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Jean Sulpice

L’Auberge du Père Bise: dal 1903 ad oggi

Tra i grandi centri mondiali del lusso, il lago di Annecy ha di diritto uno dei posti d’onore. Con grandi alberghi e ristoranti gourmet, questa non può che essere una delle mete “feticcio” di ogni appassionato che si rispetti: nel raggio di alcuni km sono presenti 13 stelle Michelin e numerose strutture alberghiere a 5 stelle. I comuni che si affacciano su questo bellissimo lago hanno giustamente sviluppato una vocazione turistica, ritagliando un posto privilegiato per l’alta cucina.

Terra meravigliosa l’Alta Savoia, ceduta dal Regno di Sardegna alla Francia nel 1860; particolare magia ha poi questo lago, detto il “lago blu” per la pulizia delle sue acque, avvolto dalle montagne savoiarde. Proprio a ridosso dell’acqua, nel comune di Talloires, sorge questo storico albergo-ristorante: l’Auberge du Père Bise, un Relais & Chateaux che sa mischiare alla perfezione storia e modernità. La posizione è assolutamente incomparabile: una vista unica su tutto il lago e la possibilità di accedervi direttamente dal pontile privato. Un luogo intriso di storia della gastronomia e ospitalità francese.

Fondato nel 1903 da Marie e François, è con il figlio Marius e sua moglie Marguerite che Père Bise entra nell’Olimpo dei grandi locali di Francia. Marguerite è la chef: 1 stella nel 1931, due nel 1933 e poi la grande cavalcata fino al 1951 che la consacra tra le grandi cuoche della storia francese con tre stelle, terza donna nella storia ad ottenere questo riconoscimento dopo  Eugénie Brazier e Marie Bourgeois. Più tardi, negli anni Sessanta, François Bise continua la strada tracciata dai suoi genitori, con la moglie Charlyne Bise al suo fianco. L’Auberge conserva le sue tre stelle dal 1951 al 1983, per poi riottenerle dal 1985 al 1987, quando Charlyne mette alla guida della cucina lo chef Gilles Furtin.

Arriviamo infine ai giorni nostri: la storia dell’Auberge si incrocia con quella di Jean Sulpice nel 2016, quando lo chef nativo di Aix-les-Bains, assieme alla moglie, decide di rilevare la struttura e ridargli nuova linfa vitale. Allievo di Marc Veyrat, fino a diventare suo secondo nel mitico ristorante di Veyrier-du-Lac (ora nella mani di Yoann Conte) e alla Ferme di Mon Père a Megève, dopo una esperienza in Val Thorens già ricca di riconoscimenti, Sulpice coglie al volo la grande opportunità della vita: legarsi a una struttura che aveva fatto la storia della accoglienza francese e cercare di ricostruire un nuovo presente, un nuovo futuro. Perché no, recuperando i riconoscimenti dei decenni precedenti.

Un investimento importante anche per rinnovare la struttura: nuova SPA con piscina coperta vista lago, ammodernamento delle camere e degli spazi comuni. Il Covid certamente non aiuta, ma la tenacia dei coniugi Sulpice è invidiabile. Nuovo rilancio nel 2021 e 2022: attualmente i lavori di ristrutturazione stanno coinvolgendo il bistrot e una parte del cortile. La clientela fortunatamente risponde bene: un tutto esaurito in un giovedì sera di bassa stagione lascia dormire sonni più tranquilli, ma non c’è dubbio che una struttura come questa, con personale così numeroso, debba viaggiare a pieno regime sempre.

La cucina di Jean Sulpice

La cucina di Sulpice evidenzia una linea di pensiero ben precisa: tra lago e montagna, in coerenza con quanto si può ammirare oltre le vetrate della sala; istinto, equilibrio e grande tecnica. La Savoia entra nel piatto nella quasi totalità del menù, così come ha un palcoscenico d’onore il pesce di lago. Cucina di forte impronta classica, ma fresca, in cui erbe selvatiche ed aromatiche giocano un ruolo centrale. Il percorso è obbligato: solo menu degustazione, a 6 o 8 portate.

Il nostro menu ha registrato due velocità (e livelli) decisamente diversi. Se l’inizio non ci ha completamente convinto, con piatti sicuramente ben eseguiti ma poco incisivi, dai piatti principali abbiamo goduto di almeno due capolavori, quei piatti per cui vale la pena mettersi in macchina e partire anche da molto lontano. Parliamo ad esempio del salmerino con burro “maître d’hôtel” profumato all’abete rosso. Il salmerino ricoperto dal burro è poggiato su tralci di vite, l’acqua di lago bollente viene versata sul fondo del piatto e poi viene posizionata la cloche: il calore scioglie il burro e rilascia tutti i profumi del bosco. L’apertura della cloche è una festa per vista e olfatto. Un grandissimo piatto, tecnicamente ma anche concettualmente, perché unisce il pensiero al gesto, lago e montagna in una preparazione di gusto eccelso.

Così come il capriolo, che finisce la cottura nel piatto grazie a un brodo di cacao con l’aggiunta di alcune spezie di montagna: semplicemente da brividi. Il brodo è quanto di più concentrato si possa immaginare, il risultato al palato è inebriante. Infine, tra i fuochi d’artificio, da segnalare il dessert: cioccolato e zafferano di Savoia. Grandissimo dessert, costruito tra contrasti freddo/caldo e morbido/croccante, con lo zafferano dosato perfettamente. I restanti piatti, ottimi ma non certamente al livello dei sopra citati, determinano un voto finale non eccelso. L’uovo ai gamberi è saporito ma eccessivamente grasso, non un grande benvenuto per cominciare la cena. Negli gnocchi, il gusto di mais è intenso e convincente, ma la cialda si bagna nella salsa di crescione perdendo croccantezza.

Si sta bene all’Auberge, anche grazie all’abilità di un grandissimo sommelier, Lionel Schneider, con un passato alla Pyramide di Vienne e al Ritz di Parigi. La sua carta vini, pur dai ricarichi notevoli, come è normale che sia, ci ha davvero positivamente sorpreso, perché dimostra una personalità che non sempre si ritrova in queste grandi tavole. Grandi etichette ma anche grande ricerca e una diversa e stimolante carta dedicata solo alla Savoia.

Non c’è dubbio quindi che stiamo parlando di un grandissimo cuoco e di una struttura da sogno, che merita il viaggio da ovunque vi troviate. Ma la domanda che è rimasta sospesa nell’aria è quanto questa tavola si potrebbe giovare di una proposta alla carta, eliminando orpelli che poco apportano a livello di gusto e appagamento. Con due piatti alla carta (più un dessert) questo favoloso cuoco non darebbe il meglio di sé? Domanda, al momento, senza risposta, mentre assistiamo al moltiplicarsi di ristoranti che propongono percorsi obbligati e continuiamo a pensare che solo in pochissimi casi, in Europa, continui a valerne la pena.

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“Danì”…a casa di Nino

Siamo sull’Isola di Ischia e precisamente a Ischia Ponte, piccolo borgo mediterraneo di pescatori che ha visto crescere, all’ombra del Castello Aragonese, Nino Di Costanzo. Qui, in quella che era stata la dimora dei nonni paterni e dove nacque il padre, lo Chef ha aperto il suo indirizzo, appunto, la sua “casa” come evoca il nome del ristorante dove “danì” sta, appunto, per “da Nino”. A completare l’insegna, che fiera campeggia all’ingresso, la sua firma posta a sigillo di quella identità e autorialità che pervadono spazi e piatti del ristorante.

Attraversato un lussureggiante giardino curato in ogni dettaglio che ospita, oltre a rigogliosi arbusti e vegetali, tanto opere d’arte quanto il privé riservato di Riva (Cantiere Navale italiano, leader del settore) si giunge a una sala con quattro tavoli rotondi, uno per angolo, per un massimo di 16 commensali che fa da proscenio all’ulteriore sala, padroneggiata dalla cucina a vista, e da uno chef’s table (per ulteriori quattro sedute) dal quale poter assistere all’alacre lavoro della brigata che si muove tra i fornelli, in un concentrato e monastico silenzio. Alle pareti e sui tavoli opere di artisti locali che raffigurano i simboli della napoletanitá più pura, nell’aria, il diffondersi delle note struggenti e al tempo stesso emozionanti delle canzoni di Pino Daniele, agevolano il commensale ad entrare nel “mood” partenopeo, necessario per cogliere appieno l’essenza dell’esperienza culinaria alla corte di Nino Di Costanzo.

Tradizione napoletana avanguardista

La cucina di Di Costanzo è tradizionale nei sapori e negli aromi ma avanguardista nella tecnica e nell’ideologia che la animano. Qui non si vedono (né mai si vedranno) voli pindarici dettati dalle mode del momento perché i suoi piatti sono e, soprattutto, vogliono essere intelligibili a chiunque. Lo chef si misura con la globalizzazione della clientela e degli ingredienti utilizzando l’unico strumento che ha a disposizione per evitare omologazioni di sistema e di pensiero, ossia la sua spiccata identità partenopea che si traduce in piatti veraci e territoriali.

Lo spaghettone ai cinque pomodori, il crudo pesce, la pasta e patate, il riso in bianco bruschetta e ricci, il raviolo di coniglio e provola, l’agnello in parmigiana di melanzane, la cotoletta napoletana al babà sono perfetti connubi di arte, tecnica e gusto e sono solo alcune delle creazioni che costellano un menù veramente interessante frutto di tanta passione, ricerca, sperimentazione e rispetto della materia prima nei suoi cicli stagionali; un menù che parte dall’antico, dalle origini e dall’infanzia dello chef ma, che, nel suo risultato finale, risulta essere molto più moderno e contemporaneo di quanto possa apparire prima facie.

A Di Costanzo viene criticato, fin dai tempi, de Il Mosaico, un eccesso di forma nelle preparazioni e nelle presentazioni, una sorta di appesantimento nello stile, di autoreferenzialitá, a scapito della sostanza. In realtà, l’estrosità di taluni impiattamenti, ovvero di alcune stoviglie, appare parte integrante del tutto e serve a meglio contestualizzare l’esperienza culinaria ed esaltare il lato ludico e artistico della personalità dello Chef, il cui temperamento è evidente soprattutto nella parte dolce del menù con “Il Circo” e “Art is not a crime” e “Ischia Ponte“: un plastico che ospita, benché edibili, i luoghi che lo hanno visto crescere.

Nulla, qui, è lasciato al caso, ma tutto è perfettamente orchestrato per amplificare le percezioni sensoriali e accompagnare il commensale in uno dei più bei percorsi che ad oggi offre il panorama gastronomico nazionale.

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La riconferma di una tavola che riesce sempre a stupire

Il Miramonti l’Altro è, da anni, un avamposto saldo e rinomato per tutti i gourmet itineranti.

La classicità proposta all’ennesima potenza è un marchio di fabbrica che Philippe Léveillé, coadiuvato dall’imprescindibile apporto della sous-chef Arianna Gatti, non smette di perseguire con un’eleganza e una perizia tecnica semplicemente squisite. Dati i presupposti, poteva quindi sorgere una domanda: cosa aspettarsi ancora (e di più) da una cucina con un’impronta così ben delineata?

La riconferma, avremmo potuto pensare di prim’acchito, e in parte avremmo avuto ragione. Ma non totalmente perché fermandoci a questo assunto ci saremmo incamminati lungo il sentiero dell’ovvietà, mentre il Miramonti è riuscito a stupire sfornando un coup de théâtre che solo uno chef dal palato fine e intelligente come quello del bretone Philippe poteva garantire. Sì, perché nella nostra visita abbiamo (ri)provato il piacere della riconferma filtrato attraverso il registro della rivisitazione.

Nella prima parte del percorso siamo infatti rimasti sorpresi e compiaciuti nel saggiare una cucina fondata su portate aventi una freschezza e una pulizia semplicemente irresistibili. E a ciò si è unita una predisposizione a un aspetto ludico delle preparazioni, un camouflage estetico, che ha svelato una natura della proposta lieve e scherzosa, atta a coinvolgere attivamente la vista. Non a caso il menù si chiama “Sapori e colori”.

 Un menù diviso tra freschezza e robustezza, in perfetto equilibrio

In tema di “freschezza ludica” abbiamo cominciato con un ottimo Volevo essere un pomodoro, dalla matrice estetica di vesuviana memoria, con all’interno una squisita rotondità di tartare di gambero rosso ed emulsione di burrata, smorzata in chiusura da un gazpacho in guarnizione e un sorbetto al basilico d’accompagnamento.

Secondo step con le alici nel giardino delle meraviglie, rivisitazione culinaria del classico di Lewis Carroll, splendido quadro composto da verdure marinate e farcite con maionese ai funghi e alle acciughe e salsa verde. A chiudere e donare lunghezza, un nuovo sorbetto, stavolta di Bloody Mary.

Cetriolo, ostrica e lime si è rivelato un altro piatto completo sotto tutti i punti di vista grazie al contrasto di consistenza tra il vegetale e il mollusco, a cui poi si è aggiunto un ottovolante di rimbalzi tra lo iodato dell’ostrica, l’acidità della marinatura in miele e aceto del cetriolo e la spuma di acqua di ostriche e lime, a garantire struttura all’insieme. La nota alcolica del mini Moscow Mule ha completato il quadro.

Se la prima parte del menù ha stupito per pulizia e inventiva, nella seconda il registro ha dato vita a una proposta caratterizzata da struttura e rotondità.

Intorno al coniglio ne è stato un esordio fulminante: un wafer croccante ha accolto la pancia e le interiora fredde del leporide con puntarelle e fiori eduli a chiudere il cerchio. Morbidezza delle carni, persistenza delle frattaglie, amaricante della parte vegetale e croccantezza del wafer hanno costruito una portata di un equilibrio disarmante.

Ma era solo il preludio di quello che è stato il miglior piatto del servizio: animella come un capretto al coccio. Portata semplicemente magnifica, emblema delle competenze tecnico-concettuali del suo ideatore e dello staff che lo aiuta. La ghiandola, scottata e lasciata riposare una notte nel latte, è stata terminata in padella con burro e fondo di capretto: il risultato? Uno splendido gioco di consistenze delle carni tra croccantezza esterna e morbidezza interna, a cui ha fatto seguito una lunghezza dai toni affumicati semplicemente micidiale. Piatto elegante, preciso e indimenticabile.

Un plauso, quindi, a quest’ottima tavola, al suo chef e al giovane staff, perfettamente sincronizzati nel regalare al commensale un’esperienza davvero emozionante. Chapeau!

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In maniera molto semplificata possiamo suddividere gli chef in due macrocategorie. Ci sono gli chef istintivi, i veri e propri talenti puri, che lavorano con brigate ridotte all’osso, impegnati in prima persona in cucina e che hanno generalmente pochi coperti di autonomia e una linea di cucina spesso estrema e minimale. All’opposto ecco invece coloro che sono veri e propri chef-imprenditori, spesso titolari del ristorante ma non solo, coinvolti in più attività come ulteriori tavole, bistrot, collaborazioni, televisione e pubblicazioni, che coordinano e organizzano chilometriche brigate e, in qualità di Executive, difficilmente tornano a mettere “attivamente” le mani nei piatti.
Di questa seconda grande categoria Claudio Sadler è uno degli esempi più illustri: è uno dei tre bistellati meneghini; ha il Bistrot Chic’n’Quick, agile macinacoperti ma di solida e comprovata qualità; collabora e firma il menù del Nobile Bistrò in Corso Venezia e ultimo, ma per nulla marginale, ecco il Sadler Catering, vera e propria macchina da guerra nel settore eventi/matrimoni. Tralasciamo volutamente gli svariati libri e le comparsate televisive.

Focalizzando il discordo sul ristorante cardine, Sadler, è risaputo che sia uno tra i principali e più importanti ristoranti della città, ben frequentato dalla facoltosa e fidelizzata clientela milanese. Altrettanto noto è il fatto che lo stesso indirizzo sia tra i meno gettonati dal tam tam gourmet, poco considerato quando l’appassionato di alta cucina decide di mettere sul piatto determinati budget, che generalmente lo portano a frequentare altre mete, ritenute più attrattive, del panorama meneghino.
La causa di ciò non può risiedere certamente nell’ambiente, di alto livello, elegante e riservato, così come il servizio, solerte e discreto.
Probabilmente uno dei motivi risiede proprio nella cucina: nonostante sia anch’essa di indubbio livello, tecnicamente inappuntabile e con qualche piatto in grado di giocare in un campionato d’eccellenza, non guarda, o quantomeno non primariamente, a stupire il palato. Mira altresì a colpire attraverso l’aspetto estetico, l’opulenza e l’utilizzo di materie ricche ed esotiche, in maniera spesso eccessiva e pletorica. E’ questa la caratteristica principe della linea di cucina sadleriana, che comunque dimostra una sua personalità: fastosa e golosa in primis e, nonostante non la si possa definire greve, dai chiari tratti morbidi e accondiscendenti, con la tecnica a compensare la carenza di contrasti o di stimoli che la portino più in là del “molto buono”.
Un esempio su tutti il dessert: ananas, cocco, biscotto, gelato al cioccolato, menta. Assolutamente dolce, perfino saturo di ingredienti, non scorretto, piacevole ma straordinariamente gravido di eccessi.

Ulteriore piccola pecca, molto diffusa soprattutto quando si incontrano le parole “stellato” e “milanese”, è la carta dei vini: pur variegata e ricca, è soprattutto piena di proposte classiche e più debole sulle proposte più stimolanti per gli appassionati più curiosi. Ricarichi in linea con le due stelle.

L’elegante e distinta tavola
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Il benvenuto.
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I pani, in ottima varietà e in media tutti molto buoni.
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La prima portata del menù del Mercato: Insalata di gamberi rossi e scampetti con frutta compressa al profumo di lavanda e riso selvaggio soffiato.
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Bigoli di pasta fresca saltati in padella con funghi porcini e spezzatino d’astice alle erbe. Il piatto della serata, una “mari e monti” gourmet bilanciatissimo, con la spinta violenta del katsuobushi sia sotto l’aspetto dell’umami, che dell’apporto della nota affumicata. Notevole.
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Tonno alla plancia con croccante di carbone vegetale, fichi caramellati all’aceto balsamico e profumo di passion fruit. Come per il dessert, ottima materia ma risultato dolce, quasi stucchevole, senz’altro eccessivo.
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Il vino che ci ha accompagnato durante la cena: Cheval des Andes 2007, frutto di un blend ottenuto anche da vigne di Cheval Blanc piantate a Mendoza, dalla stessa proprietà di Cheval Blanc appunto. Buon taglio bordolese d’oltreoceano, forse un tantino troppo strutturato e “spallato”, ma sicuramente piacevole e ben fatto.
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Il dessert. Dolce Tropicale: ananas e cocco con biscotto e gelato al cioccolato.
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La “piccola” pasticceria con il caffé.
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Recensione ristorante.

In posizione invidiabile, a picco su “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno”, a due passi da Lecco, Il Griso ha scritto pagine importanti nella storia della ristorazione italiana di qualche decennio fa. Erano gli anni ’70 quando l’indimenticato Bruno Gobbi – uno dei massimi esponenti dell’enogastronomia italiana di allora – decide di aprire il ristorante e, non pago di una profonda conoscenza della cucina italiana, insieme al figlio Roberto e ad un allora giovanissimo Claudio Prandi, inizia una lunga serie di viaggi in Francia al fine di allargare i propri confini e fare propri gli spunti di avanguardia che provenivano da Oltralpe. Il risultato fu entusiasmante e portò a riconoscimenti importanti tra cui le due stelle Michelin a fine anni ’80.
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