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Al Gambero

La quarta generazione di una tavola senza tempo

Era un po’ che non tornavamo qui a Calvisano, nella capitale del nobile caviale italiano. Siamo qui Al Gambero, uno dei templi assoluti di quella che, una volta, era considerata la grande ristorazione borghese italiana. E, con gioia e grande piacere, abbiamo toccato con mano che non è cambiato quasi nulla.

È proprio così. Ci sono dei luoghi in cui si torna per provare emozioni nuove, per verificare la crescita e l’evoluzione della cucina, per abbracciare col palato nuove tecniche e sperimentazioni. Altri, invece, in cui si torna per il semplice piacere di mangiare bene e, più in generale, di stare bene a tutto tondo senza cercare molto altro. Posti in cui si torna addirittura sperando che nulla sia cambiato. Certo, il modo migliore per godere di un pranzo Al Gambero sarebbe quello di farlo con la mente libera, senza dover poi esprimere un giudizio e racchiuderlo in numero.

Ovvero, semplicemente, godere, di una cucina che regala piacere senza che ci si domandi per forza quanto essa sia piaciona o ruffiana, quanto sia originale o leggera, e quanto si sia rinnovata rispetto alla nostra precedente esperienza.

Grande golosità e precisione nelle cotture e nelle consistenze

Godere, anche, di un’accoglienza che ha pochi eguali. Perché Antonio Gavazzi è un grande padrone di casa, e non temiamo di peccare di lesa maestà se lo avviciniamo a Maestri del calibro di Antonio Santini. Servizio impeccabile e mai ingessato che risolve con un sorriso qualsiasi inconveniente ed esaudisce ogni richiesta alla velocità della luce.

Poi, godere di una carta dei vini che tra grandi bollicine e chicche di piccoli produttori locali è un invito alla più pura perdizione enologica.   

Quanto ai fornelli, c’è Edvige Gavazzi, che è riuscita a trasmettere il suo sapere e la sua passione alla nuora Maria Paola Geroldi, che oggi guida la sua piccola brigata con sicurezza e autorevolezza. La sua cucina è un inno al “ti piace vincere facile” ma, come si diceva, qui ci si deve venire per godere e basta e, pertanto, per convincersi che la crema di patate, caviale, mazzancolle, e bottarga di caviale sia davvero golosissima basta leggere gli ingredienti. Stesso discorso per le capesante, crema di patate, uovo di quaglia e tartufo nero che, dopo il primo boccone, ti spediscono direttamente nell’inferno dantesco e precisamente nel girone dei golosi…

Il riso d’aMare mantecato all’olio extravergine del Garda con scampi, mazzancolle, gamberi e capesante crudi prosegue la tradizione dei grandi risotti di casa Gavazzi e la lingua brasata, accompagnata da un’eccellente mostarda di frutta, essenziale e didascalica sembra evocare una cucina “affettiva”.

Scriveva Brillat-Savarin: “Il buongusto è un atto del nostro giudizio col quale diamo la preferenza alle cose che sono piacevoli al gusto su quelle che non hanno tale qualità”. Ebbene, Al Gambero questa massima si ritrova materializzata in ogni piatto e, pertanto, non possiamo che augurare al ristorante e al progetto di vita della famiglia Gavazzi tutto il bene del mondo.

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Michele Valotti: artigiano ricercatore de La Madia di Brione

Bisogna affrontare un po’ di tornanti per arrivare a questa trattoria, che potremmo definire “5.0”. Qui la storia gastronomica del territorio è stata ampiamente studiata e radicata e, come recita il manifesto che viene consegnato alla fine del percorso, si ricerca il “non standardizzato”, ci si inoltra tra “le fronde del selvatico, dove le cose sono sé stesse, non edulcorate, in una parola… selvagge”.  Michele Valotti si considera un artigiano, un artigiano che ha passato tanto tempo a studiare le ricette e a scovare la materia prima di eccellenza dei piccoli produttori delle valli.

La sua è una cucina di ricerca e di sperimentazione: da anni lavora sulle tecniche di fermentazione su vegetali e frutta e nella produzione di koji, miso, garum. Rispetto al passato, dove, oltre alla carta, proponeva un menù che era “ardito” sia di nome che di fatto, molto estremo sulle acidità e sull’amaro, ora ha tolto la carta e propone solo un menù degustazione, che si può declinare in sette o dieci portate a 38 e 45 euro. Un percorso che ha voluto rendere il più inclusivo possibile, sia per il prezzo, sia per l’offerta gastronomica, ora fortemente concentrata sulla golosità, ma sempre con un alto tasso di originalità.

La cucina “viva” di Michele Valotti

Da artigiano quale lui si considera, sostiene che “l’imperfezione è il prezzo che l’artigianalità paga all’eccellenza” e la sua proposta esce dagli standard con menù che cambiano più o meno in tanti piatti ogni due settimane: non ci sono tante prove e ci possono, a detta sua, essere piatti anche non proprio equilibrati. Noi possiamo solo dire che il percorso è stato assolutamente sorprendente, con una partenza davvero strabiliante.

Tre piatti vegetali in sequenza, che potremmo definire “VVV”, ovvero Verticalizzazioni Vegetali Vertiginose, a partire da “Verza, verza, verza“. Verza cotta nel grasso di pollo, emulsione, shiro koji e shiro miso sempre di verza con whisky torbato e burro affumicato, cavolo cappuccio fermentato per un piatto davvero emozionante per la complessità, originalità e intensità di gusto. Non da meno il porro in varie declinazioni (alla brace, in polvere, fritto), con una salsa deliziosa, con note di caramello, ricavata sempre dagli scarti del porro “nero” frutto di una cottura, per due mesi, a 60 gradi. Infine il finocchio marinato in miso di castagne e fave con salsa di garum di pane, polypodium, incenso e finocchietto. L’intensità ed il livello raggiunti da questi tre piatti è difficile da mantenere durante tutto il percorso, ma ogni portata ha comunque un “quid” di originalità.

Gustosissimo lo spaghetto con Mascherpa, cachi conservati e polvere di ruta, notevole ed emblematico del concetto “less is more” è la “pecora bollita“, che in realtà è conservata per tre giorni in koji di castagne e passata poi, prima di servirla, in un brodo di fieno, bacche di ginepro e cannella, servita in purezza con una radice di radicchiella, una pigna e una composta di corniolo e pesca. Originale anche la parte dolce, con un gelato di mela “nera” (stesso procedimento descritto per il porro) e un gelato di zucca e gin, frangipane, olio al levistico e amazache di zucca, per finire in bellezza con un gioco riuscito di note dolci, amare, acide.

Che dire! Una cucina viva, pura, varia, diversa, insolita, ma molto accogliente e golosa, che rende viva l’esperienza e rende vivo e felice l’avventore. Ce ne dovrebbero essere di più, di artigiani del cibo, come Michele Valotti!

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Da Simone Breda al Sedicesimo Secolo

Arrivare al Sedicesimo Secolo da Simone Breda non è immediato. Situato a Pudiano, frazione di Orzinuovi, nel mezzo della campagna bresciana, il ristorante si raggiunge percorrendo una stradicciola che si dirama tra i campi di mais, a pochi minuti dal casello autostradale. Pare di addentrarsi in un luogo fuori dal tempo, limitrofo ma al contempo alieno alle realtà industriali che costellano il panorama circostante.

Il colpo d’occhio si concretizza quando ci si trova di fronte alle mura di Palazzo Caprioli, di proprietà dell’omonima famiglia nobiliare, punto nevralgico e fondativo di Pudiano. Con un po’ d’attenzione, si sposta lo sguardo a sinistra e si scorge l’insegna del Sedicesimo Secolo, ricavato da quelle che un tempo erano le scuderie della casata.

È qui che Simone Breda ha il suo regno.

Classe 1985, il giovane chef vanta un curriculum di grande pregio, culminato con la formazione presso Gualtiero Marchesi e Moreno Cedroni, passando per La Table d’Adrien in Svizzera e Lo Spazio 7 a Torino. Il 2016 rappresenta l’anno di svolta: insieme alla compagna Liana Genini, a gestire la sala, Breda prende in mano le redini del Sedicesimo Secolo. Scelta oltremodo di successo: appena due anni dopo, nel 2018, arriva la prima stella Michelin, tutt’oggi mantenuta.

La cucina è il sunto delle esperienze di cui sopra: focalizzata su un’impostazione classica, fatta di precisione esecutiva ed eleganza, i piatti sono capaci di valorizzare la tradizione lombarda aggiungendo tocchi interessanti nell’uso del vegetale e nella gestione delle acidità.

Prendiamo il piatto migliore del servizio, risotto, salvia, Franciacorta e fondo di capretto. Esaltato da una cottura millimetrica, il riso ha manifestato un notevole equilibrio tra la rotondità del fondo di capretto e della mantecatura, la lieve acidità del Franciacorta a rilanciare il boccone successivo e la lunghezza balsamica della salvia, sbriciolata e fritta, a conferire un bel gioco di croccantezza nel finale. Un piatto elegante, preciso e intelligente, non a caso cavallo di battaglia dello chef.

Stesso interesse si è palesato pure nel maialino con barbabietola al fieno, in cui l’assemblaggio delle carni, di una morbidezza squisita, ha incontrato un piacevole contrasto nella croccantezza della cotenna. La barbabietola cotta nel fieno ha aggiunto una precisa nota dolce, dalle eco terrose, a incrementare la rotondità, senza farsi mancare nemmeno una veste marinata, a lato, capace di creare un bel contraltare acido.

Ci è parso, invece, meno ispirato coniglio, capelunghe, erbette. Sebbene vantasse una composizione teorica animata dalle migliori intenzioni, ovvero tesa a raggiungere il contrasto terra/mare tra la rotondità del coniglio e, di nuovo, la nota iodata dei cannolicchi, a livello gustativo il leporide ha assolutizzato l’assaggio, senza che nemmeno lo spinacio riuscisse a ricalibrarne la presenza. Tuttavia, per onestà intellettuale, va detto che a livello di consistenze i passaggi tra morbidezza e gommosità delle carni e croccantezza vegetale sono stati interessanti.

In chiusura, assai conciliante il latte, cioccolato e caramello salato, golosissimo nella dolcezza del cioccolato e del latte, equilibrata però dalla sapidità del caramello, con nuovamente piacevoli passaggi ludici in bocca tra le meringhe e le cialde on top, e la granella alla base. Un dolce che ha puntato sul sicuro; il che, considerato il risultato, non è certo un demerito.

A completare il quadro, giusto merito va al servizio di Liana Genini, puntuale nelle mescite tese all’accordo. Un’esperienza senza fuochi d’artificio, non era certo quello l’obiettivo, che ha assestato ugualmente dei colpi di notevole eleganza e precisione, contestualizzandosi, come detto, in un registro classico, con un giudizio arrotondato per ora in difetto. Bene così!

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Nel paese dei casoncelli, Gaudio è lo scrigno del gusto dei fratelli Papa

Difficile trovare uno stacco così netto come quello che troverete arrivando da Gaudio, il ristorante dei fratelli Papa.

Fuori, un anonimo e trafficato stradone di una zona industriale del bresciano, dentro, eleganza, buon gusto, tutto è estremamente curato. Ad accogliervi sarà uno dei due titolari, Giambattista Papa, eccellente padrone di casa, uomo di sala che sa il fatto suo e ha la naturale capacità di mettere immediatamente ogni cliente a proprio agio. Ai suoi ordini uno staff giovane e dinamico che non sbaglia un colpo e fa sì che il servizio nel complesso si riveli uno dei punti di forza del ristorante.

In cucina Diego, il fratello minore, autodidatta di buon talento che ogni tanto fa capolino in sala per ricevere in diretta feedback dei clienti sulla cucina. Qui, un plus è certamente la ricchezza della proposta. Oltre alla carta, sono numerosi i percorsi degustazione tra i quali uno vegetariano, uno dedicato alla selvaggina e uno dedicato al pesce, vera passione dello chef. La carta dei vini è importante e consente di divertirsi a tutti i livelli.

La cucina di Diego Papa è semplice e appagante, estremamente diretta; lo chef ricerca la piacevolezza e la golosità senza perdersi in inutili orpelli. La proposta è relativamente ispirata dal territorio, con preparazioni e ingredienti che pescano un po’ da tutta Italia andando decisamente oltre la cucina classico-lombarda: a dettare la rotta è il rispetto della stagionalità che, qui, non ammette deroghe.

Una cucina semplice e diretta con tanto gusto e qualche imperfezione

Peccato che alcune portate non convincono appieno a causa di qualche imprecisione nell’esecuzione di alcuni passaggi come la tempura di scampi e mazzancolle, che difetta della croccantezza necessaria, e le linguine con i ricci, a causa di una salsa un po’ troppo lenta, liquida. Ma la cura nella selezione della materia prima è lapalissiana e si avverte nella triglia di scoglio, cime di rapa e mandorla grigliata, piatto decisamente di categoria superiore, goloso e di grande equilibrio.

Un po’ impersonali i secondi, sia di mare (abbiamo provato il calamaro) che di terra (con la foglia di manzo) seppure ben eseguiti. Ottimo il dessert con un bellissimo contrasto tra croccantezza esterna e scioglievole ripieno.

In buona sintesi, Gaudio è senz’altro una buona tavola in grado di regalare soddisfazioni a un pubblico di affezionati clienti molto ampio. Un posto in cui si sta bene, si viene coccolati e si beve benissimo.

A nostro giudizio, una maggiore precisione nell’esecuzione di qualche piatto unita a una proposta un po’ più ambiziosa potrebbero traghettare la cucina verso quel balzo in avanti che già ora si merita.

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In mezzo alla campagna bresciana la cucina di Alessandro Sciortino e Nicholas Carusio

Bella storia quella di Alessandro Sciortino e Nicholas Carusio, i due giovani chef alla guida del Saur, nel mezzo della pianura bresciana. Conosciutosi Da Caino di Valeria Piccini, i ragazzi condividono dapprima la fatica dietro ai fornelli e poi instaurano una profonda amicizia che li porta a dar vita al Saur.

L’idea è quella di omaggiare la tradizione e i prodotti bresciani con uno sguardo moderno, audace, che non abbia timore di re-inventare la classicità utilizzando però un registro ben saldo sull’uso dell’acidità e della componente vegetale. Gli intenti sono encomiabili, e in più di un’occasione il percorso ci ha regalato dei piatti stupendi; vero è, però, che alcune proposte hanno tradito una mancanza di messa a fuoco, un eccesso di ardore giovanile che ha perso di vista l’armonia complessiva nell’intento di perseguire l’audacia gustativa.

 L’acidità come filo conduttore

Come detto, l’acidità è stata il fil rouge del percorso, da sette portate la forma estesa, da quattro nella versione ridotta.

Nella nostra visita abbiamo optato per la versione estesa, la quale ci è stata proposta con spigliata professionalità da un team di giovanissimi capitanato da Virginia Severgnini, compagna di Sciortino.

Tra i piatti più riusciti sicuramente il primato spetta a bottoni di patate, rosmarino e animelle: un piccolo gioiello di golosità e sperimentazione, grazie a un gioco di contrasti semplicemente meraviglioso tra la struttura della patata, la freschezza del rosmarino, la tostatura delle animelle e, in chiusura, l’acidità del brodo di patate, ottenuto lasciando macerare le bucce quel tanto da generare una lieve fermentazione. Un piatto stupendo.

Meritorio di menzione anche cuore di manzo alla brace, prugne e sambuco, in cui la componente ematica e ferrosa del cuore, la dolcezza della prugna, l’apporto balsamico e acidulo del sambuco, e la freschezza finale delle erbette miste si sono coniugati con estrema eleganza.

Infine, sempre tra i piatti più riusciti, citiamo gelato al Marsala, mosto cotto e spuma di fegatini. Di nuovo l’acidità si è palesata tramite il mosto, ma questa volta è stata smorzata dai fegatini, la cui dolcezza ha regalato un piacevole straniamento in chiusura di servizio.

Tuttavia, come accennato, alcune preparazioni hanno presentato delle problematicità concettuali. Su tutte: pera ai 5 cereali. Il frutto, servito sotto forma di purea, è stato accompagnato da farro, avena, orzo, quinoa e mais, con aggiunta di aceto di vino e senape, e una cialda di pasta fillo on top. L’intento era richiamare il contrasto gustativo della mostarda, ma le dosi si sono rivelate mal calibrate, eccessivamente orientate sull’acidità e la piccantezza, col risultato di un piatto in cui a prevalere è stata esclusivamente la forza della brassicacea: una “senape ai 5 cereali”, più che una pera.

O ancora, guancia di storione, grano corvino e mela verde, in cui la sovrabbondanza del mais ha purtroppo svilito un piatto che poteva dare di più in termini di contrasti.

Piccolo appunto, poi, sul servizio: l’idea era alternare una portata più ardita e una più delicata, così da non stancare eccessivamente il palato. Nella pratica, però, il passaggio tra antipasti e primi ha visto la successione di due proposte afferenti alla prima categoria, col risultato di sminuire la validità dei pur ottimi maltagliati all’aglio e rosmarino con porcini.

Piccole imprecisioni, ne conveniamo, ma che segnaliamo in un’ottica più costruttiva possibile in modo da permettere a questa promettente tavola, e ai suoi ottimi chef, di affinarsi e raggiungere, così facendo, un punteggio maggiore, ormai alla sua portata.

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