Passione Gourmet Spagna Archivi - Pagina 2 di 9 - Passione Gourmet

Diverxo

Diverxo: una cucina di rivendicazione identitaria

L’approccio all’alta ristorazione di David Muñoz è ben sintetizzato dal nome del suo ristorante, Diverxo. Infatti, una volta saliti i primi gradini che conducono alla sala, si ha immediatamente la sensazione di trovarsi in un luogo pensato da una persona che desidera rivendicare la propria identità; il diritto di far parte del gotha della gastronomia mondiale senza dovervi rinunciare ma, al contrario, celebrandola. 

L’emblema di questa attitudine è rappresentato con immediatezza dall’estetica della sala – una commistione tra manga, Dalí, cartoni animati, etc. – che, pur non incarnando i canoni della più tradizionale eleganza, non lascia certo indifferenti. Tuttavia, una volta superato l’approccio iniziale – un po’ straniante e, nel contempo, divertente – ci si rende immediatamente conto di come l’esperienza sia pensata e curata nel minimo dettaglio al fine di assicurare all’avventore il massimo comfort: ciascun tavolo – ben distanziato dagli altri e perimetrato da una tenda, per la massima privacy –  è seguito da un solo cameriere, con attenzione alla lingua parlata dall’ospite; le sedute sono straordinariamente comode, ciascuna portata viene accompagnata da un cartoncino che ne illustra nel dettaglio gli ingredienti e la preparazione (che meraviglia!) e la posateria è sempre perfettamente studiata per facilitare l’approccio al piatto (le mini marise per le salse – già presenti da anni alla Madonnina del Pescatore – ne sono un esempio).

La carta dei vini è profonda e ricca di rarità, molte delle quali offerte a prezzi assolutamente corretti, se non convenienti. Per altro verso, il prezzo del menù – da poco sensibilmente incrementato e oggettivamente impegnativo – risulta commisurato alla qualità dell’offerta e all’eccezionale livello della materia prima impiegata. 

Il nuovo menù “flying pigs cuisine”

Il nuovo menù “Flyng pigs cuisine” è un concentrato densissimo di ricordi personali – la cucina spagnola è sempre presente – viaggi – spesso trovano posto tecniche e sapori orientali, indiani e giapponesi – feticci gastronomici – il wagyu A5 di Kagoshima, l’astice galiziano, le angulas – e perversioni, come la citazione del culto francese dell’ortolano (oggigiorno vietato e, quindi, “sostituito” da una quaglia di trenta giorni di vita, di cui venti passati all’ingrasso). 

Una cucina che mira a combinare elementi tra loro distantissimi, all’insegna dell’individualità del Cuoco. Come se quest’ultimo avesse l’urgenza di trasporre nel proprio percorso di degustazione quanto ha visto, assaggiato, imparato, letto e ascoltato nel corso della propria vita, infischiandosene dell’apparente incomunicabilità tra mondi e culture così distanti. Una cucina “di vissuto” che, come tale, non è riconducibile a generi o correnti; in cui il tratto che accomuna tutti i passaggi è una notevole immediatezza palatale – che, tuttavia, cela un livello di complessità e tecnico non comuni – nonché un utilizzo tutt’altro che timido di spezie e note piccanti, decisive nell’equilibrare le sapidità.

La cucina è una sola e, come tale, senza limiti

In molti casi le portate sono costruite intorno a un ingrediente principale – di qualità eccelsa: tonno, astice, agnello, piccione, wagyu e quaglia – declinato in più preparazioni (echi baschi, kaiseki, ma anche Pierre Gagnaire e Enrico Crippa). Ad esempio, in Tonno rosso con pomodori, il classico binomio viene trasposto in più “versioni”: un sashimi di ventresca di tonno da intingere in un consommé di pomodori dalla straordinaria concentrazione (8 chilogrammi ridotti per 24 ore, con una resa finale di 250 ml), un altro boccone di pancia di tonno cotto sui carboni così come il pomodoro che lo accompagna nonché del midollo di tonno essiccato e fritto da mangiare con un marmitako – una zuppa di pesce basca – preparato con lo stesso midollo, pomodori gialli, calamansi e ají giallo

Lo stesso schema vale per Astice della Galizia svegliandosi sulle spiagge di Goa, un incontro tra cucina spagnola e indiana: il corpo è arrostito lentamente nel tandoor e accompagnato da pelle di latte di bufala, butter massala, chutney di pomodoro e riso di sushi; la testa è insaporita con curry vindaloo e le chele servite con un pani puri ripieno di salmorejo. 

La vetta del menù, che sfugge dalla regola compositiva di cui si è detto, è Mondo al contrario: insalata congelata del fondo del frigorifero e i suoi contorni marini in cui il vero protagonista del piatto è un’insalata ghiacciata (tra i tanti ingredienti: semi di pomodoro, olio d’oliva, rucola selvatica, edamame, emulsione di lattuga e lamine di ghiaccio sfogliate) a cui vengono accompagnati – proprio a mo’ di contorno, in un’inversione di ruoli –  bocconi di triglia, rombo e occhialone cotti sulla brace da yakitori (su di un solo lato), a conferire una doppia consistenza. 

Un rovesciamento delle texture tradizionali è poi rinvenibile in Sashimi tiepido di angulas fritte al contrario, in cui le piccole anguille vengono abbattute a -40° centigradi (per irrigidirne la spina dorsale), scongelate e irrorate con olio bollente che dona loro una consistenza croccante – e non morbida, come quella consueta –, insieme ad una velouté di molluschi sfumati con del riesling, funghi enoki e seppia alla brace

E ancora…

Sul versante delle carni, i passaggi che più ci hanno colpito sono stati il filetto di Piccione macerato una settimana [nel Palo Cortado] – servito freddo con la sua marinata e in perfetto equilibrio con il caviale, le note salmastre ed erbacee del plancton nonché la grassezza del tuorlo –, i Succhi dell’arrosto dell’agnello, latticello con olio di erbe dei Pirenei, gnocchi all’aglio nero – dall’inaspettata delicatezza ed eleganza – nonché la Royale di brodo di vitello bianco e katsuobushi, un “boccone” di brodo di manzo dalla straordinaria intensità e concentrazione. 

Per ciò che attiene ai dessert, il primo dei due proposti – Risotto di burro tostato con tartufo estivo – è nettamente il più interessante. Si rivela infatti essere un piatto che si colloca a cavallo tra il dolce e il salato, eccellente nell’equilibrare numerosi sapori ed ingredienti, tra cui noce moscata, barbabietola, pepe bianco, olive nere, aceto balsamico di Modena e rabarbaro

In conclusione, il motto David Muñoz è “Vanguardia o morir”, ma qui l’avanguardia non si traduce in discomfort, stimoli che vadano oltre i cinque sensi o piatti di difficile approccio – significato che, pure, trova in Spagna le proprie radici nonché cuochi tra i più illustri – bensì in un’accezione egoriferita, intesa come fedeltà assoluta ai propri gusti e al più sfrenato edonismo, rifuggendo presunti limiti – tra cui l’incomunicabilità tra differenti culture e tradizioni gastronomiche – o tendenze effimere, in un’esperienza che indubbiamente è attualmente tra le più significative a livello internazionale.

La Galleria Fotografica:

DSTAgE: Days to Smell, Taste, Amaze, Grow and Enjoy

Il ristorante dello Chef basco Diego Guerrero si trova a Chueca, un piccolo quartiere a nord-est di Madrid, molto vitale – gallerie d’arte, performance urbane e un’intensa vita notturna – in perfetta coerenza con l’anima del locale, un laboratorio di ricerca gastronomica votato all’avanguardia, al divertimento e al comfort. L’esterno del ristorante non presenta alcun’insegna né targa che ne celebri i successi di critica – molti – tanto da poter essere scambiato per un negozio di dischi o lo studio di un tatuatore. Qui si comprende immediatamente come l’alta cucina venga intesa come un’esperienza per nulla elitaria o ingessata. 

La gran parte dei tavoli affaccia sulla cucina, il servizio è preciso ed empatico e la mise en place colpisce per l’essenzialità. Una volta seduti al tavolo la sensazione di benessere è immediata, anche grazie ad una colonna sonora di sottofondo davvero di grande gusto (la prima ambizione dello Chef era fare il musicista, e la musica è rimasta la sua grande passione). La carta dei vini presenta dei ricarichi corretti ma richiederebbe qualche sforzo per aumentarne la profondità.  

Una cucina ricca di tematiche contemporanee, ma libera da forzature

Il menù “Denjoy– il più lungo, articolato in diciotto passaggi – ci ha svelato una cucina estremamente viva, pulsante e curiosa. Tant’è che, a distanza di qualche giorno dalla cena, sono numerosi i piatti meritevoli di una riflessione o, semplicemente, sopravvissuti alla ghigliottina della memoria. La squadra di DSTAgE quest’anno ha dedicato uno studio alle origini del sushi – una contesa tra Cina e Giappone – quale primitiva tecnica di conservazione del pesce. Il primo passaggio è 7-day sea bass, una spigola maturata sette giorni nel riso, con il risultato di stravolgerne la texture, quasi cremosa, e conferire una decisa nota umami. Il riso di conservazione entra poi a far parte del successivo passaggio, Rice/Shrimp, sotto forma di salsa, ad accompagnare un gambero del sud della Spagna, le uova di quest’ultimo e una schiuma di riso.  

Chorizo and Txakoli è un omaggio ad una classica “merenda” basca, composto da un tuorlo di uovo di quaglia, una salsa fatta con il vino – lo Txacoli, per l’appunto – e un boccone di salame che, tuttavia, si rivela essere interamente vegetale (lenticchie, carote, funghi e miso), in un inganno riuscito alla perfezione. Onion/Banana è invece il trionfo di un abbinamento improbabile, in cui alla sovrapposizione di due differenti dolcezze si affiancano acidità, sapidità e, ancora, umami. In Shiitake, la cappella del fungo, cotta alla perfezione – turgida –, si accompagna con una salsa dalla straordinaria densità, ottenuta con i soli liquidi dell’ingrediente principale, senza l’aggiunta di zuccheri bensì di cereali maltati, pane tostato, aglio e zenzero. 

Pil Pil Cod è un altro omaggio alla tradizione basca, in cui la salsa pil pil viene accompagnata alla sola pelle del merluzzo, accentuando significativamente quella texture viscosa – quasi viscida – che tanto colpisce quando si assaggia per la prima volta la ricetta originale: un eco con PRODUCT|Caress of sea bream, un piatto del menù dello scorso anno del fraterno amico Andoni Aduriz. In comune con l’amico c’è, peraltro, l’evidente desiderio di abbattere il confine tra dolce e salato – non a caso, l’ultima parte del menù si chiama ¿Desserts?il cui culmine è Crème Caramel, in cui la ricetta classica viene stravolta tanto che l’uovo viene sostituito da collagene di tendine di bue e il caramello è in realtà un fondo di manzo: il disorientamento – e l’entusiasmo che ne consegue – sono assicurati. 

DSTAgE è un luogo che colpisce per l’energia che emana – c’è elettricità nell’aria – e per la libertà con cui la cucina viene interpretata e comunicata. Le proteine animali sono valorizzate con le loro inaspettate presenze e assenze, l’attenzione alle texture è – come era lecito aspettarsi – maniacale; le fermentazioni sono usate con intelligenza e l’avversione nei confronti dello spreco è presente in molti passaggi ma mai ostentata. Una delle roccaforti, insomma, dell’avanguardia spagnola. 

La Galleria Fotografica:

Mugaritz: quando la cucina trascende il gusto

Un ristorante che non mira all’appagamento del gusto“: potrebbe apparire l’esemplificazione di un ossimoro o il principio di un romanzo di José Saramago. E invece no, si tratta del ristorante Mugaritz. Dopo 23 anni dall’apertura, Luis Andoni Aduriz ha ancora l’ardente desiderio – e l’energia – di cucinare controcorrente, di rifuggire tic e manierismi che affliggono certa ristorazione contemporanea.

Un approccio riassumibile con l’adagio “per aspera ad astra“: il cliente non va conquistato con bocconi golosi o ingredienti pregiati bensì minandone le sicurezze, disorientandolo, sollecitandone i sensi, persino mettendolo a disagio. Possibile? Assolutamente sì. Purché chi varca la soglia del ristorante – termine che, in questo caso, pare davvero riduttivo – sia mosso da una sana curiosità e disposto a mettere da parte stereotipi e certezze. D’altro canto, in una società opulenta qual è quella contemporanea – in cui il cibo di qualità è sempre più accessibile – la cucina del prossimo futuro potrà limitarsi a soddisfare la sola pancia oppure sarà chiamata a svolgere un ruolo ulteriore?

Una menzione merita il percorso di abbinamento vini – in questo caso nella versione “base”, ma ne è disponibile anche una composta da rarità e vecchie annate – in cui ciascun calice è capace di integrare il piatto, donandogli un quid ulteriore, senza far mancare qualche bottiglia davvero degna di nota. L’ultimo passo prima dell’abbandono definitivo della carta dei vini, già annunciato e destinato a divenire realtà a partire dal prossimo anno.

Un menù dedicato alle “prime volte”

Quest’anno il menù del Mugaritz è dedicato alle “prime volte” e, come d’abitudine, articolato in una ventina di passaggi, ciascuno capace di comunicare nitidamente l’idea posta a fondamento dello stesso. In WHITE|Milk and tears – mandorle sbucciate e immerse in un caglio di latte di mandorle – emergono due direttrici ricorrenti nella cucina di Andoni Aduriz: l’assenza di colore e la proposizione di textures inconsuete. Il lavoro teso a stravolgere le consistenze – e, quindi, la memoria gustativa – raggiunge il proprio apice in COUNTERBALANCE|Mellow foam, una schiuma fatta di calamaro (grazie all’utilizzo del Paco Jet) sui cui viene versata una salsa ristretta preparata con gli scarti dello stesso calamaro, merluzzo, cipolla, aglio e peperone verde. Un sapore di calamaro dall’intensità e nitidezza impressionanti, che fa venire alla mente l’“Indivia di calamaro” del Lab 2020 di Mauro Uliassi e “Calamaro arrosto, pompelmo rosa e olive nere” di Niko Romito.

Nella stessa direzione si pone anche PINTXO|Green pepper and hake, una rielaborazione di un pintxo classico basco, “merluzzo e peperone”: in questo caso, diversamente dalla versione tradizionale, è il vegetale arrostito a donare consistenza al piatto poiché il pesce è trasformato in una salsa setosa, di strabiliante eleganza.

Il passaggio più avanguardista del percorso è poi TERRITORY|Tears from chickpeas: il personale di sala invita il cliente a bere – proprio come fosse uno Champagne – un bicchiere di brodo di ceci in cui sono immersi in sospensione i legumi freschi, a rappresentare le bollicine: nessun sapore. Ma il “piatto” emoziona: ci pone davanti al nostro istinto, tant’è che per riuscire a sorseggiare – prima – e deglutire – poi – occorre combattere contro sé stessi.
Ma l’avanguardia presuppone sempre una padronanza assoluta della tradizione e l’amore per la materia prima, concetto rappresentato in modo esemplare da PRODUCT|Caress of sea bream, un’orata in salsa pil-pil accompagnata dalle sue uova: esecuzione magistrale di un classico basco.

Quanto a OXYMORON|Oyster and honey, si tratta di un piatto provocatorio nell’accostare due ingredienti molto distanti, un’ostrica e un pezzo di favo proveniente dai giardini che circondano il Mugaritz: quale dei due rappresenta il vero “lusso”? Domanda retorica. Da ultimo UTOPIA|Roqueforti and meat rappresenta l’ennesimo capitolo di uno straordinario studio sulle muffe: un nigiri di riso in cui viene inoculato il Penicillium roqueforti che ne ricopre interamente la superficie.

E il dolce? Non c’è perché, “nel desiderio di rompere con le gerarchie e regole prestabilite, abbiamo eliminato i dessert dal nostro menù. Non perché non ci piacciano, ma perché concepiamo la dolcezza come una nota che può essere distribuita nel corso dell’intero percorso, piuttosto che relegata esclusivamente alla fine dello stesso”.

Le regole, del resto, sono fatte per essere infrante e talvolta questa rottura ne comporta il definitivo superamento. Questo sembrano volerci dire, oggi, Andoni Luis Aduriz e il suo Mugaritz.

La Galleria Fotografica:

Marqués de Murrieta: dalla genesi al miglior vino del mondo

Ci sono vite che sembrano uscite dalla penna di Balzac e quella di Luciano Francisco Ramón de Murrieta, fondatore dell’azienda Marqués de Murrieta e, per estensione, di uno dei più importanti territori del vino iberico, è una di queste vite.

Nato a Lima, in Perù, nel 1822, ancora infante si troverà a Londra dove la sua famiglia trovò asilo dopo la fine delle ostilità che erano valse al Perù l’indipendenza dalla Spagna. Qui, Luciano crebbe sotto la provvidenziale egida dello zio Rivero e del Generale delle forze armate Baldomero Espartero, che lo iniziarono ai piaceri della vita, vino compreso. Piaceri che, vivaddio, potevano anche essere monetizzati non solo attraverso le aste, di cui erano assidui frequentatori, ma anche su più larga scala: cominciò così un fiorente commercio di barili carichi di vino spagnolo che, dal 1848, dalla Spagna partivano per l’Inghilterra e, da qui, alla volta di Cuba e del Messico.

Sarà precisamente questa intensa attività a permettergli di stringere relazioni coi più vivaci mercati del mondo e a persuaderlo di tentarne la conquista in proprio, attraverso il vino dell’azienda acquisita nel 1852 in quel di Logroño, allora capoluogo della comunità autonoma di La Rioja, seconda più piccola delle 17 regioni spagnole. Si tratterà di Tenuta Ygay che, nel 1878, culminerà nell’azienda Marqués de Murrieta, con tanto di sigillo nobiliare conferitogli da re Amedeo Ferdinando Maria di Savoia e suggellato da Isabella II di Borbone, prima e unica regina regnante di Spagna.

L’azienda prospererà durante tutto l’arco della vita di Luciano e oltre, e di certo fino al 1977 quando il successore Vicente Dalmau Cebrián-Sagarriga ne consolida stile e vocazione, facendone il punto di riferimento per l’intera identità vitivinicola iberica: 300 ettari di vigneti tra Rioja Baja e Rioja Alta e uno stile che riesce solennemente a imporsi come l’impossibile punto di congiunzione tra un inamovibile tradizionalismo e una disinvolta avanguardia, riversato nei vini dalla talentuosissima enologa María Vargas, in cantina dal 2000.

La Rioja

Ma la Rioja è un territorio antico, che afferma la propria familiarità con la vitivis vinifera già nell’873 d.C. tramite un documento emesso dal notariato pubblico di San Millán, concernente una donazione al monastero San Andrés de Trepeana. Anche qui, come altrove, furono i monaci i custodi del sapere vitivinicolo, come testimoniato da I Miracoli della Madonna, testo nel quale si fa esplicito riferimento al vino prodotto nel XIII secolo nel monastero di Suso. Nel 1560, poi, i viticoltori della zona s’erano già uniti in una corporazione che permise loro di elaborare un logo ante litteram apposto sui barili di vino prodotto. Erano anni in cui l’unica via della vite era rappresentata dal Tempranillo, che sarà presto affiancato ai vitigni internazionali complici i buoni rapporti della Rioja con Bordeaux presso il quale anche il nostro Luciano Francisco trascorrerà alcuni anni di apprendistato.

Quanto alla sua storia contemporanea, si segnala che nel 1991 la Rioja ottiene la DO Qualificata, unica denominazione a vantare questo attributo fino al 2009, quando sarà raggiunta dal Priorat, in Cataluña. L’intero areale prende il nome da Rio Oja, un torrente che sfocia nell’Ebro, vicino ad Haro, caratterizzate da un clima atlantico e mediterraneo, con precipitazioni regolari e una prevalenza di terreno di tipo argilloso-calcareo, ferroso e alluvionale, in cui si producono annualmente circa 300 milioni di litri di vino (al 90% rosso). 

Si tratta di una zona piuttosto estesa, che interessa anche la parte meridionale dei Paesi Baschi e parte della Navarra, che delimitano 3 sottozone: gli altipiani nordoccidentali della Rioja Alta – dove complici i suoli, di matrice argillosa calcarea e il clima, mitigato dal vento e dall’azione dell’Atlantico, imperversa il Tempranillo – i vigneti settentrionali della Rioja Alavesa, nella provincia di Álava, dove oltre al Tempranillo si impongono Granacha (alias Cannonau, Granaccia, Roussillon), Mazuelo (alias Carignano, Catalano) e Graciano (alias Bastardo nero, Cagnulari), e i bassipiani di Rioja Baja, a Navarra, dove il clima più secco e i suoli argillosi propiziano la diffusione della Granacha.

Il vitigno

Una delle varietà a bacca rossa più celebre della penisola iberica e certamente della Rioja è proprio il Tempranillo – non di rado declinato al femminile – dove occupa una superficie di 31.046 ettari ovvero circa il 75% dell’intera superficie vitata, protagonista di ben 56 denominazioni spagnole nonché 66 declinazioni locali, da Tinta del País, Tinto Fino o Tinto Aragones nella DO Ribera del Duero, passando per Tinta de Toro a Zamora e fino a Chichillana o Escobera a Badajoz. Il vitigno, nella sua denominazione ufficiale, mutua però il nome dal diminutivo di “temprano” che significa “precoce”, a indicare appunto una varietà dal ciclo di maturazione abbastanza corto, considerata peraltro abbastanza difficile da coltivare poiché cagionevole di salute. Ebbene, a onta di queste caratteristiche, che di certo ne scolpiscono un profilo varietale non facile da gestire, il vitigno si trova oggi a suo agio anche ad altre latitudini dell’ecumene terrestre, dalla Nuova Zelanda al Sudafrica.

L’annata 2010

Cosecha in spagnolo, ovvero il raccolto 2010 s’è sublimato in quello che Wine Spectator ha decretato, solo un anno fa, essere il miglior vino del mondo. Il motivo, come spesso accade anche presso aziende meno inclini alla costanza, è da attribuire soprattutto all’annata,  eccellente in tutta la Rioja e in particolare presso Tenuta Ygay, dove i parametri hanno raggiunto livelli insperati. Il clima, favorevole tutto l’anno, ha visto succedersi a un inverno freddo e piovoso una primavera umida e un’estate clemente, ovvero scevra dalle consuete, altissime temperature. I vini che ne sono sortiti vantano eleganza ed equilibrio, e una freschezza che lascia presagire una lunghissima evoluzione in bottiglia.

Castillo Ygay Gran Reserva Especial 2010 

La Gran Reserva Especial di Castillo Ygay Marqués de Murrieta si produce, va da sé, solo nelle grandi annate con uve selezionate della tenuta detta La Plana: 40 ettari messi a dimora nel 1950 situata nella zona più alta della Tenuta, a un’altitudine di 485 metri sul livello del mare. Qui, si avvicendano un 85% di Tempranillo e un 15% Mazuelo, raccolti tra il 6 ottobre e il 21 ottobre. I grappoli, diraspati e pressati delicatamente, sono fatti fermentare con inoculo di lieviti selezionati in azienda, separatamente in serbatoi di acciaio inox con controllo della temperatura. La vinificazione, di 11 giorni, vede svolgersi continui rimontaggi e follature, per favorire il contatto del mosto con le bucce e provocare una lenta e naturale estrazione degli aromi e dei polifenoli. La maturazione dura 24 mesi, e avviene in botti di rovere americano e francese da 225 litri. 

Imbottigliata nel marzo del 2015 e affinata per 4 anni nelle cantine storiche dell’azienda, questa Gran Reserva Especial 2010 divide il bevitore contemporaneo rapito dalla gaiezza smaliziata di una beva trascinante su cui s’innesta, però, la consapevolezza che si stia consumando quello che, in gergo, viene definito un infanticidio. Tanto vale goderselo: perché si tratta di un vino effettivamente innocente, vivo di una grazia incantevole attraversata dai bagliori di una giovinezza fruttata e imprevedibile, che spazia tra note nere ma luminose di mora, mirtillo, visciole e fiori di campo, balenante potenti suggestioni vegetali attinte dal repertorio delle foglie di tè, e più terziari presagi di cuoio, tabacco e olive nere. Il  palato è innervato di un succo fresco, attraversato da una striatura tannica salace, ritmata da vibrazioni minerali e volumi screziati di frutta nera e altre spezie nobili.

Marqués de Murrieta è distribuita da Sagna S. p. A.

Il Dominio de Pingus e la sua Ribera

La DO Ribera del Duero è una delle denominazioni, insieme a Jerez, Ribeiro, Rioja e Priorat, più vocata e rinomata al mondo della Spagna vitivinicola. Situata nella regione di Castilla Y León, nell’alta valle del Duero, la denominazione è costituita da numerosi comuni delle province di Burgos, Valladolid, Soria e Segovia. La matrice del terreno è, del resto, molto vocata, con contenuto abbastanza alto di calce e un clima solitamente temperato ed equilibrato, che dona complessità e profondità a vini che, non a caso, posseggono la denominazione di origine dal 1982.

Il Dominio de Pingus è forse, appena dopo Vega Sicilia, il produttore più famoso e blasonato della zona. Tutto merito dell’enologo danese Peter Sisseck che, dopo aver terminato i suoi studi nella regione di Bordeaux, in California e in Spagna, nel 1995 fonda e costruisce il Dominio. Prevedendo lo straordinario potenziale della regione della Ribera del Duero, dopo lunghe ricerche e analisi del terreno, Peter Sisseck identifica differenti parcelle di vecchie vigne di Tinto Fino, il vitigno locale. Vecchie vigne, allevate ad alberello, coltivate su terreni eccezionalmente ricchi di calcare, in prossimità del fiume Douro. Un territorio che si ritrova completamente nel vino a base di Tinto Fino, un vitigno che mette così in risalto la sua diversità rispetto, per fare un esempio, al Tempranillo.

Vecchie vigne, testimoni dell’unicità della regione

Per tutte queste ragioni, grandissima attenzione viene riservata alla vigna, come in tutti i grandi vini del mondo. Questa viene lavorata in modo tradizionale, biodinamico, e rispettando il sistema di vigne basse en vaso, con una rigida selezione delle uve in vendemmia. I rendimenti sono estremamente bassi appunto, andando da 20 a soli 9 ettolitri per ettaro. In cantina le fermentazioni sono del tutto naturali, svolte quindi con soli lieviti indigeni: tale pratica consente una migliore pigmentazione e maggiori aromi. Il processo di macerazione e fermentazione dura circa 20 giorni e poi i vini passano in botti per la fermentazione malolattica, dove sono lasciati riposare tra i 20 e i 23 mesi. Il vino non viene né filtrato né chiarificato. Ne sortisce una produzione limitata per vini che sono, oggi, tra i più ricercati al mondo.

Pingus Ribera del Duero 1999

Sappiamo d’essere al cospetto di un vino straordinario, che pone estrema attenzione in tutte le fasi della produzione. Un vino che, al netto della sua imponenza, manifesta un’eleganza e una finezza considerevoli. Il nostro 1999, infatti, si presenta all’olfatto con un attacco di tabacco e cenere di camino spento. A poco a poco s’innerva di frutto, la bocca si manifesta succosa, animata da un’acidità lieve e tornita di frutta matura sotto spirito (ciliegia), una punta di brodo ristretto e generose erbe aromatiche e officinali come ginepro, salvia e rosmarino. Possente ma per nulla muscolare, il sorso è semplicemente elegante, sostenuto e ravvivato da un frutto ancora in evidenza. Un vino molto lungo e persistente, dove la percezione dell’alcol non è affatto in evidenza.

Una grandissima bevuta!