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Taverna del Porto

Il Salento e la dignità propria della sua cucina marinara

Bagnato com’è su tre sponde, il Salento è generalmente visto da lontano come territorio di mare e, in particolare, chi non lo conosce a fondo, ritiene che la dimensione culturale di questo lembo d’Italia sia più legata all’acqua che alla terra. Benché tale visione si riveli, a un’analisi appena più approfondita, assai superficiale e condizionata dal battage a uso e consumo del turismo, nondimeno il ‘tacco’ può effettivamente contare su una tradizione marinara che è ben più ricca rispetto ai soli, truci, racconti di incursioni saracene e testimoniata da tradizioni, architettura e, ovviamente, usi culinari propri. Troviamo così, oltre a ricette marinare rintracciabili lungo tutte le coste italiane, preparazioni come la Scapece gallipolina, una conserva di pesce povero fritto e condito con aceto, zafferano e pane, tradizionalmente servita direttamente da tinozze in castagno dette calette, a raccontarci di una storia ricca di peculiarità.

Un ristorante come punto di arrivo di un piccolo romanzo familiare

Le premesse sovraesposte, unite alle opportunità economiche e imprenditoriali offerte dall’esplosione che il turismo salentino ha avuto negli ultimi quindici anni, porterebbero a pensare che sia relativamente semplice rintracciare una grande tavola marinara lungo le coste leccesi, ma così non è. Quando si tratta di cucina ittica, infatti, a fare la differenza non è solo la qualità del pescato, che nella zona non è un’impresa trovare in tutte le sfumature intermedie fra il buono e l’indimenticabile, ma anche la capacità di non mortificare tale materia prima con preparazioni eccessivamente invadenti. La famiglia Coppola, da generazioni impegnata nella filiera ittica, dapprima nella pesca e, in tempi più recenti, nel commercio, ha da qualche anno ampliato i propri orizzonti imprenditoriali aprendo, a poche decine di metri dai moli di Tricase Porto, la Taverna del Porto. Il  locale sarebbe anche una pizzeria ma, malgrado i nostri informatori neppure troppo segreti ci riportino di una strepitosa Pizza con i ricci, i forni non verranno riaccesi prima del termine della ristrutturazione del piano superiore. Al piano inferiore, invece, rielaborato nello stile di una taverna greca, è già tornata protagonista dopo i lavori invernali la cucina di Giovanni Ingletti.

Una cucina semplice, con molti pregi e ancora qualche ingenuità

L’offerta gastronomica della Taverna è studiata con intelligenza, con un nucleo fisso di una ventina di proposte, declinabili secondo i capricci del mare, e qualche alternativa proposta a voce e legata alle materie di più saltuaria reperibilità. Crostacei e molluschi la fanno da padroni, in carta così come nelle ordinazioni, e l’instancabile lavoro svolto al bancone davanti ai nostri occhi dall’addetto all’accoglienza ne è l’evidenza. Fra i piatti provati, una menzione di merito va alle Linguine Cavalieri con aglio, olio, peperoncino e mare, con gamberi appena toccati dal calore della cui dolcezza e consistenza serberemo a lungo il ricordo.  Di fronte a una tale conoscenza della materia, stona ancor di più il dilettantesco dettaglio degli intestini dei crostacei in bella evidenza nel crudo presentatoci. Il servizio è svolto con piglio e simpatia, mentre la carta dei vini per il momento è un po’ esigua e sulla difensiva, ma abbiamo l’impressione che anche sotto questo profilo ne potremo vedere, nei prossimi anni, delle belle.

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Una tavola che ha saputo rinunciare alle certezze guadagnate per progredire ancora

Non fermarsi mai. È questo lo spirito della famiglia Magistà e del loro Pashà. Ottenuta la stella Michelin nel 2014, Maria Cicorella e il figlio Antonello hanno scelto di non limitarsi a osservare – dalle torri del Castello di Conversano – una scena ristorativa pugliese sempre più in crescita. Al contrario, hanno alzato ulteriormente l’asticella, investendo sulla location e dando il via a un nuovo corso ai fornelli. Il primo grande passo è stato mosso nel 2016, con il trasloco che ha visto il ristorante abbandonare la piazza principale per la pace di un vicino Seminario Vescovile – in parte ancora adibito alle funzioni religiose – già utilizzato come sede di eventi e ricevimenti. Qualcosa si è perso a livello di vista ma, nella nuova veste, il Pashà può oggi contare su ambienti di più ampio respiro, con spazi maggiormente fruibili rispetto a quelli che la precedente location, splendida ma articolata in infinite e un poco claustrofobiche salette, poteva garantire. La vera sorpresa, però, è stata la scelta di ingaggiare l’abruzzese Antonio Zaccardi. Quarantenne, oltre un decennio di lavoro come braccio destro di Enrico Crippa alla voce esperienze lavorative, Zaccardi è volato da Alba a Conversano insieme alla compagna e pasticcera Angelica Giannuzzi. L’obiettivo dichiarato è quello di affiancare Antonio alla autodidatta Cicorella, non di sostituirla. In effetti, durante la nostra cena, abbiamo avuto modo di apprezzare gli apporti di entrambi a questa bizzarra diarchia golosa.

La cucina del Pashà fra presente, passato e futuro

I piatti da noi degustati sono fra i primi concepiti per il nuovo corso: alcuni hanno subito solo lievi modifiche rispetto a un impianto preesistente, altri sono stati creati ex novo. I punti di forza della cucina di Mamma Maria – così è citata in carta – non si sono certo persi per strada. Ritroviamo così eccellenti materie prime – carni e vegetali in particolare – minuziosamente selezionate fra i molti tesori che questo lembo di Meridione ha da offrire e una cucina che racconta l’orizzonte gustativo del territorio senza perdersi in speculazioni filologiche.

L’apporto di Zaccardi, perlomeno in questa prima fase, ci pare aver aggiunto dettaglio e finezza a una cucina gustativamente già ben centrata. Un tocco giocoso si avverte nel Risotto come una pizza, con l’aglio strofinato sul fondo del piatto, le acciughe nel riso al pomodoro e pane di Matera abbrustolito e sbriciolato a ricostruire con successo l’idea di una Marinara. Non possiamo non ammirare malizie come la morbida legatura degli intingoli di cottura, esibiti non nella lucentezza caravaggesca dei fondi classici, ma lasciati leggermente lunghi – non slavati! – e perfettamente calibrati per non attaccarsi né navigare nel piatto o il lavoro sulla croccantezza dell’agnello, con la pelle che “canta” sotto il coltello, anticipando il piacere del morso.

Elogio di una grande figura di sala

La ricca offerta in accompagnamento all’aperitivo, gli ottimi pani e una pasticceria anch’essa in netta crescita, completano il quadro della nuova veste del Pashà. Nel trasloco non si è persa, ovviamente, neppure la maestria di Antonello Magistà, caloroso e competente padrone di casa, nonché custode di una cantina in continua evoluzione, ma già molto completa, e instancabile ricercatore di dettagli di pregio, tra cui la lampada che all’aperto ci ha permesso di fotografare – non senza difficoltà e con risultati per i quali ci scusiamo con i lettori – quanto degustato.

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Il ristorante è un racconto scritto col cuore da quattro fratelli in uno dei posti più belli di Puglia

Trani è una delle città più incantevoli della Puglia: il porto, la cattedrale di San Nicola Pellegrino, simbolo del romanico pugliese, il castello Svevo e un’apertura unica sul mare sono parte di un borgo antico, ricco di storia e cultura, dove convivono in armonia sinagoghe e antichi palazzi nobiliari.

Qui, nel 2011, inizia la bellissima storia di Quintessenza, frutto dell’idea dello chef Stefano Di Gennaro e della grande passione e professionalità dei suoi tre fratelli. Di origini contadine, la famiglia Di Gennaro si trova stretta attorno a un grande progetto comune: emozionare i propri visitatori e far vivere l’esperienza della migliore ristorazione pugliese a 360 gradi, dalla cucina alla sala.

Stefano, affiancato da Alessandro, guida la brigata di cucina con l’entusiasmo e la tenacia di chi sa cosa vuol mettere nel piatto. Cura per la tradizione, attenzione alle preparazioni di base, cotture “semplici”, rispetto della materia prima, innovazione senza troppi fronzoli, misurate contaminazioni e, appunto, tanta tanta Puglia.

Sarà per questo che i piatti si presentano con una grande pulizia ed eleganza e il gusto è sempre rotondo, centrato, senza sbavature ed eccessi, degne caratteristiche della “classica” cucina italiana. Una cucina, insomma, moderna, ma con radici salde nel territorio e nella migliore tradizione pugliese.

Alessandro Di Gennaro, il pastry chef della famiglia, non poteva che essere da meno: bellissima mano, bilanciamento degli ingredienti, carico zuccherino apprezzabile e fantastiche note di acidità. I dessert hanno decisamente tanto carattere abbinato alla giusta dose di audacia.

Cosa sarebbe, tuttavia, una grande cucina senza una sala all’altezza? Design minimal, eleganza nordica, cuore pugliese. È quello di Domenico, il più grande dei fratelli con tante bellissime esperienze di sala in Italia e all’estero, e Saverio, sommelier e grande appassionato di vini. È stupefacente assistere al loro approccio con tutti i clienti: grande empatia, professionalità e, al tempo stesso, la giusta “leggerezza”. L’esperienza in sala si fa meno ingessata e più viva, intima. Nel racconto di ogni piatto traspare tutto il loro trasporto e si tocca con mano la loro passione, come fossero custodi rispettosi del lavoro che c’è dietro ogni portata e ogni singolo ingrediente.

Lasciatevi guidare da Domenico e Saverio: nessuno come loro sa condurvi lungo il percorso ideato dai fratelli Stefano e Alessandro

La cena inizia con la scelta di una grande bollicina pugliese, complessa e dai grandi aromi: Metodo Classico di D’Araprì Gran Cuvée XXI secolo. Si prosegue con due simpatici divertissement dalla cucina: una gustosa Pallina di melanzana e una elegante e colorata Chips di sesamo nero, cacao e gel di limone.

Le prime contaminazioni compaiono con i primi due piatti del menu degustazione: la Ceviche di cernia, agretti, pepquiño e maionese di yuzu riesce a far convivere l’America Latina e l’Estremo Oriente con la cernia pescata nel mare pugliese. Il Polpo con fagiolini, tamarillo, pomodoro datterino marinato, gazpacho, granita di pomodoro cuore di bue e cipolla è coloratissimo, fresco, con interessanti note di acidità.

Autenticamente pugliese e piatto signature di Stefano è il Tortello, ricotta podolica, gambero rosso e bisque con moscato di Trani. Pasta ruvida, quasi “croccante” e gusto intenso di una bisque che esalta il gambero crudo.

Un nobilissimo Risotto Acquerello con scampo, bergamotto, caviale, fingerlime e foglie di tagetes precede una Spigola con asparagi, capperi essiccati e pompelmo.

La Colazione del contadino chiude la cena: un “dessert” che affonda le radici nel passato, quando i contadini, all’alba, prima di prendere la strada della campagna, usavano fare un pasto abbondante, quasi un pranzo in modo da avere la giusta energia per affrontare la giornata. La colazione che propone Alessandro è un Crumble di grano arso con pan di spagna all’olio, gelato alla ricotta, crema inglese, coulis di pesca.

La storia dei fratelli Di Gennaro è davvero la quintessenza della Puglia. Aspettiamo le prossime pagine di un racconto gustoso, avvincente e di lungo corso.

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La maturità di un cuoco

Quanto pesa, sull’esperienza di una cena, la scelta fra menu degustazione e piatti alla carta? Zero. Ma solo nel migliore dei mondi possibili. L’esperienza ci insegna, invece, che nei locali che offrono entrambe le alternative (ovvero, per quanto riguarda l’Italia, tuttora la stragrande maggioranza dei ristoranti gourmet) la forbice, in termini di risultati, risulti evidente e, spesso, piuttosto aperta.  Chi non voglia affidarsi a un percorso guidato è, infatti, sovente costretto a barcamenarsi fra creazioni concettualmente lasse o versioni gargantuesche – e non sempre ugualmente godibili – di piatti concepiti per i menu degustazione.  Non molti sono i ristoranti, anche fra i grandissimi, in grado di mantenere la stessa tensione lungo entrambe le proposte. Per questa ragione è da lodare chi, come Angelo Sabatelli, riesce a proporre due linee ugualmente funzionali, che si incrociano sulle stesse preparazioni laddove ciò trovi un equilibrio fenomenico, ma che più di frequente si presentano, ad alti livelli esecutivi e di concezione,  ciascuna con le proprie carte, quasi sempre le migliori. Non è, questa, che una conferma del livello di maturità espressiva da tempo raggiunto dallo chef pugliese.

Il passato, senza sentimentalismi

Nella rodata sede di Putignano, dove opera dalla primavera 2017, Sabatelli ha proseguito il suo singolare lavoro di sintesi gustativa dopo un’esistenza condotta tra la sua terra d’origine e i lunghi anni di esperienza maturata in Oriente (Jakarta, Shangai, Hong Kong…). Non c’è ombra di nostalgiche commemorazioni di sapori lontani nel tempo o nello spazio, in questa cucina, come neppure troviamo una sterile ostentazione di mode esotiche. Ciò che giunge in tavola è il risultato dell’artigianato e dell’onestà intellettuale di un cuoco che si è posto con mente aperta davanti alla vita e al mondo e si esprime, nel piatto, con una sincerità disarmante. Ogni preparazione, anche minima, punta dritto al centro del palato, sfruttando dislivelli – spesso millimetrici – di consistenze, concentrazioni, con finali lunghi ma allo stesso tempo chiusi e puliti. La nettezza gustativa non viene meno neppure nei numerosi passaggi fritti, padroneggiati magistralmente da un cuoco che, per nascita e formazione, ha raggiunto un controllo incredibile su una cottura tanto bistrattata quanto, se ben gestita, fra  le più rispettose verso gli ingredienti.

Una grande e originale tavola del Sud

Sabatelli aggiunge il proprio nome a quello di altri grandi interpreti dello spaghetto al pomodoro d’autore. La sua versione vede il protagonista in sei vesti differenti, in un rincorrersi di dolcezza, concentrazione, acidità e sottili giochi di consistenze. Più sfacciata è l’interpretazione della capasanta, con un trittico di preparazioni a volume della radio altissimo e rinfrescante brodo finale. Dolci golosi ma leggermente meno incisivi rispetto alle altre portate. Il servizio è governato con garbo e mestiere da Laura Giannuzzi, moglie dello chef, e dal sommelier Giovanni Tortora, instancabile ricercatore di piccole realtà come il piacevole Chakra Rosso di Giovanni Aiello, Primitivo di collina, che danza gestendo con grazia l’imponente muscolatura. Malgrado sia difficile prevedere ulteriori margini di crescita, quella di Angelo Sabatelli consolida il proprio posto fra le tavole imprescindibili per conoscere – qui, oltretutto da un’originale e stimolante prospettiva – il Sud Italia.

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Cucina e sala: una coppia eclettica e affiatata per gourmet “anarchici” a Bari

Bari è riassumibile in una passeggiata per le vie del centro, addentando una focaccia. Un giro per la città vecchia alla ricerca delle sgagliozze o ancora in coda per mangiare i migliori panzerotti. Qui a farla da padrone è sempre stato lo street food. Solo un “folle”, quale Antonio Bufi da Molfetta, chef de Le Giare, poteva pensare di ritornare “a casa” e proporre una cucina ambiziosa, complessa ed estrosa, fatta di tecnica e spasmodica volontà di far mangiare la terra pugliese, nel senso più letterale del termine.

Antonio Bufi da Molfetta ha girato parecchio: in Francia, allievo di Michel Roux, diverse esperienze in Europa e Asia, fino all’incontro con Moreno Cedroni e Gualtiero Marchesi. Il prototipo dello chef tatuato che non lascia indifferenti: cuoco, artista, scrittore, cantante.

A sorvegliarlo a vista, l’altrettanto eclettica e rigorosa compagna, Lucia della Guardia: cuoca, fotografa e ballerina. Custode di una sala sobria ed elegante, con grandi vetrate in cui si muove con naturale scioltezza. Un bel connubio di intenti, maestri di #SerialKitchen – la brigata – e promotori di un’idea ben definita di cucina: fatta di ortaggi di stagione, dell’utilizzo di fermentazioni piuttosto spinte; di incursioni di buon mattino nella murgia barese per raccogliere radici e spezie. Ma, anche evadendo con il pensiero oltre il territorio, nel lontano Oriente, in cerca di quelle contaminazioni capaci di valorizzare e amplificare il gusto.

A Le Giare “Il cliente è un anarchico che decide come e cosa mangiare”

Non lasciatevi ingannare dal nome Le Giare. L’insegna può trarre in inganno: come se sulla porta del Circolo delle Belle Arti di Madrid ci fosse scritto “Casa Di Riposo per Artisti”. La cucina è matura, tanto anarchica quanto essenziale, sulla falsariga di quella semplicità difficile da costruire nel piatto tanto cara a un fuoriclasse come Niko Romito. Il menu è un percorso degustativo generato dall’anarchia mentale dello chef.

Il servizio del pane, già fornisce una bella introduzione del resto del pasto: 18 ore di lievitazione, lievito madre e kefir accompagnato da un olio extravergine di oliva biodinamico da cultivar coratina. Il ricordo al palato di pane spalmato con ricotta forte si va vivo e riporta indietro nel tempo. Il piatto Radici sintetizza al meglio l’idea di semplicità e tecnica: un alternarsi di consistenze e giochi di cotture, con elementi che vanno dalla scorzonera, al topinambur cotto al cartoccio, passando per la pastinaca, il prezzemolo, la cicoria selvatica, il fungo cardoncello. Montagne russe gustative e dinamismo ad ogni boccone

Non meno interessante lo spaghettone Verrigni con crema di anemoni di mare, emulsione di prezzemolo e un sorso di sakè: il gusto robusto degli anemoni di mare, ingentilito da un tocco di oriente per conferire maggiore rotondità al piatto. I dolci chiudono l’esperienza, coerenti al resto del percorso: esecuzione ed estetica sono degne di nota sia nella torta di castagne con cioccolato, marron glacé, gel di alloro e caco fermentato; sia nel riccio di mare rivisto in forma di dessert.

Grazie a due ‘folli’ interpreti del territorio pugliese, anche Bari oggi vanta un valido approdo per ‘anarchici del gusto’. E il risultato merita la tappa senza esitazioni.

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