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Prima della Prima: Moreno Cedroni

MAKI DI PELLE DI MELANZANA

Dovrebbe intitolarsi “Susci più che mai” il prossimo libro di Moreno Cedroni, in uscita per la casa editrice Giunti. A fare il punto su un filone creativo lungo e generoso: quello del susci (scritto rigorosamente /sc/) all’italiana, contaminazione intrapresa per primo da Gualtiero Marchesi, che detiene il brevetto del “sushi mediterraneo”, e poi lungamente praticata all’ombra di un’altra Madonnina, quella del Pescatore a Senigallia.

Oggi che il crudo detta legge, dal Brasile alla Scandinavia, Cedroni ha deciso di offrirne interpretazioni ancor più libere e provocatorie, infilando la sua chiave di lettura dentro serrature disparate: per cominciare venti ricette che traducono in sushi (o meglio in reverse crudisti) altrettante specialità regionali, compresa la cassoeula, da mangiare rigorosamente con le mani; poi una panoramica internazionale. Nel capitolo Giappone c’è posto anche per lui: il maki di pelle di melanzana. Che stringe in una crasi l’icona del Sol Levante e quella mediterranea della melanzana ripiena.

I cilindretti sono 3, tutti avvolti nella stessa sericità nera, che dell’ortaggio sembra tesaurizzare la soavità. Al loro interno un tentacolo di polpo con maionese di totano (emulsione ottenuta grazie alle proteine del mollusco, montate con l’olio a filo), una canocchia cruda marinata con soia e zenzero, semplicemente la polpa della melanzana stessa. Per condimento una salsa al nero di seppia e un’altra al prezzemolo, caviale e uova di lompo. Un po’ trompe-l’oeil, visto che di alga nori o riso glutinoso non c’è traccia; un po’ trash cuisine, considerato il ripescaggio dalla pattumiera di quel che spesso è uno scarto. Con lo stesso spirito con cui i nouveaux réalistes, Pistoletto, César o Rotella ravanavano attorno agli atelier; oppure Andy Warhol commentava: “Mi è sempre piaciuto lavorare con gli scarti… ho sempre pensato che hanno un grande potenziale di divertimento. Il mio è un lavoro di riciclaggio”. Forse perché lo scarto è quel quid che ci consente di recuperare la spiritualità dell’oggetto (o dell’ingrediente) oltre l’utilitarismo, secondo l’Estetica del rottame della studiosa d’arte Ave Appiano.

Maki di pelle di melanzana, Chef Moreno Cedroni

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Che il Metró fosse diventato qualcosa in più di un buon ristorante marinaro del litorale abruzzese l’avevamo capito già qualche anno fa. Nella nostra recente visita abbiamo avuto la piacevole conferma che questo piccolo luogo gourmet a conduzione familiare è ormai una grande certezza e Nicola Fossaceca ha il giusto talento per andare ancora più lontano.
Insieme al fratello Antonio, bravo regista di sala e sommelier dalle grandi doti, ha deciso di diversificare l’attività imprenditoriale di famiglia e, allargando gli spazi della pasticceria dei genitori, ha dato vita ad un ristorante accogliente, caldo e informale, con una intelligente e sincera proposta ittica tra tradizione e innovazione.
Qualità, personalità e un prezzo a dir poco commovente fanno di questo piccolo ristorante un punto di riferimento per la fedele clientela locale e, al contempo, per il passante curioso o per il gourmet che si spinge fino a questi lidi appositamente per godersi una cucina appagante, leggera e ricca di sfumature.
Fossaceca, timido e sorridente chef abruzzese, è giovanissimo ma già da qualche anno è entrato nel prestigioso circuito dei Jeunes Restaurants d’Europe. Vanta una gavetta di tutto rispetto dai due mostri sacri del fornello marinaro di Senigallia dai quali probabilmente ha appreso la manualità e la sensibilità nel trattare un pescato di primissimo ordine. Ha poi consacrato definitivamente la sua tecnica rientrando nella sua terra con Niko Romito, il cuoco che ha suonato la carica in Abruzzo, una regione che fino a qualche tempo fa era un gigante in letargo e che ora, invece, versa in una fase gastronomica scintillante.
C’è da divertirsi con la carta (appunto tutto pesce) e si può avere un’esaustiva idea sulla personalità dello chef con i due menù degustazione da 50 e 70 €. È un peccato che i dessert non riescano ancora a tenere il passo dell’ottima cucina, cosa tra l’altro paradossale, considerando che i fratelli Fossaceca sono cresciuti proprio nella storica pasticceria di famiglia. Restiamo comunque fiduciosi anche sui felici e prossimi sviluppi del reparto dolciario, visto il positivo esito dei petit fours, più pensati, complessi ed eleganti dei dessert.
Tutt’altra musica nei piatti di pesce dai quali emerge dirompente una cucina studiata e precisa nelle sue “tradizionali” cotture: provare la triglia in “scapece espressa” per credere, nella quale la delicata carne del pesce non viene mortificata dalla frittura, restando morbida e succulenta, con tutti gli umori marini, come se fosse cotta leggermente al vapore.
Al Metrò si sta benissimo, la sua è un’offerta non scontata, moderna, soprattutto onesta e giustamente premiata in primis dalla clientela locale. E di questi tempi non è poco.

Si comincia con un perfetto e goloso amuse bouche: arancino di ventricina (salume tipico della regione) e crema di pomodoro. Diversamente dall’appetizer offertoci qualche anno fa, questo ci sembra assolutamente a tema, oltreché tecnicamente eccellente.
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Il cestino del pane, accompagnato da buoni grissini.
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Cicoria e cicale di mare. Partenza col botto. Brodetto persistente e raffinato.
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Cannolicchi gratinati, aglio e prezzemolo.
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Baccalà piselli e guanciale, buonissimo. Non condividiamo solo la scelta dei piselli, verdura fuori stagione.
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Triglia in scapace espressa. Il miglior piatto. Tradizione, evoluzione, ricerca, tecnica, testa.
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Insalata di mare, pomodoro e cetriolo. Temperatura tiepida e perfetta per il pescato. Rinfrescante la granita.
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Riso, calamaretti, zenzero e sugo di canocchie.
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Ravioli di seppie arrosto e spinaci. Perfetta consistenza della pasta e farcia intensa. Il piatto originale prevede i fagiolini, più delicati degli spinaci che, nel nostro caso, conferivano tuttavia una perfetta nota di contrasto.

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Carbonaro d’Alaska laccato mele e cipolle, accompagnato da alghe fritte. Goloso ma meno raffinato del resto.
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Da una selezione enoica intelligente che parte dalla regione, per poi arrivare ad alcune chicche biodinamiche francesi ed europee. Siamo rimasti sul solco della tradizione con un’altra sicurezza, il Trebbiano di Emidio Pepe, proposto, come tutte le etichette, con un ricarico assolutamente non proibitivo.
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Pre-dessert: crema catalana.
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Mojto al piatto. Fresco ma un po’ monotono.
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Il tiramisù scomposto. Intelligente l’idea, ma il risultato è simile al precedente.
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Perfetta la piccola pasticceria.
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Interni.
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Ingresso.
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La baia di Portonovo è una delle risorse d’elezione per gli anconetani che vogliano concedersi un bagno coccolati da una natura rigogliosa e intatta.
All’interno del Parco del Conero e a poca distanza dalla Torre De Pisis ecco, tinteggiato di un vezzoso celeste, lo chalet aperto da sua suscità Moreno Cedroni nel 2000.
Di giorno la rumorosa folla accalcata sulla spiaggia può approfittare di questo posto per uno spuntino veloce o un pasto informale.
Di sera e al tramonto, con la partenza dei bagnanti, il fascino del luogo aumenta esponenzialmente e offre l’occasione di cenare, praticamente nel mare, in un ambiente di spudorato romanticismo.
La casa madre ha messo a punto quest’anno un menù ispirato a classici della cucina inglese accanto a più storiche sollecitazioni golose, ciascuna segnalata col proprio anno di ingresso in carta, in cui il gusto è affidato a preparazioni ancor più comprensibili e dirette rispetto a quelle di Senigallia.
Alcune rotondità appaiono un po’ esagerate: è il caso della pizzetta con burrata e sgombro marinato o della polentina con vongole cotte e capesante.
La consistenza del riso nel brodetto alla senigalliese ha destato in noi qualche perplessità, mentre il roast beef di tonno con salsa di sedano rapa e la ricciola con alga kombu e alkermes, due piatti scelti dal menù british, risultano assai meglio riusciti e, accennando a un livello di cucina senz’altro superiore, lasciano il rammarico di non aver preso l’intera degustazione dedicata alla perfida Albione.
Il servizio, gestito con garbato e giovanile fermento da entusiasti commis, rende ancora più piacevole la sosta in questa piccola struttura che dà del tu al mare.
La carta dei vini, ovviamente Marche-centrica, spazia in lungo e in largo per la regione e offre la possibilità di bere signore bottiglie di cantine che hanno ben poco da invidiare a molte altre più blasonate.
Si sta bene, molto bene, al Clandestino e una passeggiata dopo cena in riva al mare, nel buio appena rischiarato dalle luci dello chalet, riconcilia con uno stile di vita molto lontano dalla frenesia quotidiana che spesso ci caratterizza.

Mise en place
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Roastbeef di tonno salsa di sedano rapa, topinambour al forno, sugo della fettina di carne.
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Ricciola, ispirata a una zuppa di alghe del Galles, chiamata Laverbread. E’ cruda, con alga Kombu, salsa al curry e alga nori, gocce di alkermes e sesamo nero.
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Carpaccio tiepido di spigola con purè al lime e salsa di rucola.
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Pizzetta con sgombro marinato, burrata e pomodorini.
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Brodetto alla senigalliese: brodo di pesce, cipolla e aceto, spigola cruda, seppia, gamberi, vongole cotta a 50°, riso susci (cotto al forno col fumetto nell’aceto).
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Polentina, vongole cotte, capesante crude, seppia, salsa di prezzemolo.
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Baccalà all’anconetana, cotto nell’olio a 70°, patate, pomodori, olive, maionese di baccalà (senza uovo), acqua di lemongrass e polvere di lamponi.
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Pan di spagna al cioccolato imbevuto nello cherry, crema chantilly e al cioccolato fondente, gelato all’alkermes, infuso di arancia e zenzero.
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Tiramisù, gelato al caffè, crema al mascarpone e gelatina di caffè Borghetti.
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Il San Lorenzo di Fattoria San Lorenzo, grande verdicchio.
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Baia di Portonovo.
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La tavola è il luogo conviviale per eccellenza: la condivisione, il confronto, la discussione, sono caratteristiche spesso associate a un bel pranzo.
Ma alle volte, sedersi in un grande ristorante da soli, apre nuove prospettive: ci si concentra sul cibo, si avvertono i movimenti della sala, si studia il locale.
I bicchieri ordinati in fila sui ripiani di vetro, il passo sicuro del maître che porta il piatto al tavolo, lo sguardo così pieno di “prospettive” del giovane commis: sono tutti aspetti che ci fanno vivere il ristorante.
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Questa valutazione, di archivio, è stata aggiornata da una più recente pubblicazione che trovate qui

Recensione ristorante.

Cosa rende una cucina una grande cucina? Il controllo delle cotture, la perizia nel tirare salse, l’abilità nel manipolare le temperature di servizio? Ovviamente no, quelle sono le basi, senza non si parla neppure di buona cucina. La scelta non solo dei protagonisti del piatto ma pure dei caratteristi e dei cammei? Senz’altro, direi, ma ci sono moltissime altre componenti, è quasi banale dirlo. Una di queste è la capacità di fornire a chi fruisce di un piatto una lettura immediata e senza possibilità di errore. Certo a volte c’è molto fascino nell’avere davanti a sé una tavolozza di elementi da cui estrarre una lettura quasi aleatoria dei concetti che stanno dietro ad un piatto, ma quando uno chef ha un’idea precisa è bene che la manifesti, così com’è, senza lasciar spazio ad interpretazioni diverse. (altro…)