato una tenuta di ben 10 ettari a Priocca, sul Bric Genestreto.

La storia di Monchiero Carbone è una storia di passione per il vino e di dedizione nel preservare la tradizione e la cultura del territorio. La cantina da sempre si impegna a valorizzare la diversità di ogni frutto, poiché ognuno nasce da colline e appezzamenti differenti, portando in sé una sfaccettatura sempre unica e irripetibile del territorio. Partendo dal terreno, considerato un microcosmo, la cantina abbraccia una gestione agronomica basata sulla sostenibilità ambientale, per garantire la salute del terroir e la massima qualità del frutto a cui dà vita.

Una filosofia ben incastonata sull’etichetta di ogni bottiglia, attraverso un antico adagio piemontese: “OGNI USS A L’HA SO TANBUSS” – ogni porta ha il suo batacchio – a sottolineare l’unicità della cantina e il suo impegno nel preservare la storia e la cultura del Roero.

La Degustazione

Cru ‘Printi’, Roero Docg Riserva 2019

Di colore rosso rubino carico, questo vino sorprende subito al naso per la sua grande complessità. Rosa, ciliegia sotto spirito, lampone, cacao, liquirizia e ancora note balsamiche di menta. Il tannino è fine, disteso e piacevolissimo, l’acidità ben presente. Nel complesso un vino rotondo, di estrema bevibilità ed eleganza, con attacco e media bocca davvero notevoli.

Grand Cru ‘MonBirone’, Barbera d’Alba Doc 2019

Il colore rosso rubino è pressoché impenetrabile, con vaghi riflessi violacei che emergono in cerca della luce. Al naso risulta un vino molto fruttato, con la ciliegia bene in evidenza. Seguono note più scure, di sottobosco, bacche di ginepro. Il tannino è molto delicato, ottima l’acidità e, nel complesso, la bevibilità di questo vino.

Grand Cru ‘Renesio Incisa’, Roero Arneis Docg Riserva 2019

Di colore giallo paglierino brillante, questo vino si esprime al naso con particolare eleganza. Agrumi, pepe bianco, salvia… note che ritroviamo anche al palato, in un ottimo equilibrio tra morbidezza, acidità e potenza.

Cru ‘Cecu D’la Biunda’, Roero Arneis Docg 2022

Il colore è un giallo paglierino carico, intenso come il naso che rivela poco dopo. Ananas, note agrumate, eucalipto, sambuco e ribes bianco. Un vino piuttosto morbido e voluminoso, profondo, dalla personalità decisa e dalla grande piacevolezza.

* I vini dell’azienda Monchiero Carbone sono distribuiti da Partesa.

L’enoteca del Roero

Si respira un’atmosfera di solide certezze salendo lo scalone che porta al primo piano dell’edificio (un tempo asilo) che ospita l’Enoteca regionale del Roero, nel pieno centro di Canale (Cn). Ma che ospita anche il localeAll’Enoteca – di colui che è stato capace, con coraggio, lungimiranza e un pizzico di giovanile avventatezza, di “sollevare il velo” e “accendere i riflettori” sulla cucina e sui vini di questa terra, a lungo e a torto considerata la sorella “sfortunata” delle Langhe.

Stiamo scrivendo – chiaramente – di Davide Palluda (classe 1971), un cuoco che, per la sua lunga storia e i tanti traguardi raggiunti, non ha bisogno di presentazioni. Gli appassionati di alta cucina lo conoscono da anni. Coloro che amano i grandi vini pure. Così come anche quelli che si recano in Piemonte per godere della bellezza dell’albese e dei suoi prodotti straordinari. Tutti, insomma, in questi ventisette anni (All’Enoteca ha aperto i battenti nel 1995) si sono seduti almeno una volta ai tavoli di questo ristorante, elegante senza essere affettato, fine senza essere pretenzioso, affascinante senza essere lezioso.

Una solida certezza, quindi, come appunto si scriveva all’inizio. E con ciò, dopo aver brevemente raccontato i piatti e affibbiato un voto numerico, si potrebbe chiudere la scheda e passare ad altro. Ma ci attenteremo invece a proporre qualche riflessione ulteriore, speriamo utile a tratteggiare un profilo più complesso del cuoco e della sua cucina. La prima riflessione riguarda il percorso intrapreso. Palluda e All’Enoteca sono stati i precursori di un modo “altro” e “alto” di interpretare e raccontare il Roero: i locali nati in seguito, così come le cantine e i produttori agricoli, dovrebbero riconoscergli una benemerenza per il lavoro, tanto nel tracciare un percorso di sviluppo quanto di promozione di un territorio, che ha svolto, e che tuttora svolge. Lavoro del quale, a ricaduta, in tanti, e in tanti settori, hanno tratto benefici. La seconda riguarda più propriamente la cucina di Palluda che è stata capace di evolvere negli anni, con costanza: ovvero senza stasi e pure senza strappi. Chi, per sua sventura, mancasse da tempo dai tavoli di All’Enoteca non faticherebbe a ritrovare uno “stile Palluda” nell’attuale proposta, uno stile che, non “passatista”, si esprime attraverso piatti al passo coi tempi. La terza riguarda più strettamente quello che abbiamo chiamato “stile Palluda”.

Davide non è un avanguardista funambolico. Il suo stile, di formazione classica (lo si può evincere, per esempio, dai Gamberi viola avec suace béarnaise), si esprime, quasi femminilmente, attraverso piatti seducenti e romantici che, nati da un’idea o da una suggestione (suscitate da un prodotto, da una ricetta di tradizione, da un abbinamento consolidato), prendono poi forma nell’incontro degli elementi. Gli esempi potrebbero sprecarsi, e qui ne facciamo giusto un paio. Un’idea, suscitata dalla materia prima, è appunto quella di assaggiare il Fassone Piemontese «dalla testa ai piedi». Una suggestione foresta quella di accompagnare l’agnello alla brace alla mediterraneità della foglia di cappero e di una salsa, di origine marocchina, a base di limoni salati e fermentati. La quarta considerazione riguarda la capacità che Palluda ha dimostrato nel saper industriare il proprio lavoro. Nel 2006 – infatti – insieme alla moglie Annalisa, ha aperto un suo laboratorio (cosa normale per i cuochi di oggi, ma non così scontata quindici anni fa) ove «mettere in barattolo quei sapori che andava studiando e proponendo al ristorante», secondo materia prima, tecnologia e ricerca. Una quinta riflessione riguarda la capacità di Palluda di essere ‘maestro’. Tanti sono i giovani che sono maturati nelle cucine di All’Enoteca: Enrico Marmo, Stefano Paganini, Andrea Bertini… (à propos, segnatevi questo nome!), solo per citarne alcuni fra mille. E tutti concordano nel riconoscere allo Chef grandi doti didattiche e umane.

Il piatto e il gusto

La carta di All’Enoteca non è vastissima, e propone anche un percorso di degustazione di otto portate (a un prezzo più che onesto: 110 euro) e, in stagione, una selezione di piatti di tradizione (cocotte di uovo e fonduta, tajarin…)che «abbracciano perfettamente il tartufo bianco». Sia che si scelga à la carte sia che si proceda col menù si andrà comunque incontro a piatti eleganti, ben pensati, preparati con materie prime di qualità, ben realizzati (uno degli atout di Palluda sono le cotture millimetriche) e dai gusti netti. Profumi e sapori di Roero, Langa e Liguria sono i protagonisti ma altri attori che giungono da più lontano, come per esempio nel caso del già citato agnello, fanno degna comparsa, variando con intelligenza su una partitura consolidata da metodo, tecnica e professionalità. Così se la Finanziera è una delle più buone che si possa mangiare – riconoscendo solo a quella «di Renzo» dell’Antica Corona Reale, a Cervere (Cn), il primato assoluto – i Ravioli di animella (aiutati anche dal tartufo nero) e i Ravioli di fagiano si dimostrano un concentrato di gusto. Di bella costruzione, nel susseguirsi in bocca delle diverse consistenze e dei diversi profili aromatici tendenti a un amaro clorofillico, è l’Insalata di lumache con prezzemolo, levistico e mela verde, addolcita dalle coscette di rana fritte in accompagnamento. Un tecnicismo più scoperto si avverte nella parte finale del pasto: dolci e piccola pasticceria, da sempre uno dei cavalli di battaglia di Palluda. La Crema affiorata, nel suo abbinamento a una estrazione di foglie di fico, richiama da un lato il profumo delle robiole affinate nelle lobate foglie del Ficus carica, dall’altro pare riprendere e approfondire uno spunto uliassiano (l’ormai nota «pasta alla Hilde»). Mentre il giocoso carrello della Petite pâtisserie, nella sua lunga teoria di pastine, cannoncini, dolcini, dolcetti, cioccolatini, frutta sotto spirito e chi più ne ha più ne metta (insomma, una goduria per i golosi più impenitenti!) mostra, con giusto orgoglio, le indubbie capacità pasticciere della cucina.

A contorno di tutto ciò c’è poi un buon servizio, giovane e volonteroso, che ruota più che bene sotto lo sguardo di Ivana Palluda, sorella di Davide. E una carta dei vini che, seppur non immensa per ciò che è al di fuori del Piemonte, lo è invece per la regione sabauda. Sicché fra Baroli, Barbareschi e Roeri (come, per esempio, una eccelsa Riserva Trinità, annata 2009, di Malvirà, consigliata con competenza da Davide, e che difatti nulla ha da invidiare alle etichette dell’altra sponda del Tanaro) non si faticherà a trovare una degna bottiglia per accompagnare sì tanta cucina!

La Galleria Fotografica:

Uno dei più grandi interpreti delle Langhe

Quando assaggi un vino di Bruno Giacosa tutto quello che credi di sapere delle Langhe viene azzerato. Un uomo schivo che ha sempre mantenuto intatta la sua filosofia produttiva, da sempre noto per la sua inarrivabile capacità d’interpretare i vigneti e le uve che selezionava. Un’arte, la sua, che ha sempre avuto pochi eguali nella zona dell’albese e che sul finire degli anni Cinquanta, e sopratutto nella decade successiva, lo ha visto diventare un’icona, un punto di riferimento del Barolo e Barbaresco, un protagonista, tra gli attori delle due super denominazioni delle Langhe, ma soprattutto all’estero. Ripudiava la botte piccola, così come l’idea di impiantare cultivar francesi; ma ciò non ha mai fermato la sua curiosità. Ben noto infatti, oltre i rossi, il suo – perché si fregia del suo nome – metodo classico prodotto con uve dell’Oltrepo Pavese. Ma non è questo il punto. Con Giacosa, e con la sua magica etichetta rossa, ad esempio, o le bianche, è sempre un ritorno alle origini o, forse, un viaggio in un mondo parallelo per entrare nel “Matrix delle Langhe”, nella gola del nebbiolo. 

Lo stile “giacosiano”

Il solo uso delle botti grandi realizzate da querce francesi, e la fortuna di riuscire a riempirle, lo hanno reso identificabile e decifrabile sin dagli esordi. Tant’è che oggi si parla di “stile giacosiano” o di “giacosiano” quando incontriamo vecchie bottiglie o quei giovani enologi che hanno passato qualche primavera nelle cantine assieme a Bruno e a un altro sommo talento della cantina, Dante Scaglione: enologo che, tutt’oggi, accompagna questi vini nella loro definizione, pulizia e che, con un tocco di austerità, li rende eternali. Giacosa, mancato all’età di 88 anni, ha lasciato in suo ricordo una Langa difensiva e combattiva, valori che portano ancora avanti il pensiero storico e tutelano le denominazioni.

Come detto, grazie alla sua capacità di selezionare, è stato tra i primi ad aprire la strada ad imbottigliamenti più specifici, quelli dei singoli cru, come si faceva in Borgogna, insomma. Ma oltre alle prime vinificazioni  – la prima è del 1967 –  ci sono stati gli acquisti di Asili e Rabajá nel 1966 e più tardi del vigneto Falletto, a Serralunga d’Alba (1982). Una mente geniale che, in quel di Neive, consigliava i colleghi su dove e come piantare Dolcetto – da lui sempre portato in tavola a pranzo – e Nebbiolo. La sua eredità è anche in questi pensieri, ricordati dai produttori albesi e, beninteso, nelle bottiglie che i collezionisti conservano con dedizione, siano essi semplici appassionati o professionisti della ristorazione, sebbene il suo volto non sia mai stato molto familiare al settore dell’Ho.Re.Ca.

Vini che rappresentano un sentimento che riporta alla scuola, agli insegnamenti, e a un passato che ti inseguirà sempre, e che chiunque nelle Langhe, per sempre, ricercherà, immobile nelle proprie certezze ma punteggiato di etichette che ancora riescono a stupire, forti di quanto accaduto negli anni ’60 quando i Barolo e i Barbaresco di Giacosa riuscirono ad imporsi nel mercato europeo e statunitense e a fare di lui un uomo che, ancora oggi, continua ad essere un grande Ambassador del vino italiano.

Bruno Giacosa: la produzione

Oggi gli ettari vitati di proprietà ammontano a una ventina, spalmati tra i comuni di Serralunga, La Morra e Barbaresco riconoscibili in etichetta per la dicitura “Azienda Agricola Falletto” ma anche da altre zone e quelle uve dei conferitoti storici, e nel Roero, dove si produce un soffice e godurioso Nebbiolo d’Alba in quello che viene considerato come il grand cru del Roero, la vigna Valmaggiore. Il protocollo di vinificazione prevede per tutti i vini, basse rese, macerazioni di almeno tre settimane e affinamenti in legni esausti e grandi di rovere francese. Ogni annata, a seconda dell’andamento climatico e della espressività dei diversi vigneti, vedrà vinificazioni e un’uscita nel mercato diverse per frazionare la produzione catalogandola con etichette bianche o rosse, queste ultime destinate solo alle Riserva.  

Barbaresco Docg Asili 2015

Un sensazionale tannino, fitto e puntellato, totalmente avviluppato da un abbraccio di frutti blu; postica la verticalità del sorso, che resta salace benché modulata dalla sua stessa stilistica, riconoscibile per la sua accurata eleganza. 

Barbaresco Docg Rabaja’ 2014 

Tra linguaggio e disegno, un vino che esalta le differenze, rispetto agli altri Rabaja’ che troviamo in Langa, e la certezza di una precisa fattezza oggi già aperta e isolata in un gusto doppiamente saporito. Una polpa carnosa, tra aromi dolci e speziati, si amplia continuamente. 

Barolo Docg Falletto Vigna Le Rocche 2012

Una potenza e una struttura intellegibili, è magnetico in una percezione spaziotemporale lunghissima, prolungata ancora da uno stratto più boschivo e umido. Agisce direttamente sulla mente, tra un richiamo boisé e di bacche blu, e si proietta tridimensionalmente al palato senza dimenticare la sua firma: il controllo assoluto e l’integrazione.

Barolo Docg Falletto 1997

Dal naso al palato, questa dolcezza fragrante è costruita in una sequenziale e uniforme successione di frutti e spezie: amarena, mirtillo e cumino, tutti spalmati con petali di rose. Sorso morbido, ravvivato da tannini gessosi e finissimi, intimi con un corpo che diventa più cupo e terroso. Arriva il momento di cogliere il gusto dell’evoluzione, forse un po’ accentuata ma governata ancora da una buona acidità. Il sorso restituisce complessità e raffinatezza con il frutto ancora in primo piano e tannini larghi che si fanno strada tra erbe aromatiche e note ematiche.

Tecnica, eleganza e piemontesità

Alcune cose sembrano semplici ma a ben vedere semplici non sono. Prendere una cucina tradizionale, nobile e di grande complessità, alleggerirla, renderla moderna, elegante. Può sembrare facile. Ma non lo è.

Molte persone – e conseguentemente tanti cuochi – amano apparire, vivere sotto le luci della ribalta più che nelle cucine dei loro ristoranti. Non è il caso di Davide Palluda – persona estremamente solare e intelligente, educata e gentile – che ai riflettori preferisce ancora vivere in cucina e far sentire i suoi ospiti persone speciali.

Ai piani alti dell’Enoteca del Roero, gli ambienti moderni ed eleganti giocano su tonalità chiare e luminose. Questo è il suo regno. Qui lo chef suona il suo spartito che si fonda su basi territoriali assai solide, innovate da un bel tocco creativo. Una cucina che potremmo definire “alto artigianato” che si sublima in piatti come i ravioli di faraona, ingentiliti dalla nota dolce e lussuriosa del Marsala. Favolosi. Ma tutti i piatti di Palluda sono ricercati ed essenziali, precisi ed eleganti. Pennellate di gusto sempre nitide, mai confuse. Sapori decisi in cui non c’è mai un ingrediente di troppo come nel riso, ginepro e lepre: riso Carnaroli cotto in acqua, mantecato con burro, ginepro e aceto, servito al tavolo direttamente sul piatto dove è gia stato posizionato il ragù di lepre con un ristretto di barbabietola. Chapeau!

L’essenza del gusto senza ruffianerie né effetti speciali

Bisogna ammetterlo: il palato a volte fa fatica a comprendere dove finisca la tradizione e inizi la modernità tanto i sapori restano importanti, decisi, centrali. Così come le consistenze, con la scioglievolezza da manuale di una carne non sempre facile, il capriolo con frutta fresca e cacao fermentato: filetto di capriolo cotto sulla brace lasciato rosa accompagnato da 12 tipi di frutta fresca su cui viene grattugiato il cacao fermentato che serve a dare una nota leggermente ferrosa.

Qui come in altri piatti colpisce la maniacale cura del dettaglio e, in particolare, di ogni cottura come nel caso del rombo, porcini e prosciutto crudo di Cuneo in cui il pesce, cotto sulla lisca, viene glassato con il grasso del prosciutto.

Palluda si conferma, ancora una volta, in uno stato di grazia, il che fa della sua Enoteca una sosta irrinunciabile in zona.

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Un’azienda fedele a se stessa

È una storia che si raccoglie come si guarda l’anfiteatro di vigne davanti alla tenuta ancora oggi gestite dalla diciannovesima generazione della famiglia Cordero. Lo ripetiamo, la diciannovesima generazione.

Dal 1340 c’è sempre una luna piena, visibile e brillante alla fine della raccolta delle uve tra cui non sono mai mancate quelle tradizionali di Langa: dolcetto, barbera e nebbiolo, a cui si sono aggiunte le internazionali, negli anni Ottanta, come lo chardonnay.

Oggi in cantina c’è gloria, e una scelta, certa e ordinaria, in continua ricerca per restare fedeli al proprio stile, in frazione Annunziata La Morra, in una sorta di privé un po’ nascosto dalle dorsali più centrali del Barolo, che spicca sempre, e comunque, tra le stelle della denominazione dove ogni tassello di terra, in autunno, e soprattutto nel bicchiere, si raccontano con i colori delle foglie. Ma, evidentemente, ogni interpretazione d’annata dona, in ogni linea produttiva, un cielo senza nuvole, ossia continuità e costanza al gusto. Accade sia per quelle proposte e vinificate solo in acciaio e sia in quelle destinate a uno sviluppo superiore: Barbera e, ovviamente, le versioni esclusive di Barolo.

È un sogno nel sogno, confermato dalla risposta della natura a cui ci si ispira, con i trattamenti, nelle annate successive, e infatti l’azienda è certificata bio da tre anni. Una verità immensa ed eterna, come l’assaggio delle uve prima di raccoglierle, allorquando sopraggiunta la stanchezza la passione si ravviva quando nell’orizzonte appare il profilo imponente del cedro del Libano che, posto sul bricco del colle Monfalletto, è tra i punti di riferimento sia per chi perde la bussola nelle dorsali nel Barolo sia per chi, invece, la bussola la deve ancora imparare a usare. Un monito amico, della terra, che ricorda e ricorderà sempre, alle generazioni future, l’importanza del tempo e il suo potere.

Qui, ogni filare del corpo unico di 28 ettari davanti alla tenuta, a una vista oculata, mostra mutazioni diverse. Chi è curioso può captare ogni dettaglio. C’è una piccola gobba, ad esempio, visibile dal “belvedere” naturale della cantina, in cui si vede una doppia anima: quella esposta in ombra è infatti adatta per un vino da invecchiamento (chardonnay) di grande polpa e sincerità nel bicchiere anche dopo anni, perché il progetto, da sempre, è quello di realizzare un vino fatto per durare e voluto in un tempo in cui nella denominazione si sperimentava anche con le varietà alloctone. Ed è questo stesso tempo che, oggi, fluttua ancora nelle bottiglie, tra nostalgici raconti di campagna e problematiche d’annata dove si afferma la volontà di esser diversi per donare una visione molto personale. Ecco perché in cantina si opta per macerazioni brevi e lunghi affinamenti, più in vetro che in botte, comunque di varia dimensione per agevolare la naturale evoluzione di un frutto che parla già da sé in embrione ma che in realtà necessita solo un accompagnamento e una direzione per esprimersi tramite il suo linguaggio innato.

All’interno della collina, tra i locali di vinificazione e affinamento, c’è un corridoio: una biblioteca di tutte le annate in edizioni limitate, che chiedono con forza di esser assaggiate. Una scarica elettrica invade il corpo da capo a piede, bottiglie e grandi formati di super Riserve, etichettate con meridiane mostranti le distanze dalle migliori mete del mondo e acquistabili esclusivamente in cantina. Una banca, insomma, che abbraccia un ricordo del tempo che si affina e contrassegna il progetto con etichette volute a tale scopo.

Oggi, sono Elena e Alberto i protagonisti di questa storia, e sono loro che promuovono da subito ciò che hanno nel cuore: un lotto di vecchie viti acquistate dagli avi al centro del  Villero, a Castiglione Falletto. Qui, sono solo 2 gli ettari destinati a un vino il cui nome è in memoria di un sesto figlio di una delle generazioni che si sono susseguite: Barolo Enrico VI. Successivamente si è poi ampliato il parco vigna in Alba e nel Roero, per un totale di 51 ettari totali odierni in cui lo stile è sempre, ed inequivocabilmente, personale, identitario di un’eleganza di frutto sottolineata da un mélange melodico tra diversi legni provenienti da foreste diverse, e di grandezze diverse, che si devono ogni anno  plasmare  tra loro per trovare il matrimonio col frutto. Esibizione mai fuori dai confini ben noti alla famiglia che, mai in maniera shakespeariana, è sempre proiettata alla reinterpretazione di se stessa.

ENRICO VI, BAROLO 2016 VS 1995

Un 2016 giovane ed esplosivo, dopo i primi attimi silenti nel bicchiere, e destinatario di un frutto foriero di un’anima potente e certamente ricca che, animata da una verve naturalmente emozionata dalla sua stessa energia, diventa poi più contenuta grazie al legno. Il rapporto è sempre in favore per quest’ultimo elemento che, nel finale, ritorna con dettagli stilistici inconfondibili, che donano una ascensione elettiva e di vocazione del vigne

Barolo DOCG Enrico VI 1995

La vigna Villero sempre stato e sempre sarà  un simbolo per Cordero.

Nel 1995 l’uva raccolta dichiara ancora oggi la sua  volontà  ma non solo, manifesta la sua radice e ne invoglia la comprensione. Per la sua velata sapidità , per la sua decisiva luce stretta nel suo limite -solo di pensiero – temporale. La balsamicità  ancora netta e il tannino, seppure sottile, amplia con carisma un telaio sensibilmente capace di adattarsi alla vigna e a chi la conosce nelle sue più profonde membra.