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M.B.

La succursale isolana del colosso Basco a Tenerife

Martin Berasategui non ha certo bisogno di presentazioni articolate: uno dei pilastri della cucina iberica, o meglio colui che ha imbastito e definito una forma all’alta cucina basca. Il suo omonimo ristorante, a qualche minuto da San Sebastian, è indubbiamente uno dei più noti tra i gourmet, quando si parla della Spagna golosa.
Probabilmente invece, necessita di un racconto un pizzico più approfondito un altro suo ristorante: nonostante le due stelle Michelin, non sono in molti a conoscere M.B., la seconda tavola di Berasategui, a Tenerife. All’interno del Ritz-Carlton Abama, il golf resort di gran lunga più lussuoso dell’isola, M.B. è la tavola di punta della struttura, che vanta un totale di nove ristoranti di cui addirittura un altro stellato, il giapponese Kabuki.

Un Ristorante con la maiuscola

In operazioni come questa, quando una grande catena alberghiera assolda come consulente uno chef famosissimo, spesso è facilmente riscontrabile un alto tasso di… sòla. Ma, per nostra fortuna, non è questo il caso: M.B. si è rivelato molto più di una sciapa consulenza, o di una copia sbiadita della cucina dello chef basco. L’impronta dello chef e il suo stile sono volutamente marcatissimi, ma essi vengono reinterpretati secondo la tradizione gastronomica delle Canarie. Molti dei piatti sono gli stessi già visti a San Sebastian, o comunque ne mantengono nettamente stile e tecniche, eppure gli ingredienti principali sono in gran parte provenienti dall’arcipelago canario. Si prenda, ad esempio, l’Ostrica con granita al cetriolo, un classico – ormai visto e rivisto – di Berasategui, non riproposto pedissequamente, ma leggermente ritarato al luogo e al menu; più un intelligente omaggio che una noiosa riproposizione.

Anche i vini disponibili in accompagnamento seguono lo stesso filone: da una carta davvero mostruosa, suddivisa in fascicoli per tipologia di vino, è possibile scegliere i grandi classici internazionali, ma un pizzico di curiosità in più vi permetterà di scoprire delle notevoli chicche territoriali, consigliati e instradati dal bravissimo sommelier.

Servizio a cinque stelle, e non sentirle

Qualche riga in più di quanto normalmente gli riserviamo la merita il servizio, davvero imbarazzante per stile ed efficienza. Letteralmente in guanti bianchi, si rivelerà durante l’arco della serata per nulla affettato anzi, accogliente, sorridente e professionale, ma soprattutto terribilmente efficiente, senza una sbavatura e in grado di spiegare correttamente in dettaglio ogni piatto, anche a fronte di domande più o meno tecniche.
Ultimo cenno, non meno importante, per il livello del cadre, davvero altissimo. Un ambiente di eleganza rara, che nonostante lo sfacciato lusso riesce a non far sentire il suo opprimente peso, anzi rivelandosi di vibrante dinamicità, non facendo mai mancare un consiglio, due chiacchiere informali o perché no, una battuta di spirito al momento giusto.

La galleria fotografica:

 

Passeggiare per il lungomare di Bahia de La Concha è un modo per interrogarsi sul ruolo da interpretare nella vita. Da un lato le splendide ville liberty lasciano intravedere il fascino di un secolo fa, che con il passare del tempo è andato accomodandosi in silenzio beandosi della sua stessa bellezza. Dall’altro invece, in contrasto a questo perbenismo borghese, il rumore dell’oceano precede la sua ribellione furente, facendosi sentire attraverso il frastuono delle onde e lasciando ricordi duraturi come la schiuma sulla spiaggia. È naturale fermarsi a pensare, inquadrandosi e immedesimandosi in una delle due realtà, a seconda dell’indole di ognuno.
Questa cartolina di San Sebastian esemplifica e riassume in maniera perfetta il moto gastronomico basco, di cui Martin Berasategui rappresenta uno dei massimi testimoni e protagonisti.

A differenza di molti suoi colleghi, Berasategui sembra aver deciso di guardare l’oceano seduto su una poltrona di fine ‘800, analizzandone il movimento con l’eleganza che conviene ad un uomo della sua fama.
Entrare al ristorante Martin Berasategui è un’esperienza importante. I mobili di fine secolo in legno sono ingentiliti dalle orchidee che guardano dall’alto ogni singolo tavolo mentre la cerimonia di sala, in guanti bianchi, accompagna lo svolgersi del menù dei grandi classici della casa. Una sorta di raccolta delle migliori intuizioni dello chef basco che con grande coraggio affronta il suo passato confrontandolo con il presente, con l’obiettivo di farli sembrare uno la diretta conseguenza dell’altro.
Obiettivo, nel caso specifico, perfettamente raggiunto, in cui l’elegante disegno cominciato nel 1995 continua ancora oggi ad arricchirsi di colori vivi e saturi. La mano del pittore è ferma e sicura, così come le linee di contorno e la nettezza dei suoi tratti. La coerenza evolutiva è sconvolgente, quasi fosse pensata, studiata a tavolino, per accompagnare il concetto di cucina attraverso le varie fasi della vita, vedendolo nascere, crescere e maturare. Questa coerenza però, seppur affascinante, a lungo andare tende a far storcere un po’ il naso, quando ci si trova maliziosamente a dover ammettere a sé stessi che la creatura dello chef è di certo cresciuta, andando incontro oggi però ad una fase di leggera stasi, che aiuta di certo il concetto di coerenza ma scredita quello di evoluzione. Nulla di errato, nulla di imperfetto, nulla di sbilanciato. Semplicemente una cucina un po’ soddisfatta, poco temeraria, priva dello slancio adolescenziale che le si addirebbe.
Le rotondità e la pienezza gustativa sono il filo rosso lungo il quale si sviluppa la degustazione, che riesce però nel mirabile compito di non incappare in eccessive grassezze, in cui la raffinatezza sta nel saper dosare i molti ingredienti presenti nelle preparazione in maniera mirabile, ottenendo sempre un risultato appagante. Il tono della conversazione è formale ma non ingessato mentre tutte le accortezze, degne di una grande casa, non solo non mancano ma si propongono con spigliata attenzione.
L’impressione è che Martin Berasategui non sbagli un piatto da anni. L’altra analisi che va fatta però è che questa sua perfezione raggiunta paghi lo scotto di essere in difetto nei confronti dell’innovazione.
Rimane solo una certezza. Chiunque passeggi per il lungo mare di Bahia de La Concha resta inevitabilmente interdetto al momento di dover decidere quale sia la parte migliore da guardare. Ed effettivamente una parte migliore in assoluto non esiste. Questo perché la conformazione di San Sebastian è come la sua cucina, splendida in ogni forma.

La splendida sala.
Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
Il pane. Ottimo.
pane, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
Quattro tipi di burro aromatizzati in accompagnamento al pane. Buoni oltre che scenografici.
burro, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
Il primo vino in degustazione.
vino, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
1995. Millefoglie di Anguilla affumicata, foie gras, cipollotto e mela verde. Grandissima dimostrazione tecnica. Dolce, affumicato e acido. Ventun’anni e non sentirli.
millefoglie, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2014. Gambero rosso, lenticchie, aneto e spuma di olio. Le lenticchie rendono questo piatto godibile dal primo all’ultimo boccone, grazie alla loro consistenza. Buon passaggio.
gambero rosso, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2016. Caviale, limone e gelatina di maiale. Passaggio ineccepibile dal punto di vista tecnico-gustativo. Un po’ ripetitivo rispetto ai due piatti precedenti.
caviale, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi

vino, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2015. Ostrica tiepida leggermente marinata, cetriolo ghiacciato e mela piccante. Molto coreografico grazie all’azoto liquido versato nel sottopiatto a scaturire una nuvola di fumo (anche se, davvero, una cosa stravista). Ostrica di qualità eccelsa. Passaggio fresco e intenso.
ostrica, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2016. Variazione di barbabietola e taramosalata di salmone. Barbabietola presentata sotto diverse consistenze: spuma, gelatina, tartare condita come un ceviche e cialda croccante. Un altro esercizio tecnico decisamente ben riuscito. Ci si sente come di fronte ad un fantastico déjà vu.
barbabietola, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2001. Cuore di verdure in insalata, frutti di mare, crema di lattuga e gelatina di acqua di pomodoro. Un classico all’interno dei classici.
cuore di verdure in insalata, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi

vino, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2016. Olive nere e verdi, manzo, capperi e mostarda. Il cambio di marcia atteso in precedenza arriva con questo passaggio complesso e verticale. Il gioco di consistenze degli ingredienti stimola la curiosità e rende il piatto moderno. Molto bene.
olive nere, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2015. “Il tartufo”. Molto stimolante. Nonostante si abbia la netta impressione di mangiare un piatto a base di tartufo in realtà il tartufo non è presente. Funghi, creste di gallo e foie gras si mescolano ingannando i sensi. Risultato notevole.
tartufo, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2011. “Gorrotxategi” uovo posato su crema di erbe aromatiche e insalata. Passaggio deludente. L’apporto minerale richiesto al “verde” non perviene. Il risultato è un piatto molto goloso ma un po’ stancante.
uovo, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi

vino, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2016. Triglia, finocchio, zafferano e nero di seppia. Ottima esecuzione. Elegante, coerente e assolutamente centrato.
triglia, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi

vino, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2016. Piccione, patate e tartufo. Si chiude nell’unica maniera in cui si potrebbe chiudere un pasto di questo genere. Ineccepibile.
piccione, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2016. Limone con succo di basilico, fagioli verdi e mandorla. Ottimo.
limone, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
2016. Cioccolato, quinoa soffiata, rum e gelato alla nocciola.
dessert, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi
La piccola pasticceria.
piccola pasticceria, Martin Berasategui, Lasarte-Oria (Gipuzkoa), Paesi Baschi

I congressi sono come i calabroni: non dovrebbero eppure continuano a volare. A dispetto dei calcoli degli entomologi sull’apertura alare, il loro ronzio ogni tanto riesce persino a ficcare il pungiglione nel cuore vivo della contemporaneità. Provocando choc non solo anafilattici, che rimettono in discussione assetti dati comunemente per scontati. Ce l’ha fatta, almeno in parte, Gastronomika 2013, che a San Sebastian in questo mese di ottobre ha inquadrato con taglio a dir poco inusuale il panorama gastronomico internazionale. Dalla messa a fuoco sono stati infatti esclusi i paesi del nord Europa, ma non è andata molto meglio al continente americano, che ha visto il solo Acurio sul palco. Forse per sfatare il cliché di una cucina irrimediabilmente nomizzata, aureolata di una corona di fiori ed erbe spontanee nella scampagnata georgica dalle Ande alla tundra, giù giù fino alle foreste australiane. Quella forse ha già preso residenza in qualche evento più o meno clandestino (ma l’anno prossimo sarà la volta dell’Italia, presente quest’anno con Gennaro Esposito).

Focus su Londra, allora, e sulla sua cucina metropolitana, che significa Heston Blumenthal (un po’ stanco sul palco, alle prese con il filo da lui stesso tranciato del food pairing, complessificato dalla volatilità e dagli ingredienti ponte) e soprattutto tanta, tantissima fusion. Talvolta di enorme interesse, come nel caso del giapponese Junya Yamasaki del ristorante Koya, che ha illustrato sul palco passo dopo passo la complessa preparazione di un piatto tradizionale giapponese, il calamaro fermentato nel suo fegato (ikano shiokara), bomba vischiosa che adopera anche per condire, al posto delle acciughe, o preparare la maionese. “Sulle montagne i vecchi usavano fermentare in questo modo, con le sue interiora, anche la selvaggina, che così si conserva per sempre: sto attualmente investigando questi procedimenti nel tentativo di riproporli”.

E anche un’altra tecnica conserviera di matrice asiatica ha avuto la sua celebrazione sul palco: l’essiccazione, soprattutto dei prodotti ittici. Quasi che tramontato il sole della lunga estate spagnola, la cucina avesse messo mano alle dispense dei vasetti senza tempo per superare il grande freddo dell’immaginazione. Ad aprirli sono stati due “outsider” di razza. Corey Lee, chef coreano che per 8 anni ha affiancato Thomas Keller alla French Laundry, oggi al Banu di San Francisco, e Nuno Mendes del Viajante di Londra. Davvero eccellente la ponencia del primo, che continua ad attingere suggestioni dalla cucina quotidiana della madrepatria, incollandone i frammenti con l’oro di una tecnica francesizzante, quasi fosse una ceramica crepata e nobilitata dal kintsugi. L’essiccazione gli serve per variare la tavolozza delle testure nel senso, modernissimo, del gelatinoso e del gommoso (è il caso dell’orecchia di mare e dell’oloturia, essiccata, reidratata, farcita come la ballotine di un MOF); ma è anche simulata con mossa di flamenco nella zuppa di finta pinna di pescecane, trompe-l’oeil obbligato dalla messa al bando dell’ingrediente originario. “Sono prodotti da valorizzare nelle loro differenze dal fresco: stanno al pesce come l’uva sta al vino o il prosciutto al maiale”, ha spiegato.

Anche lo chef portoghese è voluto transitare per il ciclo delle metamorfosi, a lui congeniali grazie alla familiarità col baccalà. A sua somiglianza, la superba capasanta britannica viene marinata, disidratata e nuovamente marinata con il brodo delle barbe, sempre per ragioni di testura; mentre il “dashi” è preparato con il baccalà vero e proprio. Un accanimento impensabile fino a pochi anni orsono, che tuttavia non invade il perimetro dell’autonomia dell’ingrediente, regista e cuoco di se stesso.

Folate cariche di spore che non sembrano aver lambito la Spagna, dove gli chef continuano a fare finta di niente. Quique Dacosta come Dani Garcia e Pedro Subijana, Martin Berasategui e Juan Mari Arzak, inceppati nel tartagliamento dei trompe-l’oeil più improbabili. Con le solite eccezioni di Angel Leon, che dal mare trae non solo plancton, ma oggi anche zuccheri e peperoncini; Josean Alija, sempre più elegante ed epurato; Joan Roca, che tuttavia cerca l’innovazione lontano dal pass, nella creazione di un’opera d’arte totale chiamata Somni con l’artista visivo Franc Aleu. Mentre Andoni Luis Aduriz, che ha dedicato il suo intervento alla “rete neuronale delle idee” sottesa al balzo della creatività, forgia come un ingegnere venusiano i suoi UFO (Unidentified Food Object), esperimenti sul limitare stesso della cucina e del gusto. Spesso evanescenti come una fata morgana che si dilegua nella bocca (ieri le pompas, oggi le scaglie di ghiaccio al sugo di gamberi rossi), quasi un monito sull’obsolescenza programmata della cucina d’avanguardia.

L’impressione è che dopo un decennio a forma di freccia, monodirezionale e dromocratico dietro la punta sibilante di Ferran Adrià, la cucina abbia imboccato percorsi plurali e paralleli, dove a spuntarla è chi possiede un universo di sapori propri. Un po’ come è accaduto dopo lo spegnimento dell’incendio avanguardista, quando Michelangelo Pistoletto scriveva: “Per me non ci sono forme più o meno attuali, tutte le forme sono disponibili, tutti i materiali, tutte le idee e tutti i mezzi. Il cammino dei passi di fianco porta fuori dal sistema che va diritto… Procedendo di fianco, la corsa fra gli individui diventa parallela, perché ogni individuo procede individualmente senza proiettarsi fuori di sé né in punti astratti né sugli altri. In questo cammino non ci sono i più bravi e i meno bravi, perché ognuno è quello che è e fa quello che fa; nessuno ha bisogno di fingere per mostrarsi migliore e diventa facilissimo comunicare senza strutture di linguaggio perché è facile capire di ognuno chi è e come è”.

Tre istantanee di una cena da Andoni, al Mugaritz:

Toast affumicato, 100% astice.

Erbe fritte dell’orto con aromi stridenti (shiso e cannella).

Carote con i loro fiori.

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Recensione ristorante.

Che fine ha fatto il tanto pubblicizzato e mediatico “Sistema Spagna”? Come mai si sente parlare sempre meno degli chef iberici?
E’ stato un grande bluff? Cosa è rimasto nel piatto dopo che il fumo è svanito?
Sono queste le domande che mi accompagnano mentre passo il confine franco-ispanico.

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