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Il risotto, il lattume, il pane e lo Chablis

Bianco su bianco: il risotto di Massimiliano Alajmo e lo Chablis

Calandre, autunno, interno giorno. Un risotto bianco con lattume, bianco, di storione e briciole di pane, e uno Chablis dal sorso sferzante eppur attraversato da una solida struttura. Un piatto di monastica bellezza, un inno alla stagione, ai suoi profumi e i suoi colori, così come sempre ci ha abituato il menù e la carta di uno dei ristoranti più plastici e dinamici del panorama gastronomico nazionale. 

Questo particolare risotto, però, è anche un capolavoro di complessità sottile, un gioco tra sapidità e acidità, tra sensazioni lattiginose e croccanti, tra morbidezze mai troppo rotonde, e asperità mai troppo pronunciate. Un capolavoro di misura, nonché un risotto buonissimo ma, questo, era forse scontato dato che a realizzarlo è uno Chef che non abdica mai all’aspetto goloso e confortante di una cucina raffinatissima, la sua, iper-complessa mai senza darlo a vedere: parliamo di Massimiliano Alajmo.

Gli associamo, rispondendo a un’intuizione di ordine cromatico che, come spesso accade, nel vino, si rivela sempre appropriata, lo Chablis Vielles Vignes di Domaine Hamelin il cui solo apparentemente esile corpo può contare, però, su un corredo strutturale dato dalle vecchie vigne – un fazzoletto di terra di soli due ettari, con piante di 70 anni messe a dimora su suolo gessoso, sovrapposto ad argilla e calcare – e sul lungo affinamento, di oltre dieci anni. Un sorso sferzante che la grassezza del lattume e del riso, che l’amido rende naturalmente dolce, incalza per contrasto, consegnando al palato uno di quegli equilibri rari: conflittuali e perfetti. Il Domaine, che opera su una superficie di 37 ettari, si estende sui tre villaggi di Poinchy, Beines e Lignorelles.

Parafrasando il detto, a dire il vero in un’accezione poco piacevole, “il riso abbonda nella bocca degli stolti“, propenderemmo per coniarne uno di nuovo, adeguato agli appassionati gourmet: “il riso abbonda nella bocca dei gourmet“.

Eh, sì, perché il riso, o il risotto, è certamente diventato, soprattutto in Italia, un piatto decisamente gourmet. Erroneamente considerato più elegante e più fine di una pasta, in realtà rispetto a quest’ultima ha l’indubbio vantaggio di poter essere interpretato come una tela su cui dipingere mirabolanti quadri d’autore, più che piatti di alta cucina. Che poi, come si sa, il confine è decisamente labile tra i due paragoni.

E precisamente questo confine tra arte e piatto, ormai a qualsiasi latitudine dell’italico Stivale, ritroviamo. Tanti sono, infatti, i risi d’autore del centro-sud: Niko Romito, Gennaro Esposito, finanche Luca Abruzzino hanno creato mirabolanti risotti decisamente importanti e profondi.

L’ultimo, ma non per importanza, è quello di Gianluca Gorini, che continua a stupirci con i suoi giochi sulle nuance dell’amaro di cui sicuramente è uno dei massimi esponenti d’Italia. Un riso che parte da un seme poco conosciuto, il Sant’Andrea, che è in questo caso prodotto da una azienda giovane ma molto dinamica e interessante, Terre Alte di Villarboit, cotto in acqua di vongole, mantecato con olio di Oliva, terminato con dragoncello, limone salato in pasta, origano e polvere di olive nere essiccate e affumicate.

Un tripudio di acido, amaro, quasi iodato-fenico (ricorda la bottarga l’abbinamento limone-origano-acqua di vongole) dalla lunghezza e derive aromatiche decisamente intriganti e persistenti. Un riso non convenzionale, che grazie al punto di cottura al ferro, perfetto, e alla cedevolezza dell’amido della tipologia di riso consente una mantecatura con pochi grassi, che però rimangono evidenti al palato nella loro aromaticità. Un riso da provare che, secondo noi, diventerà un signature dish di Gianluca Gorini, grande talento italiano in cucina.

O, della resilienza

In primavera, da Piazza Gae Aulenti al Ratanà, è tutto uno zigzagare tra i fazzoletti di verde punteggiati dei vivacissimi colori dei papaveri, dei fiordalisi e delle margherite de La Biblioteca degli Alberi, tra le architetture e i cantieri della cosiddetta “Nuova Milano”. Qui, la sensazione è davvero quella di trovarsi nel punto più prossimo al nucleo profondo della città: un habitat che ha introiettato il cambiamento così visceralmente da farne la conditio sine qua non della sua esistenza, della sua resistenza e, non ultimo, della sua prosperità.

Perché è sempre attuale, Milano, e pertanto accondiscendente nei confronti di una trasformazione che è capace di far coesistere, in questo scenario avveniristico, anche una palazzina dei primi del Novecento. È quella del Ratanà, la dimora dove Cesare Battisti ha trovato la sua dimensione professionale ed esistenziale, anch’essa risolutamente avvitata attorno al concetto di resilienza che campeggia, a mo’ di monito, anche sul menù, dove si trova scritto quanto segue: “Adattarsi non significa accontentarsi. Anche l’acqua di un fiume si adatta alle sponde che la contengono, ma non per questo si accontenta: continua a cercare il mare.

La citazione, tratta da un brano di Giulia Bergonzoni, è però anche presagio di una cucina,  quella di Battisti, per cui “il mare” altro non è che la città stessa, che lo chef abita – e di cui è abitato – sin dall’infanzia, trascorsa tra le tentazioni e le desolazioni di via Padova anni ’90.

Il ristorante di Milano

Ratanà, infatti, ha oggi introiettato ciascuno degli stimoli progressisti della “primavera” post Expo e li ha impastati con le nostalgie della Vecchia Milano, che rivive in versione ipertrofica nel risotto omonimo col midollo in osso, la gremolata e il sugo d’arrosto, quasi un’allucinazione tanto potente e filologico, quanto nei mondeghili, attraversati però da un sospetto esotico: ovvero un’affatto ortodossa ancorché piacevolissima speziatura.

Molto coraggioso, come ci fa notare l’amico Gabriele Zanatta, “il punto di sale” sposato da Battisti, di certo più di un punto sopra quello imposto dalla vulgata popolare, e quindi squisitamente retrò. Una scelta, questa, che si rivela in tutta la sua sensatezza in particolare nelle strisce di pasta al ragù d’agnello e rigaglie, dove il supporto della pasta pallida, tumida e consistente, è opportunamente separato dal suo condimento, e rovesciato rispetto alla consuetudine che vorrebbe la pasta sotto e il sugo sopra. Qui, la pasta sormonta il suo condimento e si combina nella forchetta alternando la sacrosanta dolcezza e avvolgenza donata dall’amido con la sugosità saporitissima del sugo, a piacere del commensale. Un tributo al libero arbitrio, insomma, che ritroviamo in tutto il menù, posto che si sappia dove e come collocare le portate.

L’intera esperienza è difatti un agone tra due spinte: quella di piatti rinfrescanti, capaci di riconsegnare il milanese all’efficienza della produttività che la città ancora gli domanda – e che ritroviamo nel riposante ceviche con salmerino alpino e avocado siciliano, nei felici peperoni rossi in carpaccio e nel virginale vitello tonnato con capperi di Salina – e quella più meditativa imposta da piatti che, invece, esigono un periodo di decantazione postprandiale che riguarda, oltre i due primi già citati, anche la terrina di pecora brianzola alle erbe con crostone di polenta di mais rostrato rosso e aglio orsino: un piatto imponente e molto potente, prodigo della concentrazioni caloriche del cibo di montagna e dei suoi umori ovini.

Vivace e stagionale la sezione dedicata ai dolci – ci è rimasta la curiosità di assaggiare nespole e zenzero –  nonché il corposo compendio dedicato agli spiriti a suggello di una carta dei vini gremita di referenze interessanti, a ricarichi più che leali.

La Galleria Fotografica:

Uno storico mulino, un’antica pila, la cucina del riso di Davide Botta

Davide Botta, bresciano, classe 1967, membro onorario dei JRE di cui è parte dal 1997, ha trascorso quasi tutta la sua vita professionale tra Brescia e la Franciacorta dove ha conseguito importanti riconoscimenti professionali con la sua trattoria L’Artigliere, tra i quali l’agognata stella nel 2003.
Poi nel 2013 la decisione di trasferire il ristorante da Brescia a Isola della Scala, pochi km fuori Verona, nel cuore di una delle più nobili zone del riso italiano, quella del Vialone Nano.
E location più bella non poteva trovare: un mulino del 1600 con all’interno la più antica pila per la lavorazione del riso della zona, la cui enorme ruota fa ancora bella mostra di sé dietro ad un vetro della sala. La ristrutturazione è stata effettuata con mano sapiente rispettando e valorizzando al massimo l’originalità del luogo.

In questa antica, suggestiva struttura sorge oggi l’Artigliere, ristorante con locanda: otto tavoli e cinque camere con in più anche una zona relax dotata di una mini SPA.
Al centro di tutto, il riso, e non poteva essere diversamente vista la zona e la location. Almeno una decina i risotti in carta, ai quali è dedicato anche uno dei numerosi percorsi di degustazione, intitolato I Fantastici 4, che prevede, appunto, l’assaggio di tre risotti e un dessert.

L’accoglienza è calda, di stampo familiare con lo chef che si divide fa sala e cucina, occupandosi anche di consigliare la bottiglia giusta, pescando da una carta di vini non molto estesa, ma che ha più di un motivo di interesse. A coadiuvarlo, in sala, il garbo e la professionalità della moglie Marina, in grado di far sentire l’ospite davvero come a casa.

Cucina di pancia che in qualche passaggio difetta in finezza

La cucina è di spiccata natura gourmand, senza compromessi, dai sapori chiari e decisi. Lontana anni luce da sperimentazioni e cerebralità. È diretta, punta alla pancia più che alla testa, cerca costantemente il colpo del Ko. E, a nostro giudizio, a volte esagera, sovraccaricando inutilmente il piatto.
Emblematico al riguardo il Timballo di riso allo zafferano con animella, foie gras e tartufo nero in cui il risotto, già di per sé riccamente mantecato e goloso, è sovrastato (letteralmente) da animella e foie gras (in proporzioni praticamente paritetiche rispetto al riso) e come se non bastasse da una abbondante grattugiata di tartufo nero. Onestamente troppo.
Non ci ha convinto appieno neanche il Risotto al Franciacorta, caratterizzato da un residuo alcoolico troppo elevato e dall’aggiunta di due ostriche fritte che nulla aggiungono se non ulteriore grassezza al piatto.
I piatti migliori all’inizio del pasto: dagli appetizer, tutti molto centrati, al Carpaccio di calamaro con piselli, mandorla e rapanelli, piatto fresco, lineare il cui sapore gioca tutto su due fronti: dolce e amaro, fino a una versione molto delicata ed equilibrata di un grande classico veneto come Polenta e stoccafisso.
In conclusione, una location davvero bella, anche per pernottare, un locale in cui, nel complesso, si sta molto bene e ci si sente coccolati. La cucina è tutta sostanza e affidabilità, anche se in qualche passaggio difetta un po’ di eleganza.

La galleria fotografica:

È ormai da parecchi anni che stiamo assistendo ad un importante cambio di paradigma, quando parliamo di alta cucina. Fino a una decina di anni fa era difficile scindere il concetto di gourmet da quello di sfarzo, di grandi relais, di servizi degni di corti reali, di carte altisonanti, nel solco di quella grande tradizione di stampo francese da tanti avversata, ma di fatto spesso volutamente imitata.

Negli ultimi anni però qualcosa è cambiato, forse seguendo una deriva meno formale di stampo nordico, rimanendo affascinati dalla cultura nascente dei gastro pub e piacevolmente sorpresi dalla rivincita in chiave gastronomica dei bistrot francesi. Di conseguenza l’Italia ha voluto riappropriarsi dei propri valori e, riprendendo coscienza di sé, ha ricominciato a manifestarsi mettendo a nudo la sua anima semplice e diretta.
Questo ha sicuramente aiutato una nuova generazione di talenti a intraprendere nuove avventure senza doversi gettare in investimenti faraonici.

Uno di questi esempi è l’hotel Cinzia di Vercelli. Per quanto recentemente restaurato, il suo stile un po’ vintage non sembra avere nulla che lo possa contraddistinguere da simili strutture situate nelle periferie di altre città. Anche l’accesso sembrerebbe precludere qualcosa di diverso dalla sala dove gli ospiti di un ordinario albergo si recano per la colazione, per il pranzo o per la cena. E invece, già entrati nell’elegante ma nel contempo discreta sala, si percepisce di essere al cospetto di qualcosa di più.
Dal 2005 due giovanissimi fratelli si sono installati in questa struttura familiare, proponendo una cucina di alto livello, sempre attenta al territorio ma aperta all’eclettismo, che ben presto ha iniziato a riscuotere consensi da pubblico e critica. Il tutto accompagnato da un servizio elegante, affabile e immediatamente in sintonia con il cliente, che fa presto soprassedere su alcune piccole imperfezioni.

Per molti appassionati i nomi Christian e Manuel Costardi sono da ricollegare a un’unica materia prima: il riso. Ed effettivamente per anni il prodotto principe della terra vercellese è stato il cardine indiscusso della loro cucina. Declinato in una trentina di varianti, ha costituito e costituisce ancora un elemento di attrazione decisivo per i suoi estimatori.
Ma c’è molto altro e, seppure i risotti costituiscano ancora una parte importante della carta (se ne trovano oltre una ventina, scusate se è poco), i fratelli Costardi stanno vieppiù cercando di dimostrare che possono avere qualcosa da dire anche lavorando su altre materie prime. Christian, il maggiore dei due fratelli e il più comunicatore, si intrattiene volentieri svelando aneddoti, idee e progetti futuri.

Il risultato è una cucina elegante, giovanile, essenziale, priva di orpelli ma finalizzata a sensazioni gustative chiare, raramente sconfinanti nel provocatorio ma nella maggior parte dei casi intriganti. Una cucina che sta cercando di aprirsi e guardare oltre, già riuscendoci molto bene. Preparazioni che trovano nell’armonia gustativa il loro equilibrio perfetto, lasciando presagire le potenzialità di due grandi cucinieri ancora in divenire, forse frenati dalla timidezza, ma di certo capaci, quando se la sentiranno, di spingersi oltre i limiti che la ragione impone. Siamo certi che a breve i Costardi Brothers supereranno l’imbarazzo di specchiarsi, riconoscendosi parte integrante e proattiva di un’evoluzione gastronomica italiana innovativa, spregiudicata e sincera.
Le potenzialità ci sono tutte, il tempo per realizzarle pure.

Patata e baccalà. Apertura garbata ed elegante.
patata e baccalà, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Pic Nic a Mazara del Vallo.
La consistenza e la grassezza del gambero crudo (superba materia prima) trovano un ottimo bilanciamento nella croccantezza del pistacchio e nei sentori dati dalla leggera tostatura eseguita con la fiamma al tavolo. La fruizione rigorosamente manuale non è per la verità esente da potenziali problemi.
Pic nic, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
gambero di mazara, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Scampo in saor.
Ideale pendant del piatto precedente. La sapidità data dalla cottura unitamente alle note acidule tipiche di questa preparazione portano un gradevole pulizia in bocca.
scampo in saor, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Capasanta.
Scoprendo la conchiglia l’impatto visivo è quello di un paesaggio nordico, l’apparente severità risulta tuttavia più estetica che gustativa. La crema di latte, con un’appena percepibile nota acidula, evita il contrasto aperto mantenendo però il palato sveglio, e sostenendo alla perfezione il gioco di consistenze e sensazioni gustative tra la sapida carnosità della capasanta e lo iodio dello sfuggente caviale. Cristallino.
Capasanta, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Triglia.
Piatto di un’estetica molto evocativa. La panatura sembra quasi un ritorno ciclico del Pic Nic, seppur privo della sua nota amarognola ma interessante per l’apporto di aromaticità e croccantezza. All’arancia e alla “sabbia” alla base il compito di apportare una misurata acidità, rispettivamente sapidità e un’inaspettata coda aromatica (paprika…).
Triglia, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Carota viola.
Al gusto si fa notare il sapiente apporto della barbabietola, che evita una prematura assuefazione del palato e porta la necessaria succulenza a un piatto relativamente asciutto.
Carota viola, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Risibisi e seppia.
La materia principe della zona, malgrado la volontà di emancipazione in atto, non è certo stata rinnegata, ed eccoci al primo risotto.
Niente mantecatura con burro o con olio, l’elemento legante è appannaggio esclusivo del pisello, il quale con la sua tipica mineralità ben si sposa con la materia ittica. Un abbinamento classico sapientemente applicato a un prodotto del territorio.
Risibisi e seppia, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Taglio sartoriale.
Più da golosi la seconda proposta del risotto, servita nell’ormai famosa “lattina” creata qualche anno fa in collaborazione con il sempre vulcanico Bob Noto. Un sontuoso risotto alla riduzione di birra Moretti Grand Cru, crema di Grana Padano 27 mesi. Viene in aiuto la millimetrica spruzzata di polvere di caffè arabica, perfetta a sostenere il piatto fino all’ultima forchettata.
taglio sartoriale, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
risotto, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Animella, mandorla e pak choi.
Un piatto che ci ha decisamente divertiti. La consistenza volutamente molto croccante su un lato, la salsa al Marsala, la mandorla: in bocca le sensazioni ricordavano quelle di un maialino al forno! Il pak choi ad apportare il necessario, ma sempre garbato, contrappunto amarognolo ad evitare un eccessivo sbilanciamento del piatto verso le note dolciastre.
animella, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Coturnice nell’orto.
La coscia, elemento di sapidità più pronunciata cui tradizionalmente viene assegnata funzione di chiusura, costituiva stavolta a sospresa l’elemento di apertura. Il petto, a parte l’evidente apporto estetico al piatto, assumeva invece quasi il ruolo di companatico al senz’altro riuscito gioco di consistenze, temperature e sensazioni gustative tra la salsa (sapida, naturalmente calda) e l’”orto” alla base del piatto (aromaticità, mineralità,contrasto di temperature). A questo punto la coscia nella forma proposta, ne abbiamo convenuto, fosse seguita avrebbe costituito un anticlimax.
coturnice nell'orto, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Coturnice nell'orto, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Coscia, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Panna cotta morbida con mosto d’uva.
Elemento di inconsuetudine è la consistenza morbida e avvolgente. Gustativamente, siamo su binari abbastanza classici, ma il livello di realizzazione è ammirevole.
Panna cotta, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Ivoire mela finocchio e sedano.
Il cioccolato bianco proposto risulta perfettamente bilanciato dall’acidità della mela e dalla mineralità di sedano e finocchio. Un piatto fresco che evidenzia un equilibrio e un’eleganza non da tutti.
Ivoire, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Indivia.
Chiusura che concede qualcosina in più al concetto tradizionale di dolce, ma non troppo. La mineralità amarognola dell’indivia, unita alla polvere di capperi, si trova a bilanciare le lievi parti dolci del piatto, conferendogli una freschezza che ne ha resa rapidissima la sparizione.
Indivia, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
I petit fours.
petit fours, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli
Il vino che ci ha accompagnato a tutto pasto.
barolo, Costardi Bros, Chef Christian e Manuel, Vercelli