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Aida, Chef Koji Aida, Paris (F), Norbert

Recensione Ristorante

La grazia e l’autentico calore, trasmesso attraverso il distillato dell’arte secolare dell’accoglienza, in Giappone sono legge inderogabile.
Un paese dove la forma è sostanza e il benessere dell’ospite diventa chiara soddisfazione personale.
Viene da fantasticare su cosa debba essere fare un’esperienza in qualche grande tempio gastronomico del sol levante.
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Non c’è dubbio che il fenomeno Bistronomie, comparso a Parigi da poco più di un lustro, abbia avuto un effetto dirompente sulla ristorazione della Ville Lumière. Fino ad ora, però, si era creata una specie di frattura fra le grandi tavole, anacronisticamente fossilizzate sui soliti ingredienti e su conti a due-trecento euro, e bistrot dall’ottima cucina ma spesso fortemente limitanti sulle scelte oppure eccessivamente spartani nella proposta. Un dualismo insanabile, anche nella clientela? Non penso proprio, anzi credo che Jean-François Piège, da meno di due anni operativo al primo piano dell’hotel Thoumieux, sia l’ideale candidato a trait d’union fra queste due opposte tendenze.

Se da un lato infatti l’ex chef del Crillon propone, in un ambiente raffinato e raccolto, piatti che ruotano intorno ai capisaldi dell’alta cucina d’Oltralpe, lo fa d’altro canto evitando brigate oceaniche, inutili fasti (per dirne una, la divisa del personale di sala include i jeans) e proponendo al cliente non un menù vero ma un atto di fede in quella che è giustamente chiamata “la règle du je(u)”. Sono presenti solo tre formule, da una a tre portate (più entrata, formaggi e dessert), e all’avventore non viene chiesto di scegliere  piatti ma solo uno, due o tre ingredienti da una lista di sei, senza sapere in quali preparazioni verranno effettivamente serviti (ovviamente al netto di intolleranze o idiosincrasie).

La cucina di Piège, come le premesse annunciano chiaramente, è terribilmente personale, al limite dell’egocentrismo, spigolosa nel gioco degli accostamenti e nell’utilizzo delle spezie. Si muove, spesso sul tema del mare-terra, senza guardare troppo all’equilibrio ma sempre puntando su una grande nettezza, alzando la voce più volentieri di quanto non sussurri, forte di una consapevolezza nei propri mezzi che consente di non precludersi praticamente alcuna sfida. Ne è un esempio il piatto dedicato all’aragosta, accostata senza timore alcuno al fegato grasso. Nessuna paura neppure di annoiare, ed allora la volaglia di Bresse, pur in due servizi, è giocata in doppio misto con crostacei e con le loro bisque, con il gallinaceo dapprima in ravioli con gamberi e poi in suprema e royale con scampi (foto di copertina) con la freschezza dell’anice a moderare (ma direi più ad animare) il dibattito. Il piatto della serata è decisamente, e non per demeriti degli altri, il piccione ripieno di olive e fegato grasso con patate in doppia versione, la chips nasconde quella al forno. In mezzo, esecuzioni mai meno che ottime.

Il reparto dolce, totalmente a sorpresa, conferma il livello tecnico assoluto di questo chef ma non azzarda, puntando, pur con preparazioni dal grado glicemico calibratissimo, più sul carezzevole che sullo sferzante. Niente acidità prepotenti, ma preparazioni confortevoli ed appaganti, emotivamente meno intriganti rispetto al resto della cena. In questo senso mentre la parte salata ci è parsa più vicina al modello bistronomico, anche sul fronte delle presentazioni, certo non sciatte ma non certo studiate per stupire il cliente, i dessert così come il burro a tavola a corollario del fantastico pane (il migliore provato a Parigi) ci son parsi il legame più forte con il passato della grande ristorazione parigina.

L’arredamento in stile coloniale risulta dal vivo molto più fine ed elegante che visto sul sito dell’hotel. Sfortunatamente l’illuminazione è davvero ai minimi storici, tant’è vero che non è risultato possibile avere il minimo sindacale di luce non solo per fotografare i piatti, ma persino per distinguere gli ingredienti nel piatto. Inoltre ho dovuto ricorrere al servizio al calice, conteggiato nell’addizione in modo curioso, e non certo per difetto, semplicemente perché leggere la carta dei vini mi è risultato impossibile con i caratteri minuscoli e con un’ancor più esile candela a disposizione del mio angolo di oscurità. Per fortuna la cucina di Jean-François Piège rende tutti questi dettagli completamente secondari. Per molti Piège è già il miglior chef della città. Il tempo dirà se il pupillo di Ducasse sia destinato a questo trono. Per ora le premesse ci sono tutte

Grignotages, tra cui spiccano la rivisitazione del jambon à la parisienne, il salmone con aneto e wasabi e la crocchetta liquida di lumache alla borgognona.

Aragosta e fegato grasso.

Raviolo di pollo con gamberi e bisque di gamberi all’anice stellato.

Asparagi, granita di parmigiano, cagliata, senza lesinare sull’aglio.

Rombo, carote, cipollotti e crescione.

Piccione e fegato grasso.

Formaggi e cotognata.

A rinfrescare e chiudere con il salato, fromage blanc con fragole…

…per ricominciare con i dolci a parti invertite, vacherin con fragole.

biancomangiare di consistenza straordinaria ripieno di crema alla vaniglia.

crema al bergamotto e frutto della passione.

Lo straordinario pane….

….accompagnato da un burro che non gli è da meno.




Fra gli indubbi vantaggi di rivoluzioni, rivolte e repubbliche varie che nel corso dei secoli si sono susseguite in Francia c’è il fatto che molti palazzi inizialmente appartenenti alla nobiltà siano andati via via non solo allo Stato, ma anche a privati cittadini o ad istituzioni, che li hanno in molti casi messi a disposizione del pubblico trasformandoli in alberghi di lusso. L’hotel de Crillon (inizialmente hotel d’Aumont) fu fatto erigere nel 1758 da Luigi XV insieme agli altri edifici che segnano l’inizio della rue Royale e destinato, come altri dello stesso complesso, a svolgere il ruolo di hotel particulier della nobiltà francese. In esso Maria Antonietta riceveva lezioni di musica e da esso si potè assistere all’esecuzione di Luigi XVI nella prospiciente Place de la Révolution, l’attuale Place de la Concorde. A seguito di passaggi di proprietà (alla famiglia Crillon), di confische rivoluzionarie ed acquisizioni successive l’hotel si è conservato pressoché intatto fino ai nostri giorni, e nella sala delle feste collocata al piano terra è ubicato Les Ambassadeurs, il ristorante di punta dell’attuale albergo di proprietà di un membro della famiglia reale saudita.
Bistellato qualche tempo fa quando le cucine erano guidate da Piège, Les Ambassadeurs ha di recente riguadagnato la prima stella con al timone un giovane chef di neppure trent’anni, il parigino Christopher Hache, passaggi di rilievo da Frechon e dai Marcon. La proposta della cucina è nel solco della grande cucina d’hotel, nel segno di preparazioni eleganti, prevalentemente a partire dagli elementi cardinali che si trovano ovunque sulle grandi tavole d’Oltralpe. Il cavallo di battaglia dello chef è l’eccellente preparazione di fegato grasso d’anatra con funghi (con le prime spugnole). Prima scottato alla plancha, esso viene in seguito messo con jus de volaille, cipollotti, funghi, rape e zenzero in cocotte chiusa con pate a lutter. La cocotte arriva in tavola e impiattata al guéridon dall’ottimo e giovane maitre (dove sono questi maledetti accenti circonflessi sulla tastiera? Detesto doverli omettere!). Il risultato gustativo è complesso oltre ogni aspettativa grazie allo zenzero tutt’altro che comprimario ed a una materia prima eccellente. Una cottura leggermente prolungata non rende giustizia all’ottima volaille du patis nappata con salsa alle spugnole ed accompagnata da patate croccanti farcite con confit di coscia. Un minuto in meno e sarebbe stato un piatto al livello del fegato grasso.
Il resto del pranzo si svolge su discreti livelli, ahimè però assai distanti da quelli del piatto sopra descritto. Accettiamo la provocazione di provare una bourrata in Francia, a quanto pare prodotta localmente da un italiano che non la fa affatto male, un pelo più acida e dalla crosta più spessa di quanto siamo abituati. Il latticino viene accostato a parmigiano e carciofi in versione spadellata e fritta (quest’ultima una tempura di realizzazione piuttosto imprecisa). Buono, anche se al limite di sapidità, è il cabillaud su crema di chorizo, patate schiacciate e chips di ratte.
I dolci provati, inconsuetamente preceduti da null’altro che un bonbon ghiacciato a base di succo d’arancia ed ibisco e seguiti da petit fours piuttosto minimal, si sono rivelati belli, ma privi di mordente e di concezione piuttosto demodé senza essere dei classici. In particolare nel vacherin al rabarbaro e fragoline di bosco con gelato al rabarbaro e chantilly al mascarpone il rabarbaro che mi aveva spinto alla scelta fila via pressoché inavvertito lasciando spazio a sapori da casa di bambole che poco dovrebbero avere a che fare con l’alta gastronomia nel 2012. Meglio, anche se un po’ troppo dolce, la charlotte con fragole in tre modi, biscotto al cucchiaio e composta di banana.
In sostanza un passo a due velocità, una da 16.5 e una da 14 risicato (soprattutto sui dessert). La valutazione, intermedia, sarà dunque eventualmente da riconsiderare in una futura visita. La giovane età dello chef predispone alla fiducia.

L’anonimo amuse-bouche, purea di finocchi su crema di crescione.

L’entusiamante fegato grasso arriva in cocotte lutée…

…che viene aperta davanti al cliente…

…prima di essere impiattata al guéridon e servita.

La burrata, carciofi e parmigiano.

Cabillaud, chorizo, patate schiacciate e chips di ratte.

Predessert?

Charlotte alle fragole, biscotto al cucchiaio e composta di banana.

Vacherin.

Quattrini.

La splendida sala.

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Non ne parla nessuno.
Pur avendo preso in tre anni prima una stella e poi la seconda in un mini ristorante carino ma lontanissimo dall’iconografia tipica della grande table, della Bigarrade e del suo chef Christohe Pelé di recente si è scritto pochissimo in giro.
Eppure si tratta probabilmente della cucina più interessante di Parigi, molto più matura e affidabile di quella di colleghi più mediatici, capace di regalare emozioni senza mai deludere.
Difficilmente catalogabile come classica o contemporanea, perché è chiaramente molto tecnica e “francese” ma anche aperta a suggestioni di altre culture, capace di sfumature sottilissime senza nessun preconcetto.
Venirci è difficile, non solo perché quest’angolo non lontano da place Clichy è (giustamente) fuori dalle rotte turistiche usuali, ma soprattutto perché trovarvi posto è impresa che richiede fortuna o prenotazioni con enorme anticipo. Eh sì, perché quelli davvero furbi tra i gourmet se ne fregano dei consigli dei blogger di tendenza ☺.
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Recensione ristorante.

Giovanni Passerini oltre a essere uno chef con la C maiuscola è anche intelligente. Cosa purtroppo non scontata in questo mondo. Il suo ristorante a Parigi – pardon: bistrot, è veramente nel momento di sua massima espressione. Passerini in cucina fa veramente i miracoli soprattutto per le dimensione dello spazio limitatissimo nel quale opera. Altro che grandi cucine di alberghi pluristellati. Qui siamo in trincea! Possiamo dire che con il Rino diamo veramente il filo da torcere alla nuova tendenza bistroteque di Parigi. Il nostro tricolore sventola alto e non teme confronti. Si avvertono nelle creazioni di Giovanni i trascorsi da Passard, Inaki e Nilsson ma poi lui ci mette del suo ed è bravissimo a dare la propria impronta ai piatti che escono dalla cucina.

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