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Stella d’Oro

“Una terra provvista di duplice natura: fatata e inafferrabile come un paesaggio nella nebbia; concreta quanto può esserlo pane e culatello. Una terra che però si può facilmente riconoscere anche in un solo volto, quello buono e accigliato di Giovannino Guareschi. Un luogo dove il bere e mangiare, in fondo, non sono che un modo per essere sentimentali.”

Queste righe, tratte dal libro “Nella dispensa di Don Camillo”, sono la maniera migliore, nonché quella più breve ed incisiva, per descrivere la bassa parmense, cupa ed afflitta nei suoi paesaggi contadini del dopoguerra (che il Guareschi, con il suo “Mondo Piccolo“, ha reso celeberrimi in tutta Italia) quanto schietta, sincera e genuina se si parla di cucina o meglio, di tavola, perché una buona parte della sua tipicità è data dalla convivialità, prima ancora che di ingredienti o ricette.
Ma più che di alta cucina, da queste parti è bene parlare di “alti prodotti”, ottenuti attraverso secoli di esperienza, valorizzati da grandi e capaci selezionatori, portati a tavola nella maniera più tradizionale possibile: precursori ed al vertice assoluto, oramai inarrivabile, di tutto ciò sono stati Peppino e Mirella Cantarelli che, da un foglio bianco, proprio mentre l’Italia sorrideva con le storie del prete di Brescello, hanno scolpito la storia della ristorazione di questa zona e non solo.

Fatte le debite proporzioni (per meriti assoluti dei Cantarelli, non certo per demeriti di Dallabona) attualmente la Stella d’Oro di Soragna è il ristorante che meglio rappresenta questa filosofia di cucina, che schiera il terzetto vincente composto da eccellenza delle materie, fedeltà alla tradizione e accoglienza calorosa. Nonostante l’ambiente serio e curato suggerisca il contrario, non approcciatevi a questo locale come ad un ristorante, piuttosto come ad una trattoria: parlate con Marco, non consideratelo come uno Chef ma piuttosto come un cordiale Oste, attento in cucina quanto abile a destreggiarsi tra i tavoli. Dimostratevi curiosi ed appassionati, domandate, ascoltate e lasciatevi guidare da lui in una appassionante scoperta della bassa, dei suoi superbi culatelli, del fantastico crudo, del Parmigiano e le sue stagionature, della sopraffina carne di cavallo, degli anolini, della Savarin…

…ma, fermatasi la giostra della memoria, emergono alcune imperfezioni. Non possiamo non considerare che siamo seduti ad una tavola da una sessantina di euro procapite, una cifra a causa della quale l’aspettativa inizia a farsi sostanziosa. Coerentemente alla tradizione, ed in questo caso è un purtroppo, la linea di demarcazione tra i notevoli antipasti e primi, e i secondi degustati, è davvero netta. Nulla di errato nella concezione o nell’esecuzione, ma il vero problema è il livello assolutamente inferiore delle proposte di secondi e dolci, ulteriormente appiattito dall’ottima qualità di tutte le portate che li anticipano.

Ma attenti a non farvi frenare da questo aspetto. E’ totalmente fuor di dubbio che, all’interno del simbolico triangolo Busseto-Soragna-Zibello, nomi fortemente evocativi per ogni appassionato, splenda una vera stella della ristorazione tradizionale della zona: d’Oro zecchino.

Il pane.

Iniziamo con uno Champagne consigliatoci da Marco, proveniente dalla cantina davvero smisurata. Divertente per qualsiasi tipologia di vino, è una tra le migliori a livello nazionale per disponibilità di bolle, italiane o francesi. Un consiglio, leggetela con tutta calma, un vero peccato sarebbe non dedicarle la giusta attenzione.

Terrina di foie gras d’oca, composta di mele e mandorle, gelèe di mela verde, emulsione di zucca e passion fruit.
Una partenza che ci lascia basiti, inizialmente straniti poi sorpresi in positivo. La terrina è eseguita impeccabilmente (nessuno dei due a tavola va a nozze con il foie, eppure è finito in un istante), e interessanti sono i bocconi in accompagnamento. La mano c’è anche al di fuori della bassa, dunque.

Scaglie di Parmigiano.

Il Culatello tipico di nostra selezione e lunga stagionatura.

Un crudo notevolissimo, oltre 60 mesi di stagionatura. E’ riuscito a farsi terminare prima del culatello.

In risposta al nostro apprezzamento per il crudo, ci viene servito il medesimo ma affettato sensibilmente più alto. Una meraviglia, nettamente meglio della fetta più sottile.

Sequenza di tartare: cavallo/sanato/chianina, cialde, pomodorini piccadilly rafano e schiuma di olio emulsionato.
Cavallo che spicca nettamente per qualità e riesce a mortificare le (comunque buone) altre due carni.

Al nostro apprezzamento per il cavallo (lezione: fate apprezzamenti a Marco! :-D) ci viene servita, in maniera decisamente “raw”, una fetta della carne usata per la tartare, rigorosamente cruda e semplicemente affettata. Memorabile…

…unica concessione, un filo d’olio.

Anolini della Bassa in doppio brodo ristretto del nostro bollito.
(vecchia tradizione solo pane e parmigiano)
Semplicemente, se così si può dire, buonissimi. Da averne a disposizione un piatto per ogni giornata di freddo e pioggia, vita natural durante.

Finita la bolla, continuiamo con una chicca pescata in carta, dopo attenta ricerca…

Il vero Savarin di riso…
(con lingua salmistrata e salsa classica in ricordo di Mirella e Peppino Cantarelli)
Un piatto simbolico anche solamente per le colonne a cui è dedicato. Rispetto ad altre visite passate, in cui ci era parso così così, ora è perfetto: mantecatura ricca e lingua morbidissima.

Nido di pappardelle al salamino fresco con fonduta di formaggi.
Indovinate un pò…?

Piccione alle due cotture, spuma di patate e rapa rossa cipollotto caramellato e infuso di melograno.
Oltre al piccione dichiaratamente (“…se lo presento rosso i miei clienti me lo tirano dietro!”) troppo cotto, impiattamento un pò dozzinale con i puré che, all’atto di tagliare la carne, vanno qua e là per il piatto, mischiandosi.

Suprema di faraona caramellata all’aceto balsamico, con sedano mele e ribes rosso.
Anche in questo caso l’eccessiva cottura, complice anche il sensibile spessore della faraona, è causa della consistenza -praticamente bollita- della carne.

Fondente al cioccolato con crostata di nocciole cruda e salsa vaniglia.
(Omaggio al ricordo di un grande chef, amico e maestro “Georges Cogny”)

Zuppa inglese con zabaione caldo, amaretti ai due modi, gabbia di zucchero filato.

Uno dei ristoranti storici nella cucina italiana. Da oltre cinquant’anni un nome legato alla ristorazione parmense, più di trent’anni d’ininterrotta stella, una location centrale da sempre tra queste mura, che si rivelerà poi un ambiente curato, moderno e con qualche lieve tocco d’arte. Notevoli premesse, che gettano le basi per grandi aspettative.
In cucina lo chef Marco Parizzi, prima nipote e poi figlio di quel nome ben noto ai gourmet emiliani, è ora il protagonista che non riposa sugli allori di famiglia, artefice da qualche anno di una ristrutturazione imponente, con aree dedicate ai corsi di cucina, eventi e camere a disposizione sopra al ristorante.
La cucina di Parizzi gioca nel campo del nazional-popolare: tutti i piatti, dall’aspetto moderno ma dalla concezione classica, nascono per appagare davvero ogni palato, attraverso una natura semplice e priva di contrasti. Dagli antipasti ai dessert, sono tutti ben eseguiti e piacevolmente gourmand, ma capaci di imprimersi nella memoria giusto il tempo necessario all’arrivo della portata successiva. E la quasi totale assenza di errori vistosi palesa in realtà la completa mancanza di rischi.
Qualche dubbio quindi è legittimo. Se pensiamo alla storia che il ristorante si porta dietro, riflettendo sul fatto che fin dal dopoguerra queste sale hanno ospitato e ospitano ininterrottamente clientela, i menù degustazione non sono per nulla influenzati né ispirati dalla cucina tipica emiliana (senza scomodare stagionalità o territorialità), tra l’altro una tra le più emotive, ricche e floride del Belpaese.
Da una cucina così ricca di storia, di blasone e riconoscimenti, è lecito aspettarsi più aderenza territoriale, più sostegno, più volontà di divulgazione, o quantomeno delle basi che vadano oltre a tre (nemmeno sconvolgenti) assaggi di Parmigiano Reggiano o un caprino di Coduro, e che non si fermino ad apporre orgogliosamente il proprio nome su di un’etichetta di Champagne.
Questa è una cucina che fa lustro della tecnica prima ancora della tradizione, che strizza l’occhio allo stile “global”, molto abile e capace (ed è senz’altro un merito), ma non abbastanza “sensibile” da scaldarti il cuore.
Capitolo carta dei vini molto interessante. Il dispiegamento di etichette è notevole (circa 1200 referenze) e, nonostante sia sbilanciato verso i “grandi nomi”, non manca qualche interessante proposta con protagonisti piccoli produttori ed etichette naturali.

Gli ottimi (attenzione, anche troppo!) pani.

Champagne servito come aperitivo, con il quale abbiamo continuato a tutto pasto.

Lodevole la scelta di differenziare le entrée in funzione del menù:
Crema di ceci con polpettine di pasta di salame (per il Menù di Terra).

Salmerino in carpione su giardiniera di verdure croccanti (per il Menù di Mare).

Crudi e poco cotti (tonno, ricciola, capesante, gambero).
Materia giustamente poco lavorata per farne risaltare la buona qualità. Cinque varietà di sale in accompagnamento (al pepe, al curry, Rosa Himalayano, Rosso Hawaiano, Nero Molokai) e relativo utilizzo a nostra discrezione.

Caprino e ricotta di Coduro in crosta su mele e fagiolini aceto balsamico.
Caprino dalla notevole acidità, che non riesce comunque a tenere a bada la ridondante dolcezza delle mele e delle fragole, l’aceto (ridotto e caramellato) fa poco o nulla. Un buon dessert …

Patè di lepre con il suo filetto marinato, gelatina ai frutti e fiori rossi, pane alle banane.
…e dopo il dessert, la macedonia.

Polpo grigliato su verdure a vapore con salsa leggermente piccante.
Polpo dalla golosità inaudita, molto morbido e dalla pronunciata nota grigliata. Da mangiarne un pallet.

Ravioli di fagiano con porri fritti, salsa al marsala e tartufo nero.
Come per gran parte di tutte le altre portate, piatto decisamente “di pancia”, semplice ma ben eseguito e realmente succulento.

Piccoli cannelloni di rombo con guazzetto di pesce e trippa di baccalà. Gran piatto con un ripieno e una trippa fintanto collosi nella loro grassezza, con il guazzetto che tenta di stemperarne l’irruenza.

Maialino da latte croccante con salsa alle spezie e tortino di patate.

Astice arrostito al rosmarino con schiacciata di patate, zucchini e salsa all’arancio.
Come per il polpo, gran golosità e piacevole la freschezza del rosmarino. Da mangiarne mezzo pallet (la sazietà si fa sentire…)

Assaggio di parmigiano di diversa stagionatura (comune ad ambo i menù).
Degustazione qualitativamente a “V” rovesciata:
– 22 mesi (Gennari, Collecchio, n.2312) troppo giovane, lattico e pastoso.
– 28 mesi (Casaselvatica, Berceto, n.3082) in grande forma, con una grande nota vegetale. Scopriremo poi che fra i tre è l’unico Parmigiano di collina.
– 36 mesi (Mezzani, Valserena, n.2111) quasi scollinato nell’evoluzione spinta, eccessivamente sapido, con presenza di sentori assimilabili alla crosta e importanti concentrazioni di glutammato.

Predessert: Mousse di yogurt e passion fruit. Svolge diligentemente il suo lavoro: grasso e fresco, ottimo.

Cioccolato e lamponi.
Lamponi pervenuti solo nell’ultimo assaggio. Dessert eccessivamente impegnativo alla fine di un percorso degustazione.

Tutto castagne: tiramisù, cioccolatino e gelato, salsa al caramello e caffé.
Come sopra, castagne che partecipano al dessert in maniera troppo marginale. Di contro, sempre come sopra, glicemia in fuorigiri.

Scorcio della sala, vista dal corridoio d’accesso.

Recensione ristorante.
Un altro pezzo di storia d’Italia. Da tagliare a fette.
Un modo arguto per far corrispondere alle grandi maison d’oltralpe un valido equivalente nazionale è senz’altro quello di trasformare le nostrane grandi maison, di cui il nostro paese abbonda copiosamente, legate a questo o quel presidio, costruendoci intorno un’offerta gastronomica, e non solo, di adeguato livello.
La ricetta sembra semplice, non so se micro e macro economicamente fondata, fatto sta che qualcosa si muove.
La famiglia Spigaroli, che praticamente è sinonimo di culatello, ha percepito da tempo che l’air du temps è matura per diversificare l’offerta ed ha aggiunto, da un anno e mezzo circa, all’onesta trattoria da anni presente nel paese ed alla cinquantennale attività dell’azienda agricola, le camere ed una splendida e luminosa sala, ricavata ex novo da sapienti e pazienti lavori di ristrutturazione, con tanto di cucina in ghisa al centro, dove gustare una cucina più rifinita.
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Questa valutazione, di archivio, è stata aggiornata da una più recente pubblicazione che trovate qui

Recensione ristorante.

Il nome Parizzi rappresenta un importante pezzo di storia della ristorazione parmigiana; storia che parte nel lontano 1956 quando Pietro Parizzi aprì in Via Repubblica al n. 71 la “Cucina casalinga”, gastronomia con cucina da asporto e pochi tavoli.
Nel 1968 il figlio Ugo con la moglie Lella aprì il ristorante Parizzi (uno dei primi della città) con oltre 100 coperti. Dal 2001, la storia continua con in sella al timone il giovane Marco Parizzi e la moglie Cristina, eccellente sommelier.
Nel 2005, il rinnovamento ha toccato anche la sala che è stata completamente ristrutturata.

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