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Angelo Sabatelli

Lo stato dell’arte dell’alta cucina pugliese

Un pranzo al ristorante di Angelo Sabatelli, nel centro storico di Putignano, è sempre un’utile cartina di tornasole sullo stato dell’arte dell’alta cucina pugliese attraverso le nuove proposte di uno dei suoi massimi interpreti.

In questa fase difficile e, purtroppo, in una sala tristemente poco affollata, abbiamo potuto quest’anno godere del suo menu “emozioni extraterritoriali” che esprime un concetto speriamo condiviso: il territorio come entità mentale e individuale, viatico di ingredienti, tecniche e preparazioni capaci di spaziare, purché si sia capaci di restituire loro il senso.

Per Sabatelli questo vuol dire pescare dalla sua regione come dall’Asia o dalla Francia (come in un opulento piccione miéral con noci e nocino che conclude la sequenza salata), sempre esprimendo una cucina fatta di tecnica, di leggerezza, di combinazioni mai casuali tra ingredienti, tutti presenti al palato.

La sequenza di amuse-bouche, impeccabile, ha solo il difetto, per il cliente abituale, di proporre diverse preparazioni già note; da lì, un susseguirsi di piatti prima di tutto belli o bellissimi (una nota particolare per la nuova versione della tagliatella di seppia con allievo mandorla e limone che fa un uso da manuale del contrasto di texture) e senza una sbavatura in esecuzione.

Paradossalmente, uno dei piatti meno impressionanti esteticamente, la melanzana con avocado grgliato, caviale e curry, risulta tra i più incisivi e memorabili al gusto, con le spezie ad avvolgere la combinazione delle altre componenti e ad amplificarne ed estenderne il sapore.

Bellissima e molto riuscita la combinazione di barbabietole arrosto in crosta di sale con ricotta forte e cassis ed eleganti i dim sum; impeccabili ma più mainstream i bottoni di purea di fave, salsa di ostrica e cicoria, in cui si poteva osare di più sulla componente amara.

Un solo passaggio poco comprensibile, la rilettura del prosciutto e melone, perfetta tecnicamente ma tutt’altro che indispensabile e originale.

Ai dolci, il limone, acciughe e capperi, caramello acido piccante, caviale di pompelmo rosa è una sferzata molto spinta sul fronte acido (unico consiglio: forse ne basterebbe una versione di dimensioni inferiori) mentre il cioccolato, nocciola e latte di capra, magari meno originale, è davvero straordinario nella sua golosità.

Servizio in sala professionale e ancora più accogliente in questo momento così duro per la ristorazione e bella carta dei vini (su tablet), con qualche ottima occasione come il nostro adorato Mont Benoît di Brochet, capace di accompagnare buona parte di piatti così diversi.

Merita decisamente la visita il ristorante di Angelo Sabatelli, un riferimento assoluto per la regione e per tutto il sud del nostro paese.

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Piazzetta Milù: solida tradizione e schegge di avanguardia

Michele, e Lucia e i loro tre figli Emanuele, Valerio e Maicol. Cinque teste, dieci mani e un solo sogno da perseguire: il ristorante perfetto. 

Questa è la sintesi ideale della famiglia Izzo e della loro storia, di quella fatta di tempo, impegno, passione e grandi capacità. La preistoria con la pizzeria d’asporto, poi il mestiere della carne con la passione per la griglia, infine quel giorno che Emanuele sostituisce il padre a una lezione del corso per sommelier. Per caso.

Oggi Piazzetta Milù è su tutte le guide gastronomiche, Valerio dirige la sala e, per ultimo, Maicol, approdato in cucina allungando un po’ il tragitto tra casa e ristorante passando per Gennaro Esposito, Alain Ducasse, Mauro Colagreco e perdendosi in Spagna tra le varie insegne del gruppo El Barri di un certo Albert Adrià per quasi tre anni. E i genitori, sempre con il sorriso, lì all’ingresso, complici a sovrintendere, coadiuvare e benedire.

Seduti  a tavola comincia il viaggio, un viaggio, un’avventura, sì, ma con le valigie piene di cose di casa. 

C’è forma e c’è sostanza, gioco e accademia e con la degustazione lunga si coglie in pieno questa intenzione. Un susseguirsi di piatti incalzante, presentati spesso con appendici, rifiniture, sorprese quasi come una esplosione della materia. La carota, svuotata e disidratata presentata come un grissino, è un piccolo capolavoro, manifesto di tecnica e audacia al quale subito si contrappunta il sincero ragù con il pane, quello familiare della domenica, portato nel pentolino di rame come fosse rimasto lì, in attesa per la “scarpetta”. C’è un polpo che tra il brodo iniziale e la rifinitura su griglia  viene marinato nel kimchi e ci sono tutte le consistenze del cavolfiore tra sifone, piastra, semplice coltello e sentori affumicati a dare ritmo alla tradizionale pasta mischiata. E il mestiere nella rana pescatrice, elegantemente porzionata al carrello, prima cotta in un fondo ottenuto con la testa poi servita in uno specchio di salsa di pomodoro del Piennolo. Infine, dessert perfettamente allineati alla filosofia del luogo, in bilico tra la mirabolante spiga di grano ricostruita con una spugna di mais e le sue parti croccanti in abbinamento al cioccolato e caramello salato e un babà flambato al tavolino, con il fuoco del rum.

Menzione obbligatoria per i vini, con una carta stimolante e insolita sempre in aggiornamento e soprattutto per i percorsi assolutamente non convenzionali che il sommelier Emanuele propone in abbinamento.

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Elogio del grande ristorante italiano

“Bistrot, cucina del giorno, locale multifunzionale, no tovaglia, no menu alla carta, ingredienti poveri, tavoli vicini, no prenotazioni, sì cantina (15 etichette)…”

Si può sintetizzare così, in poche parole, la linea della ristorazione degli ultimi 15/20 anni? Ovviamente no, il nostro è solo un gioco, e la rivoluzione che ha portato a privilegiare la cucina a scapito di tutto quello che, a torto o ragione, è considerato “accessorio”, ha avuto i suoi indubbi meriti. Eppure, passare qualche ora a La Peca, aiuta a non scordare quali emozioni può regalare il grande ristorante. Inclusivi da sempre, noi di Passione Gourmet amiamo tanto la cucina senza fronzoli quanto le sale dei grandi ristoranti del mondo, convinti che nel mondo della gastronomia ci sia posto per tanti e c’è bisogno di tutti.

Per fortuna, i grandi ristoranti non sono scomparsi dalla faccia dalla terra, ci sono fulgidi esempi anche in terra italica di grandi Case che hanno segnato e continuano a segnare la storia della grande alta cucina e del ristorante di “lusso”. Ma c’è una caratteristica che rende La Peca diverso da tutti gli altri grandi ristoranti e che lo fa balzare di netto fra le migliori soste che possiate fare in Italia: il senso di familiarità, la valorizzazione della “casa” e la capacità di far sentire qualunque cliente come avvolto in una nuvola di comfort. Il lusso spogliato della altezzosità e portato al livello della vera eleganza. E tutto nella maniera più spontanea possibile.

La cura del dettaglio

Fuori stress, velocità, rumore; entrare qui dentro è come entrare in una realtà parallela dove abitano tutti gli ingredienti per passare una grande serata. Ovviamente, la cucina: centrata, gustosa, tecnica ma facilmente godibile. Maestosa in alcuni passaggi, come nei garganelli con astice, porcini e tartufo nero, indiscutibilmente fra i 5 migliori piatti di pasta mai mangiati.

Un servizio del vino fuori dall’ordinario: pur in una carta con ricarichi importanti sulle grandi bottiglie, la presenza di 2 fuoriclasse in sala continua a fare la differenza. Pierluigi Portinari, ovviamente, ma anche Matteo Bressan: un uomo di sala e cantina che non serve le etichette ma il vino, appunto. Lo capisci quando, a fine pasto, in abbinamento a una lepre memorabile non ti porta un Grand Cru di Borgogna ma un fantastico Tai Rosso prodotto a pochi km dal ristorante.  Le persone fanno la differenza, sempre.

Infine, un ristorante confortevole, con tutti dettagli al posto giusto: dai tavoli ampi, ben illuminati e distanziati fino alla sala per fumatori, dove ritrovare il godimento di un distillato o di un buon sigaro.

Il ristorante completo, dalla A alla Z, preciso in tutti i fondamentali. Per questo la Peca è uno dei migliori locali d’Italia.

Il grande ristorante è morto? No, è più vivo che mai.

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La cucina di un girovago di nome Vitantonio Lombardo  

Classe 1979, lucano di Savoia di Lucania, passa la sua vita “gastronomica” lontano da quella casa dove i genitori contadini e la nonna gli avevano trasmesso quell’amore per la terra, e per la cucina, che si rivelerà tratto distintivo della sua carriera ai fornelli.

Un percorso iniziato a Bagno di Romagna da Paolo Teverini, poi proseguito da Silver Succi fino ad arrivare alla corte di Gianfranco Vissani e attraverso cui ha appreso tecnica, stile e sensibilità nel trattamento della materia prima nonché un approccio “diverso”, personale alla cucina. È forte il richiamo del Sud quando inizia l’avventura alla Locanda Severino di Caggiano (Salerno), luogo della consacrazione con la Stella Michelin ma l’obiettivo è il ritorno nella propria terra, finché nel 2018 nasce Vitantonio Lombardo Ristorante a Matera.

Un matrimonio che appare perfetto quello tra uno chef talentuoso ed eclettico, che ama la tradizione ma senza farsi mancare una lettura moderna e più internazionale della cucina italiana e una città magica, ricca di storia, ma protesa verso una dimensione nuova e comunitaria grazie al “ruolo” di Capitale della Cultura 2019. Una città che ospita oggi una magnifica grotta e uno chef che l’ha trasformata in un bellissimo ristorante dove la pietra bianca trionfa ovunque e l’eleganza e l’essenzialità caratterizzano la cucina a vista e le due sale. Qui che si muove anche il fido Donato Addesso, assieme allo chef sin dai tempi di Locanda Severino. Grande uomo e maître di sala, Donato è empatico e discreto, custode dei segreti della cucina e appassionato nel trasmettere, con trasporto, la storia di ogni piatto. 

Cuore, testa e pancia 

Ne viene fuori una cucina distintamente del Sud, morbida ed equilibratamente sapida con punte di dolcezza e qualche acidità, in armonia con l’equilibrio generale del piatto. 

Mi è caduto l’uovo nell’orto e Steccafisso con baccalà, peperoni e lamponi segnano l’inizio goloso del menu e aprono la strada all’arcinota Pizza in black – nera a causa dall’impasto col carbone vegetale – con spuma di ricotta e tartufo omaggio a Black is Black dello stimato amico Davide Scabin. Il Risotto con burro, alici e fichi, un pelo sbilanciato sulla dolcezza, lascia decisamente il passo a una grande interpretazione di un piatto della tradizione fin troppo banalizzato: le orecchiette che, in questo caso, sono arricchite da un estratto di cime di rapa, emulsione di ricci di mare e burrata accompagnate con il pane all’aglio nero.

Emozioni nel piatto, ma non solo, quando arriva Per Frank, piatto simbolo di Vitantonio Lombardo dedicato alla memoria di Frank Rizzuti, chef scomparso prematuramente, amico e prima Stella Michelin della Basilicata: il piatto, una pasta mista in zuppa di crapiata, bisque di gamberi, crema di foie gras, pesto di prezzemolo e tartare di gamberi è ricco e con un sapore deciso ma risulta elegante e, in ogni senso, commovente. L’astice e il galletto con peperone, zenzero e Campari è un “simpatico” gioco che cattura l’attenzione per l’inusuale quanto riuscito connubio mentre Miseria e Nobiltà porta nel piatto un filetto di vitello affumicato alle erbe, animella, purè di patate aromatizzato al tartufo e una deliziosa riduzione di Aglianico, che vale da sola l’intero piatto. La chiusura è affidata al Raviolo dolce ai due pomodori, sorbetto al basilico e ricotta salata: dolcezze, acidità e freschezza in un dessert tutt’altro che semplice.

Cuore (Matera è bellissima e rapisce), testa (Capitale della Cultura 2019) e pancia (Vitantonio Lombardo penserà a voi) saranno validi motivi per programmare una visita in Basilicata.

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La cucina divertente di Metamorfosi

Metamorfosi è il locale di Roy Caceres, chef di origini colombiane, da anni a Roma. È un bel locale, dal design minimale, elegante e materico nelle scelte di interior design.

Il nome era sicuramente caratterizzante, in passato, della cucina dello chef: la metamorfosi è la trasformazione di un essere o oggetto in un altro di natura diversa e questo era l’approccio che caratterizzava alcuni piatti proposti. Ora, a detta dello chef, ci si è voluti spostare dalla ricerca dell’effetto sorpresa nell’estetica concettuale del piatto verso una focalizzazione più sul gusto e sull’umami. 

È rimasto però un piatto “manifesto” del concetto della metamorfosi, che è l’Anti-Pasta, concepito per un invito ad un congresso di gastronomia sulla cucina Futurista, il cui “manifesto” auspicava per appunto l’abolizione della pasta asciutta. L’Anti-Pasta è in realtà una zuppa di mare gelificata con alga, resa a tagliatelle, poi essiccata e infine re-idratata e mantecata con un’emulsione di teste di gamberi, che si trovano poi presenti, crudi, insieme a cannolicchi alla base del piatto. È un bel gioco creativo e concettuale di texture e sapori per un piatto davvero insolito e intrigante.  

Colombia chiama Italia

Il menù degustazione, “Expresion” spazia da Roma, con una rivisitazione della carbonara con un uovo cotto a  65°, servito con una spuma di pecorino, guanciale, pasta fritta e cotenna soffiata, ad altre regioni italiane e fino al Sud America. 

È una cucina che si muove su terreni di rotondità gustativa, con un elemento di acidità che torna spesso: il limone, presente in versione liquida, grattugiata, fermentata e gelificata. Il ceviche di capasanta, con il suo leche de tigre, lulo, avocado arrosto e strufoli alla ‘nduja è un piatto deliziosamente fresco e spinto nell’acidità e piccantezza. Sud America anche nella pluma di maiale in salsa di mole, nascosta sotto una foglia di lattuga in camouflage e accompagnata da yogurt greco, un piatto esteticamente molto bello e godurioso, da scarpetta finale. Un gioiellino di equilibri è il pre-dessert: un cioccolatino bianco con Blu di Monviso e riduzione di Porto che introduce al dolce: un gelato di juzu, crema di limone e camomilla, sotto un velo di latte di mandorle, sorprendente ad ogni cucchiaiata per il gioco di consistenze, sapori e temperature. 

È una cucina divertente nella forma e nella sostanza, con lo chef che gioca con piatti che prevedono anche tanti ingredienti, con varie tecniche ma con un approccio sempre molto concreto e facile da decodificare. Sarebbe solo auspicabile essere sorpresi un po’ più frequentemente, perché all’interno del menu degustazione ci sono dei piatti che, per quanto ben fatti e buoni, risultano però essere un po’ “emotivamente” neutri al palato. 

Difatti, quella di Caceres è una cucina per nulla ostica, adatta a un target di clientela più allargato possibile, che riesce sicuramente a incuriosire e farsi apprezzare. La dimostrazione? Il locale pieno in una serata infrasettimanale.

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