Passione Gourmet La Maison des Bois Chef Marc Veyrat Manigod Carlo Cappelletti

La Maison des Bois

Ristorante
Col de la Croix-Fry, Manigod (F)
Chef Marc Veyrat
Recensito da Carlo Cappelletti

Valutazione

18/20 Cucina prevalentemente di avanguardia

Pregi

  • Una cucina personalissima, egocentrica, generosa, per lunghi tratti indimenticabile.
  • La splendida location.
  • Il locale non aprirà se non con lo chef presente in sala.

Difetti

  • Servizio con ampi margini di miglioramento.
  • I pochi giorni di apertura.
  • La difficoltà di accesso in inverno.
Visitato il 10-2013

520

Si fa presto a esclamare trionfalmente “Marc Veyrat è tornato!”, ché l’antologia dei grandi ritorni è infarcita di storie patetiche, delusioni e stanche riproposizioni di gloriosi passati. Ci sono però i campioni, e ci sono poi i fuoriclasse, e la distinzione fra le due categorie è sovente irriconducibile a banali affarucci di tecnica e professionalità. La differenza, a questi livelli, la fa un fuoco sacro che spegnere è impossibile, nascondere al mondo neppure, confinare al ventricolo destro men che meno. A loro, ai fuoriclasse, a loro sì che è concesso di tornare sul sedile che avevano lasciato prima di scendere dal treno, si fossero essi alzati per far sgranchire in corridoio le ossa, affaticate dallo sfiancante viaggio, o che se le siano rotte, le ossa, perché dalla carrozza son caduti in corsa. E per collocare Veyrat fra gli X-men dei fornelli non serve neppure rivolgersi al formidabile palmarès: sono sufficienti le parole, ancora stravolte dallo stupore di ricordi che non ne vogliono sapere di sedimentare, di coloro che la fortuna di provare la cucina dell’uomo dei ventiventesimi prima del ritiro, diversamente da chi scrive, l’hanno avuta. Correva l’anno 2009 quando Marc, segnato pesantemente nel fisico dalle conseguenze di un incontro troppo ravvicinato con un pilone avvenuto nel 2006 durante una sciata, si arrese al dolore e chiuse il tristellato Auberge de l’Eridan, dopo che già sùbito dopo l’incidente aveva venduto l’altrettanto premiato La Ferme de mon père: uno choc da cui il mondo della gastronomia fece in tempo a riaversi giusto in tempo per fronteggiare la chiusura del Bulli.

A lenire i rimpianti degli appassionati, e non solo di chi nel 2008 prometteva a sé stesso che l’anno seguente avrebbe tirato un bel calcione al porcellino e affrontato la proverbialmente inaffrontabile addizione savoiarda, ci penserà questo nuovo locale, appeso lungo i pendii sovrastanti il Col de la Croix Fry, dove Veyrat è nato e nel 1978 aprì il primo locale. La Maison des Bois vuole essere, nelle intenzioni della proprietà, un luogo dove l’ospite si possa sentire per qualche ora (o per qualche giorno: sono disponibili alcune camere) realmente come a casa propria, approfittando di un ambiente taglio plaid, di un’accoglienza sollevata da eccessi di sovrastrutture e rinfrancato da una cucina allo stesso tempo ardita ma ricca di appigli anche per il più inesperto free climber della forchetta. E il calore del legno, la cura dei dettagli (con l’eccezione di qualche pacchiano cuscino) e la luce delle vetrate, anche in una giornata dal meteo complessivamente poco favorevole, hanno davvero reso il nostro breve soggiorno una pausa confortevole, dall’atmosfera quasi familiare. Ci ha inoltre sinceramente divertito il poter scegliere le bottiglie per accompagnare il pranzo, così come facciamo a casa nostra, scendendo direttamente in cantina, così come scoprire, nel locale attiguo ad essa, come siano gli inquilini dell’ovile a mantenere i tesori enoici al riparo dal gelo, naturale conseguenza già a metà ottobre dei quasi 1700 metri.

Il servizio è gestito dal simpatico e affabile sommelier, dal personale di cucina e da un paio di jolly scorrazzanti fra la sala al piano superiore e la hall/bar/stube a quello inferiore. Il tutto, va detto, avviene non senza macroscopiche cadute: ci piace l’idea di un’atmosfera distesa e poco ingessata e del resto, a poco più di un mese dall’apertura, sarebbe eccessivo pretendere che tutto giri come un orologio, ma che quattro delle sei cosce di rana di un commensale vengano seminate sul pavimento lungo il tragitto verso il tavolo, senza che a ciò faccia seguito non solo un nuovo piatto, ma neppure un gesto di scuse, a 300 euro risulta difficile da incassare con il sorriso.

Riassumendo, l’ambiente è straordinario, il servizio migliorabile, la cantina fornita e neppure gravata da ricarichi impossibili, ma la cucina? Per quella bisogna stare sereni, perché l’uomo col cappello alla guida è un pericolo solo nel traffico. Tra portate sfacciatamente rustiche, di esecuzione comunque non facilmente migliorabile, e piatti dal tratto decisamente più autoriale fra i quali annovereremo non meno di tre capolavori, il percorso “Ma cuisine pastorale et minérale” è un fiume in un letto di note acide, vegetali ed erbacee. Il livello riscontrato nei piatti, sempre elevatissimo e macchiato qua e là da pennellate di sublime, è stato perfettamente in linea con le nostre dickensiane attese. Quel che c’è ancora di migliorabile non è tanto sulle singole portate, neppure su quelle programmaticamente meno giocate sulla finezza, quanto nell’idea, solo accennata attraverso la ricorsività di alcuni colori espressivi, di un percorso coerente, di un arco formale in cui tutti i piatti si incasellino senza fraintendimenti possibili, in cui anche i non radi ma neppure sistematici rimandi alla tradizione, come l’elaborazione minimal della Tartiflette, finiscano per avere un senso architettonico.
Ciò non toglie che, anche a poche settimane dalla sospirata apertura, peraltro preceduta da tre lunghi anni di gestazione, Marc Veyrat sia già tornato ad essere un punto di riferimento assoluto nel panorama ristorativo europeo. E’ lecito attendersi ancora di più, e per questo ci teniamo in serbo un ulteriore balzo nella valutazione, ma difficilmente troverete altrove l’infinita classe dei migliori piatti del nostro pranzo.

La parola ora al fotoracconto realizzato dal nostro Leonardo Casaleno.

Ad accompagnare l’aperitivo: mini hamburger di foie gras con composta di fichi…
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…torta rustica con Reblochon e cipolle…
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…e crema di zucca dentro la quale viene fatto sciogliere del meraviglioso lardo.
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Il menù ufficiale inizia con il primo dei capolavori: yogurt di foie gras con succo di acha (del quale non siamo riusciti a trovare la traduzione: per ragioni di legalità supponiamo non sia quello citato dai Cornershop nel loro più celebre singolo) a scudisciare il palato di acidità. Galletta al cumino ad accompagnare e moderare i contrasti.
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Infuso d’erbe. Strepitoso.
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Uovo cotto nell’argilla, mais e acetosella. La nota olfattiva dell’argilla, già di per sé non gradevolissima, non ci pare aiuti l’uovo ad estrarre il meglio di sé. E ci fermiamo qui. Il passaggio meno riuscito del pranzo…
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…accompagnato dal più autoctono dei biscotti.
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Non è sempre fondamentale l’equilibrio, ma laddove lo chef lo trovi fra elementi che non sembra possibile bilanciare non possiamo che lodarlo: caviale, gelatina di pollo e tussilagine (pianta erbacea con una spiccata nota di carciofo).
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Le rane (con un lieve eccesso d’unto residuo) nel loro ambiente, felci dei boschi e salsa al polipodio (straordinario l’effetto di quest’ultima, dal sapore in bilico fra piselli e liquerizia).
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Coregone, salsa al caffelatte, pane bruciato, erba Buon Enrico: un altro piatto straordinario per misura e controllo degli elementi in gioco. Don’t try this at home.
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Sembra impossibile dopo il piatto precedente, ma il punto più alto arriva subito dopo: dei tagliolini, senza uovo né farina bensì fatti di Beaufort e zafferano, vengono bagnati da una miscela di brodi di carne, spezie, erbe e (crediamo) funghi.
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Il risultato, con la pasta che si scioglie nel recipiente sottostante, è tanto affilato nell’attacco quanto incredibilmente multisfaccettato nell’infinita girandola di riflessi che illuminano un’idea centrale che ricorda molto il porcino.
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Tartiflette virtuale, con gli elementi scomposti (e l’aggiunta di tartufo nero).
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Pancetta di vitello cotta tutta la notte con erbe e spezie. Piatto dal tratto decisamente agricolo, nobilitato dalla sapienza nell’uso degli elementi vegetali.
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Il carrello dei formaggi.
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E’ il momento della scarpetta. Segue coup de theatre (che tuttavia non vi riveleremo perché l’abbiam promesso).
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Tapioca, frutti rossi e crème de cassis.
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Soprendentemente fresca l’apparentemente minacciosa sfera di cioccolato, e ciò grazie al suo contenuto: chartreuse e genepì.
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Frutto della passione e agrumi, a tutto acido.
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Petit fours.
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I vini della giornata, avanti, Savoia…
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…beh no, per le bollicine (ma, in buona parte, anche per il resto) meglio rivolgere lo sguardo altrove.
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I guardiani della cantina.
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Siamo in alto, parecchio in alto.
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16 Commenti.

  • Emanuele Barbaresi4 Novembre 2013

    Grazie Carlo, la recensione che più attendevo con impazienza…Leggere di Veyrat, lo chef che, negli anni 90, con una memorabile cena, mi fece capire per la prima volta che cosa significa alta cucina, è sempre un’emozione. Vedo però che la linea è più o meno quella degli anni pre-chiusura e anche i piatti – sia pure all’interno di un menu degustazione ridotto ancor più nel numero di portate che nel prezzo… – sono più o meno gli stessi. Senz’altro già visti almeno lo yogurt di foie gras con succo di acha, l’infuso d’erbe, l’uovo, mais e acetosella, i tagliolini di Beaufort e zafferano e la tartiflette destrutturata. Dal resto, già nel 2008 mi ero trovato davanti lo stesso menu del 2007, il che, a quei prezzi, mi aveva fatto lievemente incazzare… Ma si vede che anche nel caso dei grandissimi la fantasia, a un certo punto, sfuma. Il Veyrat degli ultimi anni, diciamo post 2004, aveva impresso una svolta, se così si può dire, minimalista alla sua cucina, riavvicinandosi alle tradizioni savoiarde e lasciandosi alle spalle gli eccessi adrianeschi del periodo 2000-2004, che pure erano stati quelli che avevano convinto in modo un po’ provinciale la GaultMillau ad assegnarli il doppio 20/20. Ma che a mio parere avevano snaturato l’uomo dal cappello nero, facendogli appunto un po’ scimmiottare – sia pure con grande talento – quanto si faceva a Roses, cosa che uno chef dall’immenso carattere come Veyrat non aveva certo bisogno. Il Veyrat migliore e più dirompente ed esplosivo, almeno nei miei ricordi, resta comunque quello degli anni 90, quando davvero non aveva concorrenti né in Francia né fuori. Una cosa non ho capito della tua bella recensione: l’episodio delle rane. In che senso erano cadute sul pavimento e non ti hanno servito un nuovo piatto? E quelle fotografate che cosa sono? Mi sembra un episodio a dir poco inaccettabile e ai limiti dell’incredibile, in qualsiasi modo si sia svolto, vorrei capire meglio…

  • Tommaso4 Novembre 2013

    Cioè, i quattro sesti di un secondo piatto (prezzato, immagino, sui 50€) sono caduti a terra, ed è stato servito quanto rimaneva senza sconti?? Ditemi che ho capito male...

  • Carlo Cappelletti4 Novembre 2013

    Caro Emanuele grazie della (al solito) preziosa testimonianza! L'andirivieni fra piatti che puoi aver provato tu negli anni ante-chiusura (molti dei quali, forse perché più rodati, si sono ooi rivelati i migliori del nostro menu) e piatti nuovi spiega bene questa sensazione di percorso gastronomicamente fantastico ma poco risolto nella continuità. Per quel che riguarda l'incidente, il piatto che vedi fotografato è il mio; al povero Leonardo è capitato di dover assistere alla caduta, nei 10 metri fra cucina e sala, di 4 delle sue 6 coscette, in un'atmosfera diciamo eccessivamente nonchalant, in cui nessuno si è preoccupato di rimediare neppure vedendo che il buon Leo con cura fotografava (platealmente) la coscetta più vicina, caduta a mezzo metro dalla sua sedia. Senza parlare di un ceffone visto partire in cucina....ah le cucine a vista!

  • jpjpjp4 Novembre 2013

    ma il "coup de theatre" ? almeno un minimo indizio, altrimenti perchè scriverlo?

  • Carlo Cappelletti4 Novembre 2013

    Perché se non l'avessi scritto non ti avrei incuriosito :) Scherzi a parte ci hanno persino chiesto di non fotografare. Ci pare rispettoso nei confronti del ristorante non rivelarlo.

  • Emanuele Barbaresi4 Novembre 2013

    Quindi a Casaleno hanno servito 2 coscette su 6, così, senza colpo ferire, dopo averne fatte cadere 4 dal piatto? Davvero vergognoso: un episodio del genere, in un posto così, avrebbe dovuto giustificare il rimborso dell'intera cena, altro che del singolo piatto... Mi auguro solo che Veyrat non ne sia venuto a conoscenza, se no è ancora peggio. Una nota positiva, invece, sono i ricarichi non più impossibili sui vini. Una volta erano così insensati da rendere al confronto economici i Dolcetto a 70 euro del Sorriso...

  • daniele4 Novembre 2013

    il ceffone mi sembra anche peggio

  • Prosit4 Novembre 2013

    Da Règis Marcon mi servono un bicchiere con delizioni funghi fritti: una goduria che da sola vale il viaggio ... ma un funghetto cade sul tavolo nel momento in cui il cameriere appoggia il bicchiere. Subito si scusa, prende il funghetto e lo porta via. Il mio cuore è uno strazio per quel fungo in meno ... fino a quando nuovamente scusandosi il cameriere mi porta un altro bicchiere pieno di funghi, ovviamente lasciando quello che aveva portato prima. La grande classe internazionale!

  • rolando4 Novembre 2013

    Temevo un 19 per sudditanza psicologica,il 18 mi trova d'accordo come la valutazione del ristorante in generale e le considerazioni sui piatti,certo la qualità del servizio,ancora da rodare va bene,è più che informalmente familiare scadente aldilà della affabile cortesia del maître-sommelier e poi ,a questo livello, un solo menu ,senza carta ,non mi piace.

  • Carlo Cappelletti4 Novembre 2013

    A livello personale non è la cosa peggiore che mi sia capitata al ristorante in Francia. Detto questo è ovvio che avrebbero dovuto scusarsi e riportarlo. Lo storno dell'intera cena mi pare quantomeno utopistico, ma è vero che a certi livelli il colpo di classe te l'aspetti.

  • Carlo Cappelletti4 Novembre 2013

    Dai, Rolando, la sudditanza psicologica non è esattamente la nostra cifra, speriamo! In realtà i menu sono 3, allo stato attuale, e quello che abbiam provato noi è il più ampio. Sul discorso carta/menu la discussione è antica ma sempre attuale: il menu unico potrebbe aiutare a contenere i costi (e per quanto paradossale possa sembrare per quello che abbiam speso, il menu di Veyrat è sceso, mi pare, circa del 25%)

  • Emanuele Barbaresi5 Novembre 2013

    In realtà il menu prima costava 360 euro, quindi la riduzione è inferiore al 10 per cento (ma direi che anche il numero dei piatti è un po' diminuito)

  • Carlo Cappelletti5 Novembre 2013

    Accidenti non so perché ricordavo 420! Comunque anche così sono arrivato alla fine ben provato (forse anche considerando la considerevole quota)

  • Emanuele Barbaresi17 Ottobre 2014

    Frammenti di Veyrat, frammenti di un talento svanito nel tempo. Il posto è bellissimo. Non ha l’opulenza dell’Eridan ed è più a misura di uno spirito libero come lui. Tre-cuochi-tre in cucina, un esperto maître in sala che fa tutto da solo. Stop. Infatti il bicchiere a volte resta vuoto, ma pazienza (pazienza?). I piatti sono quasi tutti quelli già visti negli ultimi sette anni, compresi i quattro di pausa. Solo qualche piccola differenza, nel senso di una maggiore semplificazione qua e là. La qualità resta alta, e ci mancherebbe, ma manca l’assoluta perfezione di un tempo, qualche infinitesimale sbavatura affiora. Veyrat ha chiesto a Michelin e GaultMillau di non essere più valutato. Una richiesta comprensibile: del resto si va a mangiare a casa sua, lo avevamo capito anche prima e ce le lo ha ribadito lui, in modo esplicito, a fine pranzo. Peccato che prima di uscire si debba staccare un assegno di quasi 500 euro a testa, senza certo aver esagerato col vino. Una cifra priva di senso, in rapporto alla cucina, al servizio, al contesto, direi a tutto, ma è anche vero che la nostalgia non ha prezzo.

  • Nomenomen16 Luglio 2015

    Ciao! Ho sentito dire che il ristorante ha subito un incendio. Sapete dirmi se è aperto o se Marc officia altrove nel frattempo? Grazie.

  • Passione Gourmet29 Marzo 2023

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