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Domaine Alexandre Bonnet Les Riceys

Grandi Champagne all’insegna del Pinot Noir

Ci troviamo nella parte più a sud della denominazione, in quella regione della Champagne meno conosciuta che è la Côte des Bar, nel dipartimento dell’Aube. Una terra che nelle cartine ufficiali viene solitamente collocata a parte, quasi a voler evidenziare il distanziamento da Épernay e la sua famosa “Avenue de Champagne”, l’iconico viale ove svettano le imponenti sedi delle più grandi maison, una sorta di Rodeo Drive del Metodo Champenoise. Una distanza da cui la Côte des Bar, a ben vedere, ha tutto da guadagnare.

È proprio questa lontananza dallo sfavillante epicentro della denominazione, infatti, ad aver permesso alla Côte des Bar di preservare la sua autenticità; autenticità fatta di antiche case, costruite con la pietra calcarea prelevata nei vigneti circostanti, che oggi danno vita a piccoli borghi da cartolina. O ancora ai boschi di conifere che svettano sugli “envers” e che proteggono dalle masse di aria fredda proveniente da nord i pendii situati dirimpetto, gli “endroit”, dove si coltiva l’uva. Tuttavia, a rendere veramente singolare questa regione, è lo stretto intreccio che essa vive con la vicina Borgogna, alla quale, nel corso dei secoli, è stata ‘annessa e disannessa’ più e più volte, facendo sì che in questa zona si abbracciassero le tradizioni di entrambe le regioni.

Tutto ciò è particolarmente evidente nel comune di Les Riceys, un pittoresco villaggio adagiato sul fiume Laignes, che oggi possiede la più importante superficie viticola di tutta la Champagne, con 866 ettari di terreno coltivati a vigna. La dualità tra Borgogna e Champagne, qui, è visibile ancora oggi.

A Les Riceys, infatti, le case hanno tinaie con due ingressi, poiché all’epoca della loro costruzione, uno si trovava lato Champagne e l’altro lato Borgogna e, a seconda dell’anno, il vino veniva fatto uscire da una porta o dall’altra, in base alle offerte ricevute dalle due provincie. Fu solo nel 1927 che i vini bianchi dell’Aube vennero definitivamente integrati nella denominazione Champagne, ma i vigneti di Les Riceys mantennero comunque vivo il loro attaccamento alla Borgogna e in particolare al Pinot noir, del quale storicamente si servirono per la produzione del famoso Rosé des Riceys, un vino che leggenda vuole sia stato apprezzato e reso enormemente famoso da Re Luigi XIV.

Domaine Alexandre Bonnet – Les Riceys

Uno dei principali interpreti di questo territorio è il Domaine di 47 ettari Alexandre Bonnet a Les Riceys, facente parte del Gruppo Lanson BCC assieme ad altre iconiche referenze, come quella di Philipponat. Un nome che servendosi del termine “domaine”, tradizionalmente appartenente alla Borgogna, vuole mostrare come qui si prenda il meglio da entrambe le regioni. Sotto la guida del presidente Arnaud Fabre l’obiettivo tracciato per il futuro aziendale è stato infatti chiaro fin da subito: concentrarsi sul territorio, sulle vigne di proprietà e le uve che queste producono, perseguendo la migliore qualità possibile.

A differenza di molte Maison di Champagne, dove il vino viene fatto prima in cantina, qui non si cerca uno stile della Maison, ma la migliore espressione del terroir di Les Riceys, secondo un approccio che ricorda più la parcellizzazione borgognotta. L’Enologo Didier Mêlé e lo Chef de Cave Irvin Charpentier lavorano per produrre vini che riflettano appieno il terroir, in primo luogo preservandolo e adottando pratiche sostenibili, come la rinuncia a erbicidi e insetticidi, la piantagione di frutteti e la creazione di maggesi fioriti per le api. Dopodiché adottando metodi di vinificazione a basso intervento, con un uso limitatissimo – e da ultimo pressoché assente – di solfiti.

In linea con questa filosofia, il vitigno principe non può che essere il Pinot noir, storico vitigno locale che occupa il 93% delle vigne, disponibile in una decina di diverse varietà provenienti sia dalla Champagne che dalla Borgogna. Queste sono impiantate in quelle che qui si chiamano le “Contrée”, parcelle che differiscono l’una dall’altra per orientamento, pendenza, esposizione e così via, i cosiddetti “Lieu-dit” della Champagne, o “Climat” della Borgogna. Due i cru di particolare rilievo, “La Forêt”, e “La Géande”. Con la prima che dà vita a quattro diversi vini (Rosé des Riceys, il Coteau Champenois e due champagne, il Rosé de Saignée e il Blanc de Noirs) e la seconda utilizzata come vigna-laboratorio per studiare il comportamento dei sette vitigni storici della Champagne (Pinot Noir, Meunier, Chardonnay, Blanc Vrai, Buret, Arbane, Petit Meslier), proposti in un’omonima cuvée.

Les Riceys e Alexandre Bonnet rappresentano un connubio straordinario tra le tradizioni di Champagne e Borgogna. Con radici che affondano nella storia e un occhio rivolto al futuro, l’azienda continua a produrre Champagne di alta qualità che riflettono il terroir unico di Les Riceys. In un mondo dove la tradizione e l’innovazione si incontrano, Alexandre Bonnet dimostra che è possibile abbracciare entrambi, creando vini che sono veri capolavori di eccellenza e identità.

La Degustazione

Il terroir di Les Riceys gode di una struttura geologica molto particolare nella Champagne, formatasi nel Kimmeridgiano, all’epoca del Giurassico superiore, e per questo è molto simile alla zona dello Chablis, in Borgogna. Il sottosuolo è essenzialmente di tipo calcareo-marnoso o calcareo-argilloso, con ripidi pendii ed esposizioni molto diverse che drenano naturalmente il terreno. Il clima è semi-continentale fatto di inverni freddi ed estati calde, con precipitazioni moderate. Condizioni che agiscono favorevolmente sull’eleganza del vino, sulla generosità del frutto e sulla formazione degli aromi, dati evidenti in ogni calice degustato.

Champagne Les Riceys Rosé

Si tratta di un “rosé d’assemblage”, Extra-Brut, da Pinot Nero in purezza, che si contraddistingue per la grandissima piacevolezza di beva. Al naso spiccano il ribes, le spezie, in particolare il pepe nero, e un cenno di scorza d’arancia sanguinella. Un vino vivace, delicatamente tannico e decisamente gastronomico.

Champagne Vigne Des Riceys “La Forêt” Rosé de Saignée

Un “rosé de macération” Extra-Brut, da Pinot Nero in purezza, proveniente dalla Contrée “La Forêt”. Un’etichetta importante che, al naso, denota un vino più complesso e intenso rispetto al precedente. Anche qui ritroviamo i frutti di bosco, la scorza d’arancia e il pepe nero, sentori ai quali si aggiungono la ciliegia e la curcuma. La grande freschezza ne fa presagire l’immenso potenziale di invecchiamento, quello stappato oggi è, in effetti, ancora un bambino.

Champagne Vigne Des Riceys Blanc de Noirs

Il vino bandiera del Domaine, espressione delle uve di Pinot Nero provenienti dalle migliori Contrée. Al naso ritroviamo il ribes nero, poi la prugna gialla, il caprifoglio, la crosta di pane, note agrumate e balsamiche. Una bella complessità che al palato è esaltata dalla sapidità e dalla verticalità di questo vino.

Champagne Les Riceys Blanc de Blancs

Un assemblaggio di Blanc Vrai (Pinot Bianco) e Chardonnay nel quale ritroviamo la grande piacevolezza di beva che contraddistingue le etichette di questa azienda. Il naso vira verso note più esotiche, con un bel mango in evidenza che si aggiunge ai sentori più tipici di prugna gialla, erbe di campo, tiglio e mandorla. Anch’esso nettamente sapido, con un bel finale lungo.

Champagne Vigne Des Riceys “La Géande” 7 Cépages

Cuvée dei sette vitigni storici della regione: Pinot Noir, Chardonnay, Meunier, Pinot Blanc, Pinot Gris, Arbane et Petit Meslier. Al naso è un tripudio di dolci note di miele, marzapane, pasticceria e tabacco con intense incursioni mentolate e floreali che ne ampliano il ventaglio gusto-olfattivo. Il più sapido tra tutti i vini in degustazione, di grande eleganza, freschezza e lunghezza.

* I vini del Domaine Alexandre Bonnet sono distribuiti da Sarzi-Amadè

La Maison Louis Latour

Ventiquattro sono i Grand Cru rossi nella Borgogna della Côte d’Or. Appena sette (non contando l’unicum dell’appellation Musigny in versione blanc e lo Charlemagne, appellation che nei fatti nessuno rivendica più) i Grand Cru bianchi, concentrati in due aree: la collina di Corton e i filari di Montrachet con le sue quattro vigne “satelliti”: Chevalier, Bâtard, Bienvenues-Bâtard e Criots-Bâtard.

Un’evidente disparità le cui motivazioni affondano, in buona parte, nelle complesse vicende di questi luoghi ove comunità monastiche e claustrali hanno preso a coltivare la vite sin dai tempi della caduta dell’Impero romano. Una storia più che millenaria che si intreccia con quella di sovrani e imperatori, di principi e duchi, in un misto di mito e agiografia.

Ed è proprio sulla collina di Corton, altura che segna il passaggio dalla Côte des Nuits alla Côte de Beaune, e che divide fra loro i paesi di Aloxe-Corton, Pernand-Vergelesses e Ladoix-Serrigny, che si dipanano fatti leggendari legati al settimo imperatore romano – Otone –, a Carlo Magno e agli Ottoni di Sassonia. Chi fra essi abbia per davvero dato inizio alla coltura della vite su questi pendii non è noto (anche perché realisticamente non fu nessuno di questi) ma è certo che, intorno all’anno Mille, qui si coltivavano uve a bacca rossa e, in quantità minore, uve a bacca bianca. Lo Chardonnay si è poi, nel corso dei secoli, affermato nei confronti dell’asprigno Aligoté, del più “evanescente” Pinot Blanc e di altri vitigni minori ora difficilmente identificabili, se non per ipotesi. La “colonizzazione” operata dallo Chardonnay su queste terre ha avuto il suo maggior impulso con l’arrivo (1870 circa) della fillossera: i vigneti della collina di Corton ne furono devastati e in tanti, al momento del reimpianto delle barbatelle, optarono per lo Chardonnay che qui regalava vini più espressivi e più morbidi rispetto ad altre uve.

Fra coloro che, all’epoca, con lungimiranza, fecero questa scelta ci fu anche la famiglia Latour. Il nome di questa “dinastia del vino” era già ben noto in queste terre. Nel 1737 i Latour figuravano come proprietari di alcuni vigneti in Côte de Beaune, nonché di una affermata fabbrica di botti (tonnellerie). Nel 1797, in seguito alla Rivoluzione che tante terre di proprietà nobiliare aveva requisito e messo all’asta, Jean Latour (1746-1811) e suo figlio Louis (1784-1844), fondarono la loro maison. Il successo arrise al giovane Louis che presto iniziò a vendere i suoi vini non solo in Europa ma addirittura a esportarli negli Stati Uniti e in Oriente, diventando anche il fornitore di principi e reali. Il figlio di Louis – Louis anche lui (1835-1902) – vedendo che gli affari andavano a gonfie vele affiancò, alla fabbrica di botti e al vino fatto dai vigneti di proprietà, anche un’attività di négoce (1867), aprendo il suo ufficio al n. 18 di rue des Tonneliers, a Beaune, dove a tutt’oggi ha ancora sede la Maison Louis Latour. Ma il colpo di fortuna arriva quando, nel 1891, Louis riesce ad acquisire lo château e l’annessa cuverie dalla nobile famiglia Grancey, ad Aloxe-Corton. Assieme alle due costruzioni acquisisce la proprietà di ben trentatré ettari sulla collina di Corton, divenendone il primo proprietario per estensione (record che tuttora la maison detiene con orgoglio). Nello stesso magico anno nasce il suo primo Corton-Charlemagne: ancora oggi la firma di Louis campeggia sull’etichetta di questo soave, preziosissimo nettare.

Quattro annate di Corton-Charlemagne

Nel corso di una degustazione, tenutasi presso la bella sede milanese di Sarzi Amadè (distributore esclusivo per l’Italia della Maison Louis Latour), guidata da Alessandro Sarzi Amadè, si sono potute assaggiare, apprezzandone consonanze e differenze, le ultime quattro annate – 2018, 2019, 2020 e 2021 – del Corton-Charlemagne signé par Louis Latour. Innanzi tutto bisogna specificare che le uve arrivano tutte da terreni di proprietà, quelli acquisiti dalla famiglia Grancey. E che le vigne (età media trent’anni) – che si estendono su quasi undici ettari (dei 72 complessivi dell’appellation) – ricadono tutte nel comune di Aloxe-Corton, nella zona più calda della collina: quella con esposizione Sud, Sud-Est (la collina di Corton è un unicum in Borgogna, essendo la sola zona ove si possono rintracciare vigneti che guardano a Ovest e addirittura, a ridosso di Pernand-Vergelesses, a Nord-Ovest). Anche l’altitudine è perfetta: le vigne partono da metà pendio e salgono sino a lambire il bosco che sovrasta l’altura. Il suolo presenta un primo strato superficiale di terreno argillo-calcareo ma, rispetto al resto della collina, qui lo spessore è assai fine, facendo presto spazio a roccia madre costituita da marne calcaree e da calcari fini e sciolti: una terra – quindi – povero ma di estrema potenza minerale.

Le vigne sono condotte non solo senza uso di insetticidi e diserbanti, ma con estrema attenzione alla salvaguardia ambientale, utilizzando addirittura le api come indicatori di benessere della vita di piante e animali. La vendemmia e il triage delle uve avvengono a mano. E le fermentazioni alcoliche e malolattiche si svolgono in barrique nuove (tutt’oggi costruite dalla tonnellerie di proprietà), ove il vino sosta dagli otto ai dieci mesi prima di essere imbottigliato. Le quattro annate di Corton-Charlemagne si sono svelate in modo inusitato, come “incrociandosi” per similitudini e diversità. Tranne che per il colore – in tutti e quattro i bicchieri di un magnifico giallo paglierino, di limpidezza cristallina e di consistenza media – il vino si è poi mostrato sì sempre su una medesima impronta stilistica ma declinata in modo di volta in volta differente, tanto che l’annata 2021 è parsa assai vicina alla 2019, mentre la 2020 è sembrata sorella della 2018.

La degustazione

A predominare, nella più giovane, intensi e complessi aromi di affascinante frutta esotica (la banana appena matura, l’ananas, la papaya) assieme ad accenni di pesca bianca e di agrumi, affiancati da fiori bianchi, da qualche tocco erbaceo (verbena) e da una sorprendente mineralità assimilabile alla polvere da sparo. La 2020 è invece apparsa vestendo panni gourmand: la frutta ha virato con intensità sulla polpa bianca, i fiori sono divenuti molto più vari e i tocchi erbacei e minerali si sono fusi a sensazioni di miele, di spezia, di burro e sin di brioche. Su una complessa eleganza di nuovo fresca e viva è tornata invece la 2019 che ha messo in primo piano l’agrume dolce, la pierre à fusil, una certa balsamicità (verbena, acacia) e finissimi tocchi di mandorla, di nocciola e di vaniglia. La 2018 è sembrata invece già in evoluzione, in fase di abbandono della prima gioventù: il terziario è apparso più marcato, con frutta matura, fiori in parte già secchi e note di spezia evidenti, ma con una finissima mineralità ad ‘alleggerire’ il naso. Tutte sensazioni che hanno poi trovato pieno riscontro in bocca.

Sono state ancora la 2021 e la 2019 a “giocare” sulla freschezza e sull’agilità, lasciando alla 2020 e alla 2018 l’espressione della morbidezza, della struttura e quasi della concentrazione. Le prime due sono apparse vibranti, con l’acidità e la superba mineralità (salina e soave al contempo) ad inseguirsi in un sorso di lunghezza infinita, di rarefatta intensità, di enorme persistenza e di eccellenza senza eguali, che ha trovato poi, nella struttura polialcolica, la sua morbida e “gustosa” conclusione. La 2020 e la 2018 si sono mosse invece “al contrario”, con i polialcoli a dirigere il sorso in modo pieno e rotondo. E con la freschezza e la mineralità a sorreggere una struttura di grande imponenza (e addirittura forse un po’ troppo concentrata nel caso della 2018). Ma, a sfuggire la pesantezza, ecco i continui ritorni delle sensazioni minerali, che “salando il palato”, invogliano al bicchiere successivo. Anche in queste due annate la persistenza, l’intensità e la finezza si muovono a livelli siderali, disegnando un corpo netto ma ben slanciato e assai armonico.

Verticale dell’Amarone e degustazione di alcuni vini di Borgogna durante la 54° edizione di Vinitaly

Nello stand della Collina dei Ciliegi durante Vinitaly 2022, la 54° edizione, ho condotto una degustazione verticale delle annate 2017, 2016 e 2015 dell’Amarone il Ciliegio e delle annate 2018 e 2017 di due vini di Borgogna della Maison Champy, un Pinot Nero, il Pernand-Vergeless 1er Cru Les Vergelesses e uno Chardonnay, il Pernand-Vergeless 1er Cru En Caradeux. Entrambi i vini sono distribuiti da Advini Italia, una Joint venture tra la Collina dei Ciliegi e il prestigioso gruppo francese Advini.

L’Amarone il Ciliegio rappresenta oggi il vino di punta della Collina dei Ciliegi, azienda di 53 ettari di vigneti, ciliegeti, prati e boschi che il patron Massimo Gianolli, imprenditore della finanza con solide radici in Valpantena, ha trasformato in vitivinicola con la produzione del primo Amarone nel 2005. 32 sono gli ettari vitati, disposti fra 450 e 700 metri di quota, interamente in Valpantena, zona DOC Valpolicella e di questi 10 sono dedicati a Corvina, Corvinone e Rondinella per la produzione dei migliori Cru Amarone, Ripasso e Valpolicella, 16 sono destinati alla produzione del “Supervalpantena Rosso” (vitigni Corvina e Teroldego) e 6 sono destinati alla produzione del “Supervalpantena Bianco” (vitigni Garganega e Pinot Bianco). I Supervalpantena sono parte di un progetto partito alcuni anni fa e che darà luogo ai primi vini a partire dal 2022.

La degustazione

Il Ciliegio si conferma un grande Amarone. In tre annate contigue, ma molto diverse tra loro, spicca per eleganza, finezza dei tannini e freschezza. È un vino che esprime una precisa identità territoriale e stilistica che si distingue per facilità beva, eleganza ed equilibrio. Il Ciliegio 2017, stupisce per la facilità di beva. Non è un caso che alcuni partecipanti alla degustazione lo abbiano preferito, forse anche per la sua prontezza. Il Ciliegio 2016 conferma di essere un vino di gran razza, dal profumo intenso di ciliegia matura, spezie dolci, e cacao amaro e da una bocca fresca e di rara eleganza. Un gran vino dall’eccezionale potenziale di crescita. E infine il Ciliegio 2015 dal profumo di ciliegia matura, fragolina di bosco e mora accompagnate da spezie dolci, tabacco e cioccolato. Denso, di pieno corpo e dal tannino fine e ben integrato a cui non manca certo la freschezza è un vino sontuoso che mostra già una grande bevibilità.

In degustazione anche due annate (2018 e 2017) di un bianco e un rosso della Maison Champy, provenienti dai vigneti di Pernand-Vergeless, in Borgogna, zona situata tra Aloxe-Corton e Savigny-lès-Beaune vicina al Grand Cru Corton-Charlemagne, con cui condivide la capacità di produrre vini che rimangono particolarmente freschi anche in annate molto calde come la 2017 e la 2018. Il Pinot nero Pernand-Vergeless 1er Cru Les Vergelesseses un vino fruttato dalle note di fragola, amarena e petali di rosa che ben rappresenta la denominazione  nota per i suoi rossi classici, precisi e gradevoli che, anche in annate calde come la 2017 e addirittura caldissime come la 2018, mantengono intensità, equilibrio e freschezza. Tannini setosi e distesi, freschezza e lunghezza sul palato nell’annata 2017; grande morbidezza all’attacco e maggiore concentrazione nell’annata 2018.  

Lo Chardonnay Pernand-Vergeless 1er Cru En Caradeux è un vino di ottima persistenza e lunghezza, che soprattutto nella versione 2017 ha cominciato a perdere la tradizionale angolosità giovanile, quasi da Chablis, dei vini della zona.  Il 2018 è un vino agrumato, dalle note di lime e buccia d’arancia e iodio marino. In bocca il vino ha un buon volume e una nota burrosa controbilanciata da bella freschezza e sapidità. Migliorerà con una maggiore permanenza in bottiglia.  Il 2017 ha un naso complesso, floreale, agrumato di pompelmo e iodato con accenni di spezie, insieme a note di ciotoli frantumati. In bocca il vino è concentrato, ma freschezza e sapidità che allunga il sorso lo rendono teso, verticale e persistente.  

Per inciso si è trattato di una edizione di Vinitaly che ha ampiamente superato le aspettative della vigilia avendo registrato il record storico di buyer stranieri, 25.000, il 28% dei partecipanti, pur mancando russi e in gran parte, a causa del Covid, i buyer cinesi.  La sensazione di una soddisfazione generalizzata da parte dei produttori di vino finalmente ritornati ad un grande evento in presenza era chiaramente percepibile in un clima che ha consentito ai produttori finalmente di incontrare di persona clienti e appassionati ed è riuscito a favorire nuovi contatti anche grazie a una condizione ambientale meno caotica di altre edizioni.

Uno dei massimi interpreti di Meursault

I vini di questo Domaine si distinguono per finezza e longevità, in un’area in cui prevalgono tradizionalmente volume e grassezza. 

Subentrato al padre Renè, Dominique comincia a gestire l’azienda nel 1984. Dopo aver interrotto progressivamente i contratti di mezzadria, dal 1993 riporta i 13,8 ettari sotto il controllo del Domaine. Oggi, gli ettari lavorati sono 16,3, ripartiti su quattro comuni e divisi in 15 appellations: Meursault Village, Clos de la Barre, Désirée, Charmes, Goutte d’Or, Porusots, Bouchères, Genevrières e Perrières, a Meursault, Santenots du Milieu, Champans e Clos de Chenes, a Volnay, le Duresses e Monthélie Blanc, a Monthélie, e Montrachet a Chassagne. 

Il Domaine fu fondato dallo zio di Renè, Jules Lafon che, da sindaco di Mersault, diede vita nel 1923 alla Paulée de Mersault, uno dei tre imperdibili appuntamenti, denominati “Les Trois Glorieuse”, che si tengono in Borgogna per sancire la fine del periodo di vendemmia: il banchetto a Clos Vougeot, l’asta all’Hospice de Beaune e, appunto, la Pulée de Mersault.

Domaine Des Comtes Lafon Mersault-Perrières 2008

Pur essendo classificato Premier Cru, il climat Perrier ha certamente il carattere e la razza (nonché i prezzi) di un Grand Cru. Il vino si presenta di un colore giallo oro brillante. Il profumo è complesso e intenso. Emergono note di fiori bianchi, pesca gialla, ananas, agrumi, mandorle tostate e pepe bianco. È un vino concentrato, cosa piuttosto rara nei vini di Comtes Lafon, normalmente più eleganti che voluminosi. L’attacco esprime morbidezza, volume e una certa alcolicità perfettamente equilibrati da una fresca acidità agrumata e da una nota sapida che assicura al vino tensione e scorrevolezza. Nel finale, di grande persistenza aromatica, tornano nel retrogusto note di buccia di limone e pepe bianco. È un gran vino: un vino che berremo, ancora benissimo, per alcuni anni.

I vini di Domaine des Comtes Lafon sono distribuiti, in Italia, da Cuzziol Grandi Vini.

Il bianco “francese” di Rocche dei Manzoni

La scrittura ha, fra i tanti, un pregio: fissare, attraverso l’articolazione di un’espressione razionale, l’emozione della sensazione inintelleggibile. Bloccare, in un eterno, il sussulto emotivo dell’esperienza estetica, magari accentuata dall’inaspettata sorpresa.

Chi scrive non ha bevuto tutto il bevibile, né tantomeno sostiene di averlo fatto. E proprio per questa “lacuna consapevole” è sempre attento a seguire i suggerimenti di coloro che, per ventura e passione, ‘ne sanno di più’. Anche perché, più spesso di quanto si pensi, nelle loro parole ‘vicende’ e ‘personaggi’ del passato ancora si palesano nel nostro presente.

Accade spesso, ai tavoli del glorioso Il Cigno (ristorante mantovano che, per primo, già negli anni Settanta ha portato la tradizione gonzaghesca sul palcoscenico dell’alta gastronomia nazionale), che Tano Martini trasporti – come attraverso lo specchio varcato da Alice – ospiti e amici in un antecedente prossimo di emozioni e ricordi. «Aspetta, questa volta il vino te lo porto io»: e come non fidarsi del Tano e della sua cantina, ricchissima di annate storiche, conservate (a temperatura e umidità costanti) nelle sotterranee, labirintiche stanze di un antico palazzo quattrocentesco?

Eccolo, quindi, il “vino”, un’ultima bottiglia che, scivolata dietro altre, era stata dimenticata: L’Angelica di Rocche dei Manzoni (Monforte d’Alba), nella prima annata prodotta: 1989, con la sua magnifica etichetta Belle Époque, stampata su una carta che pare una filigranata di Fabriano. Chardonnay in purezza, quindi, in un anno segnato dalla Storia che, oltre alla caduta dei regimi comunisti dell’Est, ha pure regalato fra i bricchi, e ben lo sanno gli appassionati, eccelsi Baroli.

La storia della famiglia Migliorini e de L’Angelica

L’epopea della cantina Rocche dei Manzoni e del suo fondatore, Valentino Migliorini, sono note, come note sono le tante innovazioni che questo ristoratore caorsano, appassionato di vino, ha introdotto in Langa (prima fra tutti l’utilizzo della barrique, poi il primo assemblaggio, 1976, e la prima bollicina, 1978). Non staremo perciò a ripercorrerle. Ma da dove nasce lo Chardonnay a Monforte? Vicende e personaggi che si intrecciano, si scriveva in apertura. E il Tano lo ricorda bene. Si era a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta e un ristretto gruppo di giovani ristoratori (Antonio Santini, Roberto Ferrari, Valentino, il Tano stesso e pochi altri), appassionati del loro lavoro e alla scoperta del vasto mondo del vino, erano soliti incontrarsi a Maleo, ai tavoli di Franco Colombani (colui che, dal 1975 al 1979, detenne la carica di presidente dell’Asi, Association de la sommellerie international). E proprio ai fratini de Il Sole nacque Linea Italia in Cucina. E sempre da lì, spinti dal mentore Colombani, questi giovani partivano alla scoperta della Francia: delle sue celebrate grande tables e dei suoi Domaine e Châteaux. Quanti viaggi in Borgogna! A volte ognuno per proprio conto. Ma assai più spesso in compagnia. E che emozioni davanti ai cru della Côte de Nuits e della Côte de Beaune. E quindi, ogni volta, per Valentino, il sogno, sulla via del ritorno, di tentare altrettanto in Italia. Se il Nebbiolo poteva rivaleggiare col Pinot Noir, perché non provare anche con lo Chardonnay?

Gaja aveva già vinificato Chardonnay a Barbaresco (la prima annata di Gaia & Rey risale al 1983). Ma Valentino voleva qualcosa di più, e di diverso. Qualcosa di più intensamente piemontese, ma soprattutto di più francese.

Rocche dei Manzoni rivendica su proprio sito questo pensiero, senza paura: «L’Angelica segna indiscutibilmente il percorso di Rocche dei Manzoni: un percorso francesizzante poiché è un vino che guarda molto ai bianchi di Borgogna, si può dire un vino rosso vestito da vino bianco».

Nasce così, dalla passione per la Francia, dall’amicizia sodale sviluppatasi con Colombani e con gli altri “ragazzi” che volevano cambiare volto alla ristorazione nazionale, questo vino che, attraverso oltre tre decenni, “racconta un racconto” che deve essere trasmesso e conosciuto.

Ma com’è questo L’Angelica 1989? Per fortuna, per narrare l’esperienza, c’è la scrittura! Come fare altrimenti a fissare le molteplici emozioni di questo inatteso bicchiere?

Langhe Chardonnay Doc L’Angelica 1989

Appena versato è il colore a colpire. Il giallo, di un bel dorato non troppo carico, appare vivido e pieno. Senza rottura o cedimenti. Perfettamente cristallino. E senza alcuna traccia di quei toni ambrati che sarebbe normale aspettarsi da un bianco che è in bottiglia da ‘appena’ trentadue anni.

L’impazienza della prima olfazione non è ricambiata da prorompenza. Tutt’altro. Una nota di tenera e quasi infantile timidezza invade il calice. Che sia il carattere de L’Angelica? Che sia una bottiglia non più perfetta?

Tano Martini, sguardo sornione al di sopra dell’elegante, colorato papillon che da sempre contraddistingue la sua vita di ristoratore, chiama all’indulgenza: «aspetta, dagli un paio di minuti». Il tono sicuro di chi ‘ne sa di più’ rassicura. E così, dapprima piano, poi sempre più rapidamente, si dipana uno spettro olfattivo che spiazza nella sua opulente integrità: la ritrosia diventa intensità e la carenza ampiezza. I profumi, di qualità eccellente, raccontano di un vino pensato in terra di Borgogna, ma nato e cresciuto fra i bricchi di Monforte. «Forma di un sogno già sognato» – per dirla con un nobile verso di Borges – L’Angelica esplode in centinaia di rivoli: i fiori sono gialli, un attimo prima che inizino ad appassire.

Il frutto prende le agrumate forme del cedro leggermente candito ma anche della pesca gialla, spruzzate da note tropicali (mango? papaya?) e da una spiazzante quanto inusitata albicocca matura. Parallele corrono, modulate con eleganza, le spezie date dal legno: una sontuosa e appagante vaniglia su tutto. E quindi un pizzico di curry. E una punta di rinfrescante zenzero. La mineralità è fine oltremodo, e sostiene la trama olfattiva legando le sensazioni le une alle altre con sentori di polvere pirica e di selce.

È quindi in bocca che L’Angelica sfodera tutta la sua potenza e la sua classe. Morbido, senza essere eccessivamente caldo, colpisce per una freschezza che in nulla dimostra i suoi anni. Il sorso, ricco di materia e di verticale mineralità (con quest’ultima che non sopravanza né si sovrappone all’acidità), racconta di un vino di medio corpo, intenso e ampio senza essere ridondante. La struttura è elegante ed equilibrata e tende a una complessa rotondità mersaultiana (anzi, chi scrive è tentato di dire che proprio al territorio di Mersault guardò Valentino per ‘costruire’ questo vino) che sfocia in una persistenza oltremodo lunga e fine. Quest’ultima, senza cedimenti, procede su una scia improntata a pulizia e nettezza, richiamando, quasi come onde di eco, i riconoscimenti dello spettro olfattivo. L’armonia, in chiusura, è perfetta: sferica e gratificante. In sintesi: un grande vino di un grande uomo!