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D’O

Da Davide Oldani la classicità non è mai stata così moderna

Anatra in due servizi. La parte del petto cotta a bassa temperatura e, quindi, leggermente arrostita e scaloppata. Sopra, una cialda croccante, tartufo nero pregiato di Norcia e Salsa Perigueux. A lato, filetto di petto marinato e la nota amara del Pak choi. A seguire il secondo servizio: la coscia brasata e sfilacciata, all’interno di una sfoglia di pane arrostita, sopra una polvere di limone nero. Ci siamo dilungati un po’ nella descrizione perché, pur essendo ancora all’inizio dell’anno, l’anatra presente nel nuovo menù del ristorante D’O si candida seriamente a essere uno dei nostri Piatti Top del 2024.

Magistrale per esecuzione e concentrazione gustativa, questo capolavoro di classicità – sia detto per inciso che pochi cuochi italiani hanno una conoscenza delle basi fondamentali classiche della cucina (che parlano francese, ça va sans dire) paragonabile a quella di Davide Oldani – proviene da un cuoco che oltre a essere stato uno degli allievi prediletti di Gualtiero Marchesi, si è formato nelle cucine di giganti quali Alain Ducasse e Michel Roux jr. E come lui, il bravissimo sous chef Alessandro Procopio che lo stesso Davide Oldani ha voluto maturasse a sua volta esperienze a Le Gavroche, al ristorante di Troisgros, a Roanne, e al Plaza Athenée di Ducasse, a Parigi.

Una cucina in grande equilibrio

Ma torniamo in Italia perché è giusto parlare anche di un Risotto meraviglioso che, sul piano estetico ma anche su quello più squisitamente tecnico, non sbaglieremmo a definire marchesiano per pulizia e purezza quasi sacrale degli ingredienti. Che qui è un solo ingrediente, la seppia, declinata in diversi modi: alla base del piatto una Royale di nero di seppia, all’interno seppioline scarpetta, sopra un disco di gelatina al nero di seppia e mantecatura con burro e purea di seppia. Un solo ingrediente a tutt sapidità, iodio, consistenze, armonia. E che dire della riproposizione di quel capolavoro dolce e salato che è la Cipolla caramellata nella versione “a portata di mano” scomposta, da mangiare all’orientale avvicinando il piatto al viso con una posata particolare, ideata dal Davide Oldani designer. Un grande menù, insomma, che è anche un ragionato crescendo in cui si raggiunge il corretto equilibrio dei contrasti tra dolce e salato, caldo e freddo, acido e grasso, morbido e croccante, e una grande cucina che guarda all’essenziale e in cui non c’è spazio per il superfluo o per “aggiunte decorative”, tale che anche il pane – Pane sfogliato e Fougasse strepitosi, sia chiaro – hanno un ruolo centrale al D’O.

La brigata, giovane e coesa, si armonizza con la sala, popolata di ragazzi bravissimi, intelligenti, garbati, sui quali vegliano fuoriclasse come Davide Novati e il premiatissimo sommelier Emanuele Pirovano. In sintesi un luogo, questo, nel quale si respira aria buona, un clima sereno, e non è scontato soprattutto a questi livelli.

IL PIATTO MIGLIORE: Anatra.

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L’evoluzione del D’O dal 2003 al 2020: dal pop al top

D’O. Da popolare a sostenibile. Da povera ad opulenta. Da tradizionale a classica. Il tutto, sempre, in ottica democratica.

Se dovessimo indicare una cucina che negli ultimi 5 anni ha saputo evolversi, oggettivamente, in maniera evidente, senza mai perdere o mutare la personalità che l’ha sempre contraddistinta, probabilmente la nostra scelta ricadrebbe su quella di Davide Oldani a Cornaredo, una ventina di minuti di macchina da Milano.

Non pensiamo che sia soltanto merito di una maggiore definizione della centralità gustativa dei piatti o dell’accattivante svolta di una materia prima più opulenta; piuttosto, ci sembra che accanto ad una linfa sempreverde che sgorga proprio nella vena creativa dell’ex Marchesi boy, mai così viva come oggi, si sia affermata la capacità di Oldani di fare squadra e di far crescere un paniere di talenti – come i suoi sous chef Alessandro Procopio e Wladimiro Nava in cucina e Davide Novati e Manuele Pirovano in sala, registi di un servizio che gira ormai ad altissimi livelli – che fanno brillare, oggi più che mai, il D’O e la stella del loro mentore.

Protagonista del piatto è sempre stata quella melodiosa trasversalità gustativa che potremmo metaforicamente assimilare all’orecchiabile ritornello di una canzone “pop” (guarda caso), caratteristica alla quale si è aggiunto, negli ultimi anni, un arrangiamento prettamente più rock. L’evoluzione della cucina di Oldani da trattoria gourmet a ristorante di alta cucina in veste (ancora) democratica, è un dato di fatto che si può osservare, in maniera tangibile, ripercorrendo l’evoluzione delle creazioni feticcio dello chef, come ad esempio l’emblematica cipolla caramellata, che se nella versione originaria privilegiava solo la rotondità rasentando non di rado la stucchevolezza assieme ad alcune imperfezioni delle consistenze, oggi si ritrova sapientemente trasformata in Grana Padano riserva caldo e freddo: cipolla caramellata, un antipasto al cucchiaio che privilegia una maggiore finezza, consistenze più interessanti e non ultimo preserva il gusto del piatto originale. Ancora, si può ricordare l’eccessivo rigore dell’essenzialità dell’offerta che, si limitava alla concretezza di ciò che il cliente ordinava senza focalizzarsi sulle “coccole” di contorno che spesso contribuiscono a rendere memorabile l’esperienza. Tutto ciò che sembrava mancare a questa tavola, infatti, oggi non solo c’è, ma spicca anche per accuratezza e pensiero.

Cucina, ambiente e dettagli dal forte tratto identitario

Quello che è sempre stato chiaro al D’O, è il pensiero e la filosofia del suo cuoco. Una lettera d’intenti che il cliente ha saputo cogliere e metabolizzare nel corso di quasi un ventennio. Le stoviglie, le sedute e il tavolo stesso sono un mirabile esempio di estetica e funzionalità applicata al pensiero pragmatico dello chef, che ha iniziato a conferire dettagli personalizzati al luogo da lui creato, e in tempi non sospetti. Filosofia che si riflette completamente anche sul cibo che arriva a tavola, dov’è sempre più evidente un accentramento verso la cucina classica, di stampo francese, che dalle salse ai fondi di cottura (a dire il vero qui sempre meravigliosi)  ripercorre la formazione di Oldani e i suoi trascorsi da Alain Ducasse e Michel Roux come un revival necessario. Ed è stata probabilmente questa svolta del suo ritorno al passato a regalargli le ultime meritate soddisfazioni dalla Francia.

Passando all’esperienza concreta, si comincia con l’aperitivo, presagio della piacevolezza complessiva che percorrerà tutto il pranzo: lo scenico olio al timo con cera d’api da spalmare sulla spugna con povere di aceto o la golosa oliva all’ascolana, finemente ricompattata ma dal gusto concentrato, degno della migliore espressione della tradizione marchigiana. Il carciofo ripieno è disarmante per la semplicità ma concentratissimo nel gusto, la scenografica campana in cui vengono cotte le ostriche precede un altro affascinante boccone, la pita soffice, yogurt, salsa tartara e la parte callosa del mollusco, servita cruda. Poi entra in scena il risotto (o “riso“, come ama chiamarlo lui) che spicca sempre per innovazione ed esecuzione:  mantecato al grana padano, zucca, ricotta infornata e amaretto sbriciolato è  sensazionale per il millimetrico equilibrio che trova, ciascun ingrediente, nell’ensemble del piatto. Seguono un concentrato di “cassoeula”, che ricorderemo per la sua lunghezza al palato e due grandi piatti di scuola transalpina.

In chiusura, un divertente gioco sui formaggi, una rivisitazione non scontata della Barbajada, con i frutti rossi che spezzano il legame con la tradizione, e un assaggio di PanD’O con canditi cedro, ciliegia e corniolo ed un intenso gelato alla vaniglia. Tutto è dosato con cura e intelligenza, perfino il pane (notevolissimo), i grissini e la piccola pasticceria.

Ultima, ma non meno importante, menzione per il servizio di sala che, senza troppe parole, possiamo definire all’altezza della cucina.

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L’italianizzazione dello chef’s table 

Il tinello vanta, tra le sue accezioni semantiche, un impasto di frugalità e intimismo. E ciò è tanto più vero nel tinello di Davide Oldani che, all’uopo, su una fabula sweet ordisce un intreccio bitter & sour e crea un congegno così ben oliato da sembrare la sua diretta estensione.

La similitudine narrativa, del resto, non è casuale: perché ciascuno dei piatti di Davide Oldani costituisce il tassello (il testo) di cui si compone un menù – il Tinello – da leggersi come un ipertesto tanto è coerente da un punto di vista strutturale e formale. Un’opera la cui caratterizzazione autoriale è data dalla ritmica con cui si alternano, e compenetrano, riferimenti classici provenienti dalla sua solida esperienza professionale – la sua è una tecnica totale tanto da sembrare, in alcuni tratti, austera e anaffettiva – con altri attinti invece da una dimensione più domestica e personale fatta di concessioni al regno enciclopedico del comfort e, come tale, indulgente verso gusti che sono tanto levigati quanto rassicuranti e senza farsi mancare, per giunta, pure momenti dichiaratamente, felicemente ludici.

In questa alternanza tra registri risiede buona parte della grandezza dell’esperienza. In “a portata di mano” l’invito è quello di mordere l’intera struttura dopo averla afferrata con le mani; simile ma ancora più ascendente il climax del gambero rosa dorato al cucchiaio, che rappresenta anche il momento in cui realizziamo la presenza dell’ipertesto di cui si parlava dianzi, e che si manifesta grazie alla coerenza nell’uso del colore: una progressione cromatica ton sur ton, per la precisione, e per lo più incentrata sul timbro del colore naturale degli alimenti, prediletti nelle tonalità del nude. Il senso è quello di un profondo bon ton, che si manifesta anche nello spaghetto al cartoccio, ovvero coperto perché vestito di un etereo e svolazzante velo argenteo da lasciar svaporare sulla cremosissima base di cacio, pepe, limone e rafano e che ritroviamo anche nella serica e fondente mantecatura del riso con forma di quadrello, riduzione all’eucalipto e frutta secca.

Coi secondi, poi, si fa ritorno a una cucina d’impronta più tecnica dove cotture e guarnizioni sono sempre ragionate e precisissime, come nel caso del trancio di lucioperca gratinato, sedano rapa e litchi o nell’“a fuoco lento” di pesci e aglio invecchiato. Così, in una progressione che dal faceto è andata via via verso il serio, si chiude il cerchio con la grandeur del civet di lepre alla royale e col piccione al nero e salsa di tartufo nero pregiato: due piatti scuri, quasi impenetrabili, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.

Sempre a proposito di tecnica, infine, impossibile tacere sull’esecuzione del soufflé alla granadilla, grappa, uva e anice: impeccabile.

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Una reminiscenza evocativa, quella del tinello: una rievocazione storica, oggi riattualizzata, che va non solo a rappresentare l’evoluzione dello chef’s table, ma che reclama a gran voce il superamento dell’agone tra domestico e professionale. Tra cucina domestica e cucina professionale, nella fattispecie, che è poi la dialettica su cui si è issata, per anni, la differenza tra la cucina francese e la nostra, di cucina: eccellente nei ristoranti ma carente nelle case la prima, sontuosa e complessa nelle case più che al ristorante, invece, la seconda. E benché il livello della cucina professionale italiana si sia elevato, negli ultimi vent’anni, in maniera esponenziale, è proprio questa dialettica che va a risolvere il tinello che vive, oggi, di una seconda vita grazie alla presente ricollocazione.

Una dialettica tra pubblico e privato che invero già si risolveva in passato nelle case nobiliari, là dove il tinello era nato col compito di ospitare i pranzi e della servitù e dei signori che, desiderosi di godere di un pasto più frugale e più raccolto vi si rifugiavano al riparo dagli ossequi e dalle cerimonie della vita mondana. Perché per godere, a tavola, c’è bisogno di semplicità, di raccoglimento, di riservatezza: caratteristiche, queste, molto care a Davide Oldani dove il Tinello, com’è d’uopo che sia, si ritrova davanti alla cucina che, per appunto, è la sua casa. Fedele alla sua iconografia, il tinello rieditato da Oldani promette quindi di esperire della dimensione domestica, familiare e homy, per dirla all’inglese, di casa Oldani e, com’era lecito aspettarsi, prevede un menu fisso il cui incipit è demandato a una carrellata di elementi cari allo chef e che, nel corso del pasto, si slanciano dalla loro dimensione privata per diventare, strada facendo, autentico omaggio alla cucina edificata nelle cucine dei grandi ristoranti italiani e francesi, ma non solo.

A cominciare dagli antipasti, una divertente ancorché divertita carrellata di elementi estemporanei, propedeutici alla comprensione del pasto per intero. Come la Scarpetta di lenticchie e pasta di salame piccante, che si richiama a  materie grasse e nutrienti, leguminose da un lato e di norcineria dall’altro riposizionate nella scarpetta golosa un tempo bandita dalla tavola quartata.

Altra composizione, ma già più vicina alla compiutezza di una portata vera e propria, l’Asparago di Mezzago col gelato alla rosa (richiamo al colore dell’asparago, tra i migliori in commercio) e il Tuorlo vegetale. A chiudere questi divertissement, e per lo chef e per il commensale, l’Ostrica Prestige des Mers, che è una deflagrazione di suggestioni che attingono e al mondo del mare e a quello della terra in primavera, ricco di germogli e di bacche. Ecco dunque un primo piatto: Zafferano, crosta e riso 2018: una citazione a Marchesi che viene qui scomposto, ricettato in tutti i suoi passaggi, e ricomposto, restituito nella composizione privata, appunto, individuale, della forchettata.

Si vola dunque al Mare col polpo, la salicornia, i rapanelli e l’amaranto e, successivamente, al mondo della cucina classica transalpina con le Cosce di rana, la salsa alle erbe, con interpolazione contemporanea dell’aglio invecchiato e del tamarindo. Intensa, poi, la Triglia in scaglie di polenta e rosmarino, ma il tinello di Oldani raggiunge la sua massima espressione quando svela la tecnica che lo anima, come fa nelle eteree, svolazzanti paillettes d’argento del Rombo al cartoccio, che spalanca un immaginario tutto italiano (i cartocci), da sabato italiano, se vogliamo, con le tavole apparecchiate all’aperto della riviera cui Oldani dà però un tocco di urbanità con lo zabaione al limone al posto della maionese.

C’è quindi un’incursione di nuovo presso le tavole dei grandi chef europei classici con il Filetto di vitello alla Wellington nel quale la crosta, paradigma della cucina e dello stile british (“contenuto” e stretto come negli abiti, magari proprio come negli stivali che portano ancora il nome del Duca stesso) diventa di cera d’api. Menzione d’onore va sicuramente all’Aligot, che definitivamente svela l’ossequio alle cucine d’Oltralpe, richiamandosi a Michel Bras: un purè di patate soffice e vellutato rinforzato di Ragusano e Grana Padano che, sciogliendosi, sono in grado di gonfiare il purè e di farlo filare tramutandolo in un ciuffo setoso, perfino nobile.

A chiudere, di nuovo un’incursione, solo olfattiva, in Provenza, con la lavanda sulle fragole smaterializzate e rimaterializzate mimeticamente, quindi l’impeccabile piccola pasticceria con la sfera n. 8 e polvere di lampone; cannoli siciliani con ricotta e kumquat e dama di macaron, bianchi di cocco e maracuja, neri di liquirizia e cacao.

Il Tinello, come avviene in molti altri casi e per molti altri chef, è l’espressione estrema della cucina e si colloca all’apice di essa. In questo contesto c’è la massima espressione del cuoco, che qui impiega il meglio di sé, alzando – come nel nostro caso – notevolmente il livello, seppur comunque elevato, del ristorante gastronomico. E da riflettere quindi se il vero valore del cuoco è, in questo caso, il Tinello o tutto il resto. Per far coppia tra esigenze del cliente, disponibilità dello stesso ma al contempo chiarezza e completezza di informazione, Davide Oldani, nello specifico, è un cuoco che vale molto di più di quanto racconta oggi il suo ristorante, e per completezza informativa andava detto. Potrebbe essere il caso anche in futuro di adottare questa tecnica comunicativa, questa completezza d’informazione anche per altri.

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Da una piccola trattoria avanguardista a una grande tavola classica, l’evoluzione di Oldani nel solco dell’eccellenza

Il D’O è stato il vero fenomeno della ristorazione italiana degli ultimi anni. Una formula vincente che ha creato un mito e reso famoso un bravissimo cuoco: Davide Oldani. Il quale, molto “semplicemente”, nell’ormai lontano 2003 creò il ristorante che in Italia non c’era.
A casa sua: San Pietro all’Olmo, un piccolo centro alle porte di Milano senza particolari attrattive turistiche. Un posto piccolo, arredato in stile minimalista, con al centro una minuscola cucina a vista. Tutto molto easy, POP, per usare un termine caro allo chef, anche nei prezzi.
Un posto che, visto da fuori, poteva sembrare simile a tanti altri, ma che in realtà era profondamente diverso.
Diverso per la professionalità, l’eleganza informale dell’accoglienza, la cura di ogni dettaglio, a cominciare dai tempi di servizio sempre impeccabili, nonostante il locale fosse sempre pieno e la cucina davvero microscopica.

Diverso per la cucina. Scuola classica, francese, grande padronanza delle tecniche. Alta cucina, ma utilizzando esclusivamente materie prime povere, conto da osteria. Una miscela esplosiva. Il ristorante che non c’era, appunto. L’Alta cucina aperta a tutti. Un successo strepitoso.
Una grande tavola travestita da ristorantino di periferia questo è stato per anni il D’O. Accennavamo ai prezzi: menu degustazione a 32 euro, a pranzo addirittura 11,50! Mai visto nulla di simile.
Locale sempre pieno, prenotazione minimo di 3 mesi per provare la Cipolla caramellata e più in generale la cucina di questo giovane allievo di Ducasse e Marchesi. Una cucina non facile, tecnicamente complessa, sempre molto personale, a tratti imperfetta forse – ricordiamo i fondi a volte troppo coprenti, ma mai banale.
Cucina sartoriale per definizione, in cui, come per gli abiti cuciti a mano, se a volte qualche cucitura si vede un po’ troppo, alla fine è più un pregio che un difetto.
Certo, dopo essere stati a cena al D’O veniva naturale domandarsi cosa volesse fare Oldani da grande. Perché, ci chiedevamo, un cuoco con le capacità di guidare una Ferrari si accontentava di pilotare, seppur magnificamente, un’utilitaria?
E la Ferrari infine è arrivata.
Il nuovo D’O, a poche decine di metri dal piccolo locale dove tutto iniziò è una fuoriserie in tutti i sensi.
Ambienti ariosi, eleganti, tavoli correttamente distanziati, cucina a vista, grande, bellissima in cui si muove come in una danza la brigata sotto la direzione attenta dello chef.

Oggi il D’O è una grande tavola che non gioca più a nascondersi

Servizio giovane e impeccabile, bella carta dei vini e cucina di stampo classico, che gioca con le consistenze e con i sapori, anche della tradizione, senza stravolgerli, ma ricercando sempre l’armonia dell’insieme. Sapori tradizionali che si sposano al territorio come in un Riso e Zafferano, in cui anche lo zafferano è lombardo, di Varedo per la precisione, di mostruosa bontà. Onestamente è arduo solo pensare di mangiarne uno migliore.
Una cucina che si conferma di grande livello, dunque, che in qualche passaggio tradisce , rispetto al passato, una maggiore preoccupazione di piacere, di rassicurare e di essere più immediatamente riconoscibile. Su questa linea ci è sembrato un po’ banalotto il “marchesiano” Galletto alla Kiev, mentre ci ha entusiasmato la pulizia, la nettezza di un piatto come l’Asparago di Mezzago, gelato alla rosa e tuorlo vegetale. Tre pennellate per un quadro gustativo di altissimo livello.
Non ci ha convinto appieno la consistenza dei “Sanpietrini” di polpo, ma, tornando alla classicità, il pasto è terminato con un Soufflé d’alta scuola.

Il D’O ci sembra ormai una corazzata che veleggia a vele spiegate e che non potrà che mietere ulteriori successi di critica e di pubblico.
Ci sia consentito, in conclusione, di lodare Davide Oldani per due aspetti secondo noi non banali, che ci piacerebbe si diffondessero nella ristorazione di questo livello: il pane, arriva al tavolo solo con quello che in Italia consideriamo il “secondo piatto” ed è semplicissimo, di francescana bontà. Non c’è il pre-dessert e anche in accompagnamento al caffè non si viene sommersi da valanghe di dolcetti che per quanto a volte eccellenti mal si sposano con la fine di un menu degustazione.
Potrebbero sembrare dettagli, forse non lo sono. E Davide Oldani, anche stavolta, è già avanti.

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