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Geranium

La “haute cuisine”

L’attenzione alla sostenibilità della filiera biologica, così come al benessere dei dipendenti e, alla fine, della clientela, caratterizza l’attitudine dei due soci proprietari del Geranium, Rasmus Kofoed lo Chef e Soren Ledet in sala, ristorante che quest’anno è arrivato alla vetta della 50 Best e a ballare quindi sul mondo.

Un unico percorso degustazione, non esiste una carta fra cui scegliere, la totale assenza di carne, per focalizzarsi solo sul mondo vegetale e marino, con pesci e crostacei di grandissima qualità e verdure super fresche. Una evidente maestria nel cesellare i piatti che si presentano di grande impatto visivo e di indubbia eleganza: traslando il concetto dalla moda haute couture (sartorialità, manifattura di grande pregio, stoffe preziose), qui siamo indubbiamente nella haute cuisine. E difatti si rilevano influenze francesi nell’uso delle salse, ma parliamo comunque di una cucina che poggia le solide basi sulle materie prime nordiche che vengono decisamente nobilitate. Particolare la location, all’interno dello stadio di Copenhagen, una scelta all’inizio criticata, me che ha dato alla fine ragione ai due soci, tanto da citarla nel discorso effettuato durante la premiazione del 50 Best. Si percepisce, all’interno di questo microcosmo, un clima lavorativo di grande piacevolezza e armonia, sia in brigata, che lavora a vista sul locale, sia nel servizio, con una bella presenza di italiani sia in cucina che in sala. Un locale molto accogliente, con una sala che gira alla perfezione grazie a Mattia Spedicato e Giulia Caffiero, che portano tutto il loro calore mediterraneo e i loro sorrisi.

L’universo di Geranium

Il percorso degustazione prevede quattro appetizers, 7 portate salate e 7 portate dolci, a dimostrazione della passione dello Chef per la parte dolce. Si pesca dalla tradizione della cucina danese, come nel caso dell’Ollebrod, una sorta di porridge di pane di segale e lo si trasforma in un piatto bellissimo, quasi psichedelico, utilizzando l’aronia e il geranio per colorare, nascondendo sotto la superficie delle mele. La barbabietola in un piatto viene tagliata e trattata in superficie trasformandosi in piccoli rubini splendenti, l’astratto di King Crab si presenta come una piccola opera d’arte, così come la crema di cavolfiore, prima di essere coperta da scaglie di tartufo bianco.

Un percorso leggero, oseremmo dire fin troppo, poiché, a parte il Pancake fritto e ripieno, comunque di piccole dimensioni, bisogna aspettare la fine del percorso salato per avere una certa “sostanza” con la Rana pescatrice (e comunque non in una porzione abbondante). Tanti piatti più da cucchiaio che da forchetta: una scelta, ovviamente voluta, di non avere, come in passato, almeno due portate di proteine di una certa rilevanza.

Nel complesso si tratta di una carrellata di piccoli gioielli di fine artigianato gastronomico, densi di tanta tecnica e precisione certosina nelle preparazione, grandissima eleganza e leggerezza: uno spettacolo per gli occhi fatto di sapori delicati ma ben distinguibili al palato, alcuni più profondi nel gusto, altri meno. Come detto all’inizio, balliamo sul mondo, per citare Ligabue, però non facciamo un fandango ma un elegantissimo valzer.

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Dal riformatorio al super fine dining

Qualcuno ha detto che potrebbe essere un film la storia di Eric Vildgaard. Ex delinquente e spacciatore nell’età dell’adolescenza, aggressivo, violento e pericoloso, viene inviato, come percorso di riabilitazione, su una nave commerciale al largo della costa danese e, per ingannare il tempo, inizia a cucinare, scoprendo di avere talento. Passa poi per le cucine del Noma, dove apprende a lavorare in modo disciplinato e strutturato. Del resto, per lui, fra bande criminali, navi e cucine il principio è lo stesso: gerarchie rigide, divisione strutturata dei compiti e obiettivo comune. La cosa che più impressiona, vedendolo, è la contrapposizione fra il suo aspetto, definito da alcuni come “un incrocio fra un orso e un vichingo“, super tatuato, e la grazia dei suoi piatti, che si rivelano essere di grande impatto, non solo visivo, ma anche gustativo. In cucina ha trovato indubbiamente una valvola di sfogo, un micro cosmo dove rilassarsi, scoprire una pace e un equilibrio interiore. Nel suo percorso professionale ha sicuramente giocato una parte importante sua moglie, Tina, grande direttrice di sala, personaggio quasi teatrale, dalla grande personalità. Nel 1997 hanno aperto il loro ristorante Jordnaer, in danese “con i piedi per terra” e, per esigenze finanziarie, hanno scelto una location fuori Copenhagen, all’interno di un albergo non particolarmente prestigioso. Da qui stanno scalando le vette sia della 50 Best che di Top Chef, oltre ad avere già due stelle Michelin che potrebbero tranquillamente diventare tre.

La ricerca della perfezione

La cucina di Vildegard è centrata su pesce e crostacei, la carne non è presente. “Pesca” dai Paesi Nordici per l’eccellente materia prima, incontra la cucina giapponese per la maniacale attenzione ai dettagli, mentre con alcune ricette, salse e materie prime butta un occhio alla cucina francese. La partenza è decisamente esplosiva con una Tartelletta con aragosta, uova di trota, pepe Sansho con un ripieno liquido che esplode letteralmente in bocca e delizia il palato. Un percorso che prevede tante materie prime pregiate, soprattutto caviale in varie versioni, così come tartufo, nero e bianco, scampi e aragosta.

Oltre alla grande bellezza e eleganza estetica dei piatti c’è una profondità di gusto che sorprende, alcune spinte sulle acidità e piccantezze, sempre controllate, con l’unica eccezione del piatto con fettine di ostrica, decisamente coperte da una (stra)pungente salsa al rafano. Un King Crab incredibile si accompagna a un chawanmushi condito con olio alla cipolla grigliata; il waffle a forma di rosetta, dolce tipico danese natalizio, è riempito con un delizioso ripieno ai gamberetti e sormontato da caviale Baerii. Perfetto l’accostamento dell’Aragosta con una salsa allo yuzu e spuma di koji per equilibrio fra dolcezza, acidità e sapidità. Splendido il Merluzzo ricoperto da scaglie di tartufo nero con una salsa al Vin Jaune di accompagnamento; perfetto il dolce con diverse consistenze e variazioni di miele con vaniglia, così come la Rivisitazione del Ferrero Rocher: tartufo bianco, cioccolato e crema di nocciole.

Un percorso vario, stimolante, divertente con una sala che vede la sequenza dei giovani della brigata che, a rotazione, escono per la presentazione dei piatti che hanno preparato. Jordnaer sarà pure coi piedi per terra, ma con lo sguardo va lontano.

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Un tristellato allo stadio, solo a Copenaghen

Rasmus Kofoed ha avuto una carriera folgorante. Primo tristellato danese della storia, riconoscimento ottenuto nel 2016, è stato ancor prima vincitore del Bocuse d’Or e, in precedenza, due volte secondo e terzo (rispettivamente medaglia d’argento e di bronzo). Eppure Rasmus, che il giorno della nostra visita non era presente, deve avere un carattere e un atteggiamento davvero esemplare. Lo si intuisce nel clima che si respira qui, all’ultimo piano dello stadio comunale di Copenaghen, luogo inusuale per un ristorante di fine dining e che è al contempo professionale, impegnato e dedizioso. Ma l’aria che si respira è anche di totale complicità tra i collaboratori, che ridono, scherzano durante il servizio, alcuni ballano sulle note delle molte canzoni che fanno da sottofondo alla vostra piacevole esperienza.

Sostenibilità ed ecologia, non solo nel piatto

Una gentilezza, un pathos, una empatia tutt’altro che di facciata. Perché il pensiero e la filosofia del capo è che di ecologico e sostenibile, oltre che organico, non ci devono essere solo i prodotti, ovvero la materia prima cucinata. Sostenibile ed ecologico deve essere anche l’ambiente lavorativo, il modo di viverlo e di sentirlo. Ecco quindi che i servizi sono 8 alla settimana, da mercoledì a cena a sabato a cena. 3 giorni di riposo (domenica, lunedì e martedì). E non è raro vedere Rasmus che alle 16.00 abbandona il locale per andare a prendere i figli a scuola. E tutto ciò per noi è un valore, un grande valore. Che necessariamente si trasferisce nell’anima dei piatti e delle preparazioni servite.

Ma parlando più precisamente e dettagliatamente della cucina di Rasmus Kofoed  e del suo Geranium è facile travisare l’estremo manierismo, la perfezione delle forme e delle cesellature dei piatti e delle guarniture con una fredda e distaccata anaffettività gustativa. I piatti sono sottili, finissimi, con sapori mai troppo marcati, mai eccessivi, mai debordanti. In puro stile Bocuse d’or tutto quanto è appena sussurrato, e finissimo. Ma non si confonda con l’evanescenza. Piuttosto con profilo gustativo molto elegante e mai in eccesso ma che in molti casi arriva ad avere una profondità di gusto e una variabilità davvero sorprendente. Basta poi guardare alcuni piatti (i cannolicchi ricostruiti, il nasello, le foglie stilizzate di aperitivo) per ritrovare in molti illustri colleghi, anche italiani, alcuni spunti di ispirazione evidente.

Ciò significa che questa cucina è tutt’altro che manierista, sarebbe questa, anzi, una visione alquanto superficiale. E ci è molto piaciuto il rito, l’accoglienza, la discreta confidenza di una sala che trova in Mattia Spedicato, nostro conterraneo che si è fatto onore in Danimarca, un grandissimo interprete e protagonista. I piatti che ci hanno più impressionato ? Sedano rapa e tartufo nero, i semi di zucca con il caviale e l’uovo con le cipolle.

Andateci! Ne rimarrete estasiati.

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Anima polifunzionale e stile post-industriale nel cuore di Christiania, a Copenhagen

Parte della grandezza della rivoluzione scandinava risiede nel fatto che è popolata da chef che sono o sono stati, in qualche modo, legati al Noma. 

Come Matt Orlando che, dopo un’esperienza come sous-chef di René Redzepi, nel 2013 decide di ristrutturare un grande capannone nei pressi di uno dei canali di Christiania e trasformarlo in un piacevolissimo, luminoso locale stile post-industriale, graffiti inclusi, dall’anima graziosamente polifunzionale perché capace di essere al contempo ristorante, bar, giardino e luogo di aggregazione, con una disinvoltura davvero sorprendente.

Tale fluidità riesce in qualche modo a specchiarsi felicemente anche nella cucina, che ha anima vivace e ricchezza di riferimenti, ma è altresì improntata al credo, fermo, della sostenibilità. Così fanno il loro ingresso fermentazioni, marinature ed essiccazioni che, di ingredienti poveri o erroneamente destinati allo scarto, rappresentano la nuova vita gastronomica.

E che vita! 

Una cucina fluida, solida ed ecosostenibile

Lo chef americano, del resto, vanta importanti trascorsi in cucine di stampo classico come a Le Bernardin a New York e presso il Manoir aux Quat’saisons a Oxford, ma anche moderne come quella del The Fat Duck di Heston Blumenthal fino ad arrivare al Noma stesso, appunto, di Redzepi. Risalendo la china dei suoi trascorsi si vede quanto questi si riversino orgogliosamente nell’attualità di Matt Orlando, artefice di uno stile rigorosamente imperniato di genius loci scandinavo benché contaminato del proprio, profondo, bagaglio di conoscenze.

E i suoi piatti testimoniano questa fusione e permettono di spaziare all’interno di uno spettro di sollecitazioni molto ampio fatto di verticalità e ampiezza, e dove si raggiungono picchi gustativi ragguardevoli mentre una gamma di persistenze molto ampia, dovuta alla sapiente estrazione dei sapori, consente di godere di un’esperienza totale: efficace e poderosa.

Senza scomodare lo stesso Noma a lui vicino, o chef come Niko Romito, orbitante migliaia di chilometri, si può senz’altro dire che Matt Orlando coniuga materia prima locale e quintessenza quasi primordiale in modo esemplare. 

Se è nei particolari che si cela il diavolo allora è normale ricordare, anche a distanza di tempo, il brodo di ossa che accompagna il rombo, l’affumicatura del cuore di agnello che guarnisce un’insalata di mediterranea completezza o la memorabile freschezza della granita di angelica che accompagna il gelato al rabarbaro.

Copenhagen attualmente è una delle mete gastronomiche europee più stimolanti che ci siano e Amass rappresenta, a pieno titolo, uno di quegli indirizzi che rendono onore a tale attributo.

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Un’ambasciata messicana a due passi dal parco Skydebanehaven, a Copenhagen

L’informalità è la prima caratteristica che colpisce in questa piccola ambasciata di cucina messicana in terra scandinava, un piccolo locale con cucina a vista che fa dell’essenzialità la sua ragion d’essere.

Rosio Sanchez dopo l’esperienza da Wilye Dufresne a New York arriva a Copenhagen dove per cinque anni, dal 2009 al 2014, lavora al Noma, dove diventa capo partita di pasticceria. Da quel momento, prende il volo. Un volo di ritorno, ancorché metaforico: benché americana, proprio a Copenhagen la chef comincerà a rivendicare le sue origini autenticamente, strenuamente messicane con la prima e già rinomata taqueria Hija de Sanchez, cui seguirà una seconda, nel 2016.

Non paga di questa formula di Mexican street food, certamente già di successo, da fine 2017 ne conia un’altra, di formula, sempre all’insegna dell’informalità: il suo primo, eponimo ristorante, dall’anima meno street e più fine.

Una cucina orgogliosamente messicana, con pochi, studiati elementi di contaminazione

E proprio qui va in scena una cucina messicana realizzata con maniacalità e cipiglio, quasi filologico: lo si capisce già nell’impasto della farina di mais del masa, quella dei tacos che, come tutto, del resto, viene da ingredienti certosinamente selezionati e scelti cercando di preservare ed enfatizzare proprio quei dettagli che, in Messico, la rendono eccelsa. Non mancano tuttavia poche ancorché significative contaminazioni maturate grazie alla cultura culinaria ospitante, quella nordica, a impreziosire il quadro.

Uno scarno foglio con l’elenco dei piatti, dolci compresi, e un paio di degustazioni saranno più che sufficienti a rappresentare l’ecletticità della cucina di Rosio Sanchez, che è poi l’essenza stessa della cucina messicana tutta.

Piccante, ovviamente in diverse sfumature; ma anche agrodolce, acido, speziato, fino al dolce assai spinto dell’open churro sandwich, saranno le note che accompagneranno un pasto interessante e quantomai divertente”.

A felice corredo, un’atmosfera rilassata con l’opportunità di assaggiare qualche cocktail e birre artigianali, direttamente dal Messico, nonché poche ma ben selezionate proposte in termini di vino.

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