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L’Enoteca Pinchiorri, il maialino e Alma

O delle istruzioni per diventare uno chef di successo

Lunedì 8 marzo è andata in scena, su quel particolare palcoscenico che è ALMA, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana, una lezione d’eccezione.

Innanzitutto perché, a condurla, è stata una squadra di fuoriclasse dell’alta gastronomia: Riccardo Monco, Alessandro Della Tommasina, Andrea Cerutti e Francesco Federici; rispettivamente executive-chef, chef di cucina, sous-chef e pastry-chef di un posticino niente male, noto ai più come Enoteca Pinchiorri.

Il secondo motivo risiede proprio nella grandezza del principale relatore, lo chef Riccardo Monco, persona umanamente squisita, che non si è risparmiato nel dispensare utili consigli ai giovani chef che hanno avuto la fortuna di poterlo ascoltare.

Del maialino non si butta via niente

Punto focale dell’intera giornata è stato il maiale. Nello specifico, un delizioso maialino da latte di razza Mora Romagnola, approvvigionato da Emanuele Ferri, titolare dell’azienda agricola Ca’ Lumaco e fidato fornitore di Pinchiorri da più di dieci anni. Una prelibatezza  contraddistinta da pelo marrone scuro (da cui il nome “mora”) e zanne tanto lunghe da renderlo più simile a un cinghiale che non al comune suino.

Un animale cresciuto brado nel bosco, nutrito a ghiande e castagne che han sì ben contribuito nel rendere le carni squisitamente grassottelle e dunque particolarmente pregiate. Partendo dunque dal delizioso porcello, gli chef hanno ideato un’inedita verticale: 6 portate interamente derivate dal prezioso ingrediente, declinato dall’antipasto al dolce.

À cochon, cochon et demi

L’idea di fondo è dunque quella di mostrare ai giovani chef come, con le adeguate conoscenze, sia possibile adattare la cucina agli ingredienti disponibili sul momento e mettere a punto dei piatti con i quali nulla vada sprecato.

Sapersi adattare, saper assaggiare ed essere curiosi sono i più grandi pregi per un cuoco, in mancanza dei quali si finisce a replicare sempre le stesse cose” afferma Monco.

E questo particolare periodo ne ha richiesto di spirito di adattamento ai professionisti delle cucine che, nei rari e agognati momenti di operatività, si sono trovati a dover fare i conti con una situazione totalmente incerta. “Proporre la verticale di una materia prima in periodo Covid è una scelta particolarmente sostenibile: si hanno meno sprechi perché si vanno a utilizzare tutte le parti, ma allo stesso tempo si lavora con meno merci, generando un risparmio per il ristorante. Rivolgersi ai piccoli produttori poi vuol dire fare gioco di squadra, in questo modo si dà sostegno anche a loro”. Insomma se di questi tempi la vita ci offre maiali, non resta che adattarsi e rispondere con un maiale e mezzo o, meglio ancora, con un’intera verticale.

La materia prima

Così si arriva a quello che è un altro tema fondamentale per il cuoco, la materia prima. “In questo senso la Francia ci ha insegnato molto con Alain Chapel, il primo ad aver scritto il nome dei fornitori sul menù. Sono loro che ci permettono di offrire ai nostri clienti un prodotto unico. Il rapporto che si instaura tra chef e fornitore dev’essere di totale fiducia e onestà; se c’è comunicazione, è possibile risolvere qualsiasi problema. In questo aiuta particolarmente affidarsi ai piccoli produttori, che hanno un controllo totale sulla filiera”.

Imprescindibile è stato il contributo di Emanuele Ferri ad esempio, nel dare vita al divino maialino allo spiedo dalla cotenna perfettamente croccante. “Abbiamo provato di tutto per ottenerla e solo col tempo abbiamo capito che era l’aria l’ingrediente fondamentale. Il maialino sardo viene asciugato all’aria prima di essere cotto. Capito ciò, abbiamo fatto fare cose impossibili a Emanuele per realizzare il nostro obiettivo: oggi è lui stesso a consegnarci in maniera diretta i maiali che ci occorrono e la qualità è impareggiabile”.

Quando si compone un menù o un nuovo piatto, l’altro aspetto da tenere in considerazione è che questo deve entrare in piena armonia con le ricette già esistenti e con quelle che arriveranno: ci dev’essere sempre un filo logico. “Per questo motivo non bisogna essere troppo severi con se stessi: capita che il piatto cambi in corso d’opera, la vera difficoltà del portare avanti una ricetta è saperla adattare, anche in base al giudizio finale che arriverà dai nostri clienti. Fondamentale in questo senso è il coinvolgimento con la sala, che comunica la nostra cucina al cliente. Il binomio cucina e sala, quando è in armonia, diventa il paradigma di un’esperienza soddisfacente: difficilmente si uscirà insoddisfatti da un ristorante in cui si ritrova questo equilibrio”.

Infine l’assunto più importante, quello che tratteggia l’identità di una cucina, determinandone drasticamente il successo o il fallimento. “Ci dobbiamo sempre ricordare, soprattutto noi in Italia che abbiamo un patrimonio gastronomico che il mondo ci invidia, del posto dove siamo. Le radici sono fondamentali, sono la nostra firma. Quando il cliente si siede alla nostra tavola, si aspetta di trovare una precisa realtà. Di certo non cercherà un risotto alla milanese in Sardegna; o un piatto estremamente moderno, ma completamente distaccato dal territorio. In entrambi i casi la sensazione sarà quella che qualcosa manchi. Le radici sono l’identità della nostra cucina, senza siamo solo delle fotocopiatrici”.

Il motto dello chef?
Non chi comincia, ma chi persevera“.

Il successo come forma di evoluzione

Quantunque si potrebbe pensare all’esperienza formativa, qualunque essa sia, come a un momento definito nel cammino dell’uomo, esistono scuole la cui esperienza continua a riecheggiare nel corso di tutta una vita. Sono le scuole migliori, solitamente, le quali insegnano, tra le altre cose, che a scuola ci si trova sempre, perennemente dediti a quell’esercizio del sé che caratterizza, nella migliore delle ipotesi, qualunque forma di evoluzione. 

Una scuola come questa instilla nei suoi alunni una certa propensione alla lucidità: una sorta di shining che permette loro di vedere le cose per quelle che sono, e di presagirle, magari, tanto che chi ci arriva, ad ALMA, ha già fatto buona parte del lavoro. Come Giovanni Biaggini il quale, dopo anni di sport agonistico e già avviato verso una fiorente carriera immobiliare, è oggi General Manager di Dry Milano: “ALMA mi ha dato indipendenza; dopo il Master in Managment della Ristorazione ero un professionista ambito grazie – anche – alla rete di contatti acquista: colleghi di master, professori, professionisti e aziende. Una mente aperta, qui, ha incredibili possibilità.” Ne sa qualcosa anche Tommy Monari che, dopo lo stage all’Enoteca Pinchiorri nell’ambito del Master Sommelier ALMA-AIS, grazie al network della Scuola ha coronato il sogno di diventare Brand Ambassador di una prestigiosa Maison di Champagne: “ALMA mi ha insegnato a vedere il mio futuro in una prospettiva che non sembra finire mai: tutto quello che imparo germoglia oggi dentro di me e, come lo Champagne, si stratifica anno dopo anno diventando parte della mia riserva personale.” Per non parlare, poi, della straordinaria ascesa di Nello Ciulli: una vita dedicata al pane e alla panificazione tradizionale, che oggi perpetua in maniera affatto tradizionale al fianco di Niko Romito, per cui porta avanti i progetti di ricerca legati al grano autoctono abruzzese.

C’è poi stato chi, tramite la lucidità e l’indipendenza fornite da ALMA, ha compreso esattamente quale fosse la propria collocazione nel mondo: come Beatrice Venturini, tornata alla Madonnina del Pescatore dopo lo stage svolto in occasione del Corso Superiore di Sala Bar e Sommellerie, o Federica Russo, che si trova esattamente dove e come vorrebbe essere: “Sono molto determinata e perfettamente convinta di ciò a cui aspiro: voglio essere “una pasticciera in rosa” che, col proprio lavoro, porta in alto il valore della pasticceria femminile.” Come lei, ma con un’estensione di tipo etico, Federico Polito, che da ALMA ha mutuato il carattere necessario a placare quelle sete di conoscenza che l’ha portata dapprima nelle cucine di Stati Uniti e Regno Unito, quindi a comprendere il valore civico e sociale della propria professione che oggi esercita accanto ai ragazzi della comunità di San Patrignano nel ristorante Vite. Binita Debnath, invece, dopo una laurea in ingegneria informatica è tornata alla sua passione di sempre, la cucina e, tramite ALMA, ha trovato il suo habitat proprio all’interno della Scuola, dov’è Capo Partita presso i corsi di Panificazione Moderna e i Corsi Internazionali.

L’esercizio di una professione è l’esercizio del sé

Così lo scorso 8 ottobre, in occasione della Cerimonia di Apertura del XVI Anno Accademico di ALMA, Massimo Bottura ha parlato sostanzialmente della possibilità che la cucina gli ha dato di essere libero. Come uomo, lui rappresenta una delle menti più feconde – e più libere – della contemporaneità e non è un caso che la professione del cuoco sia coincisa, per lui, con attività come quella di parlare alle Nazioni Unite del cambiamento climatico e sociale in atto. Tramite il suo percorso, il suo esercizio del sé, Bottura ha edificato la Nuova Cucina Italiana e, tramite la cucina che è solo una delle sue muse, un’altra è la musica, ha inventato un nuovo linguaggio. Per fare un esempio, per riferirsi al turismo innescato dalla cultura enogastronomica italiana lui parla di “stranieri arrivati in Italia per masticare il territorio” e, anche solo ad ascoltarlo, non si può non fare caso al suo modo di comunicare: lo fa per immagini e, di conseguenza, con un lessico, ma soprattutto con una sintassi, fuori dall’ordinario. 

Dal privato al pubblico: il cammino verso la libertà

Come detto, bisogna considerare il fatto che siamo al cospetto di un uomo sostanzialmente libero. Come lo è diventato? Tramite la strada, lastricata di vincoli, limitazioni e costrizioni imposte della cultura: “conoscere tutto per dimenticare tutto” è una delle sue più celebri massime ed è per questo motivo che, tra le altre cose, la sua sintassi è tanto particolare. Della lingua, la sintassi rappresenta, infatti, proprio il vincolo, la gerarchia: solo chi ne conosce le regole può permettersi di aggirarle e, svincolandosi, liberarsene. È in questo cammino verso la libertà che s’identifica l’evoluzione dell’uomo, libero infine anche dal tempo: “nel mio futuro ci sarà sempre futuro”, dice a tal proposito, perché la prospettiva con cui guarda il mondo è ancora quella del bambino, o del sognatore, che poi sono la stessa cosa. Come fare, dunque, per restare bambini? Secondo lui, lasciando una finestra aperta all’inaspettato, e alla la bellezza, che sono i due antidoti per non perdersi nell’abbrutimento dell’automatismo, della quotidianità, della routine. “Uno spazio sempre aperto per l’inaspettato, come anche per l’errore, cogliendo il lampo di luce nelle tenebre insegna a vedere il mondo da una prospettiva diversa: non si tratta solo di un esercizio creativo o di raccontare una storia; si tratta di comunicare un messaggio, un credo, una rivoluzione, che permette di passare dal lavorare per la propria realizzazione personale a lavorare al servizio della società. 

La bellezza salverà il mondo

In questa prospettiva è nata la sua rivoluzione, da lui battezzata Food for Soul. E una prospettiva analoga, perché strettamente orientata verso la minimizzazione dello spreco, all’etica individuale e all’educazione civica abita anche ALMA. “Sono convinto – afferma lui richiamandosi a Gualtiero Marchesiche il bello e il buono siano due facce della stessa medaglia: l’uno non può fare a meno dell’altro.” Ecco dunque il segreto del cuoco, come dell’uomo: saper accogliere ed esercitare la bellezza che, come qualità estetica, impone una sensibilità disposta a riconoscerla. Una qualità salvifica, questa, perché una volta compresa, la bellezza, non si può fare a meno di esigerla a tutti i livelli dell’esistenza. È tramite la bellezza che si realizza la rivoluzione: “Per cui quel vi auguro, ragazzi, è di avere il coraggio di credere nella bellezza e nel cambiamento che essa comporta. Di portarlo avanti, questo cambiamento, con passione, impegno e immaginazione. Questo – conclude – è quello che ci salverà. 

La nouvelle vague passa per Trastevere…

Antonio e Ida, Ida e Antonio: coppia, compagni di vita, colleghi e complici. L’essenza di Zia Restaurant trova compimento in questo connubio che guida passo passo il commensale in ogni momento dell’esperienza a tavola. Ida Proietti è la sala, è il calore di una location studiata nei minimi dettagli (illuminazione bassa, forse troppo, inclusa), è il volto ed il sorriso di un servizio leggero, attento, discreto che non lascia nulla al caso. Ida è l’ultimo orgoglioso miglio di ogni piatto concepito e studiato assieme ad Antonio. Antonio Ziantoni, da Roma, dopo l’ALMA e passaggi in grandi cucine internazionali, tra cui Georges Blanc a Vonnas, Gordon Ramsay a Londra, torna nella sua città al Pagliaccio di Anthony Genovese. Qui cresce, affina tecnica ed esperienza, rubando con gli occhi i segreti della cucina dello chef. Giovane, determinato e ambizioso, tutte doti necessarie, ma non sufficienti, per lanciarsi nel sogno di una vita: aprire il proprio ristorante. Qui intervengono bravura, tecnica e umiltà: Antonio ha una chiara identità in cucina. 

Il mare e le colline laziali – ma non solo – in “salsa” francese 

La mano dello chef mostra solida tecnica francese a vantaggio di una cucina che non trascura il territorio dal mar Tirreno, alle campagne e colline laziali e, al contempo, diverte in un continuo gioco di consistenze, temperature e gusti. I “giochi” omaggiati della cucina per il benvenuto solleticano il palato e ben lasciano presagire quello che verrà. Il cono di battuto di ravanello e uova di salmone apre la strada alla personale idea di mozzarella dello chef: latte di capra, lattughino, crema di pistacchio di Bronte e vinegrette al cardamomo rappresentano uno di quei giochi dove acidità e dolcezze convivono armoniosamente arrotondate da una “inusuale” vinegrette. Non è da meno il cocomero con bitter e peperone, e sorprende per consistenza e gusto acido/dolce il filato di lime con polvere di barbabietola: qui si torna quasi bambini alla festa di paese!

Gambero rosso, rabarbaro e frutti rossi, poi animella, pomodoro e mozzarella per un continuo gioco di letizia persistente del palato e della vista. I piatti sono colorati, mai banali e centrati nel risultato finale che vuole rotondità di gusto in bocca con qualche momentanea spinta su un elemento specifico. Lo spaghetto come un’insalata è il piatto dell’estate: porta diritti in riva al mare con una sapida crema di cozze a far da complemento alla polvere di bergamotto, al dragoncello e alla star del piatto: la granita di ricci di mare.
A tavola arriva il pollo, ma non uno qualsiasi. È il ficatum – già in carta del “francese” Antonio Guida – un pollo ruspante nel vercellese allevato all’aperto con fichi secchi per il settanta per cento della sua alimentazione. Da Zia è servito con salsa albufera e fico caramellato: la materia prima agevola un gusto rotondo e dolce, intriga la consistenza e la morbidezza. Trait-d’union tra salato e dolce è un golosissimo macaron (ça va sans dire) con mosto cotto e foie gras.

La pasticceria? Antonio Ziantoni non ce ne vorrà, ma il suo pasticcere Christian Marasca merita il pari merito nella personale classifica della serata. Grandi dessert, grandi preparazioni ed equilibrati equilibrismi in dolci che hanno una non banale dose di personalità. Uno su tutti? Il tourbillon. Di emozioni, soprattutto!

La galleria fotografica:

Il giorno dell’esame

I ragazzi della 43° Edizione del Corso Superiore di Cucina Italiana sono in piedi dalle 6.00 del mattino. Oggi, per loro, finisce e incomincia tutto. 

Dopo 10 mesi di percorso formativo a Colorno, dopo lo stage, la discussione della tesi e la preparazione del proprio menù personale, oggi, sono alle prese con l’ultima prova d’esame: il Menù del Maestro. Due le preparazioni loro richieste: una imposta, uguale per tutti, l’altra sorteggiata: entrambe provenienti dal repertorio di Gualtiero Marchesi, Rettore di ALMA sin dai suoi inizi. 

L’adrenalina

A guidare la classe, esaminarne l’operato in presa diretta, orchestrarne il lavoro e supervisionarlo, ma senza intervenire o esporsi direttamente, c’è Bruno Cossio che, complici i suoi 8 anni di docenza al Corso Superiore di Cucina Italiana, ci spiega con un mezzo sorriso quanto l’adrenalina segua, in giornate come queste, un tracciato ondivago: “È quasi tangibile nella fascia oraria che va dalle 8.00 alle 9.30, poi c’è un calo, che è un calo fisiologico, per rimontare attorno alle 11.00 del mattino quando, alle 11.30, i piatti saranno portati in esame ai tavoli delle commissioni.

Il senso del tempo…

Sono le 10.00, adesso, ma dobbiamo ricorrere all’orologio del telefono perché quello appeso alla parete della cucina, lo facciamo notare, non si vede benissimo dalle postazioni. “Lo facciamo apposta: – controbatte Cossio – i ragazzi devono averlo infuso, il senso del tempo, acquisirlo anche senza vedere le lancette dell’orologio.” Una consapevolezza, questa, tanto essenziale nel mestiere dello chef da dover essere acquisita automaticamente. 

…e dello spazio

Allo stesso modo vige in ALMA un ordine di tipo spaziale. I ragazzi sono disposti in fila per due per ogni postazione e organizzati sulla base del rispettivo lavoro: “se uno ha una ricetta che, al sorteggio, è considerata semplice, sarà affiancato a un alunno che, dalla sua, avrà una ricetta più complessa.” La gestione dello spazio, però, non deve essere intesa solo in questa micro-costellazione di individualità che se lo dividono; lo spazio in ALMA non è solo mera condivisione del pass. I ragazzi, infatti, devono imparare a percepirsi come agenti di uno spazio che interpretano attraverso la materia prima che gli è toccata in sorte. “Si tratta di una forma di responsabilizzazione: in questo senso non si prescinde mai dal food cost che, in ALMA e speriamo anche fuori, deve essere loro sempre presente sin dalle prime lezioni di Tecniche di Base.” E, a questo proposito, sia messo agli atti che ALMA è l’unica scuola a valutare, dei propri ragazzi, anche l’etica. 

Il verbo del Mastro

Oltre a questi elementi, che sono elementi di base, appunto, oggi va in scena uno dei principi costitutivi della cucina di Gualtiero Marchesi: ovvero la natura di una cucina “espressa, cucinata sul momento sullo stile della nouvelle cuisine: tanto c’è sempre tempo, nella vita, per imparare a usare il Roner e il microonde” sorride sardonico il Professor Cossio, e non possiamo dargli torto tanto più in una giornata come questa dove a prendere forma nel piatto sono sì le sue ricette ma, soprattutto, una filosofia in cui l’estetica coincide col giusto: bello è buono, soleva dire lui, e così assistiamo a un’infilata di piatti che, nella loro veste formale, ne rispettano il codice estetico tramite una gerarchia di colori e di elementi.  

Il percorso individuale

Tutto questo accade senza prescindere, chiaramente, dal carattere di ciascuno. Si potrebbe infatti pensare a questi insegnamenti come dinamiche uniformanti e, alla lunga, spersonalizzanti. Niente di più sbagliato per chi, come, noi, ha sempre creduto che è nelle regole che risiede la libertà, nella disciplina l’astrazione. Uno dei mantra di ALMA è, da sempre, proprio il carattere e l’individualità di ciascuno dei suoi studenti, il cui percorso viene attentamente ponderato dal personale docente e, quindi, personalizzato e cucito sul carattere e le aspirazioni di ciascuno: “In Alma tutto parte da questo –  fa eco Cossio – anche la scelta dello stage viene fatta a partire dai loro sogni. Se uno vuole aprire un ristorante di pesce in riva al mare, per fare un esempio, non lo manderò di certo in stage a Bolzano…

Il Coaching della Next Generation Chef  

Nell’assenza risiede l’essenza delle cose. No, non si tratta di uno degli esercizi spirituali di Ignazio da Loyola anche se, a onor del vero, c’è molta spiritualità nella storia che stiamo per raccontarvi. 

Nel tentativo costante di approfondire la conoscenza dei propri alunni ALMA, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana, ha nel tempo elaborato una forma di intelligenza emotiva, la stessa richiesta ai suoi alunni, peraltro, che le ha imposto di considerare ogni classe come un organismo vivente: un organismo collettivo fatto da un insieme di persone che, cooperando tra loro, partecipano del benessere dell’organismo tutto. 

A pensarci bene, è questa l’essenza stessa di qualunque gruppo ed è a maggior ragione quella della cucina, soprattutto della cucina professionale. Eppure, mancava ancora qualcosa: c’era la necessità di sottrarre qualcosa alle dinamiche, molto esigenti, della Scuola e, per due giorni, ritirarsi lontano dal mondo accademico, lontano dalla tecnologia, lontano perfino dalla cucina.

Così è nato il Coaching della Next Generarion Chef: ovvero due giorni di camminate, escursioni, lezioni di botanica, foraging e momenti di collaborazione con gli allevatori locali. L’obiettivo? Secondo Matteo Berti, Direttore Didattico di ALMA “entrare in un territorio da cuochi, e uscirne da uomini.

Diventare se stessi

Gli allievi ci arrivano intorno ai tre quarti del Corso Superiore di Cucina Italiana: viene chiesto loro di svestire gli unici panni che conoscono, gli unici coi quali noi li conosciamo, la divisa del cuoco, e di essere semplicemente se stessi“, continua Berti, subito incalzato da Fabio Amadei, Docente di Storia della Cucina il quale, con Novella Bagna, Docente di Analisi Sensoriale, sentì per primo l’esigenza di ordire qualcosa di simile: “In questo modo noi li spogliamo della cucina: per conoscerli davvero, che è il nostro obiettivo, dobbiamo chiedere loro di non fare i cuochi, di uscire dal ruolo: l’obiettivo didattico è un avvicinamento tecnico al territorio, ma l’obiettivo formativo è quello di farli lavorare su stessi.

Eppure, precisa Andrea Sinigaglia che, di ALMA, è il Direttore Generale, ciò non riguarda solo loro: “Anche noi lo facciamo: anche il corpo docente deve farlo per recuperare un rapporto umano e, tornando all’essenza, alla sorgente del cibo, capire dove stiamo andando, e come. Si tratta di un modo molto efficace di comprendere cosa stiamo facendo: non possiamo pensare di fare didattica come la facevamo anche solo 5 anni fa. Ma per farlo al meglio avevamo bisogno anche in questo di professionisti.” Così è arrivato Nicola Chighine, di Stra-le. 

La mia storia, la nostra storia

Chighine ci racconta che “in un un’ottica di costante attenzione allo sviluppo formativo dei propri studenti, ALMA si è rivolta a noi per progettare un team building avente un duplice obiettivo: da un lato lavorare sullo sviluppo della consapevolezza da parte di ciascuno, dall’altro lavorare assieme per migliorare la competenza che chiamiamo team working. Ovvero il lavoro di gruppo. Così sono nate queste due giornate, altamente esperienziali, che abbiamo intitolato La mia storia, la nostra storia, che abbiamo elaborato per aiutare i ragazzi a concentrarsi su se stessi: in poche parole, li stimoliamo a domandarsi perché hanno fatto questa scelta, con quale grado di consapevolezza: domande come “dove voglio arrivare”, “che cucina voglio fare” ma, soprattutto, “quali valori voglio trasmettere”, “che chef voglio essere” diventano essenziali.”

L’habitat naturale

Ascoltarsi, stare in silenzio” prosegue Amadei “è qualcosa che capita assai di rado nel corso della vita e, men che meno, nella vita professionale di uno chef; per questo era così importante che ad ospitare questo ritiro fosse un habitat molto differente da quello, sostanzialmente di pianura, della Scuola in cui i ragazzi si muovono: per questo li portiamo in alto, sull’Appennino tosco-emiliano nei pressi di Ligonchio in estate e, in inverno, al mare, sulla Costa ligure di Levante. In un caso familiarizzano con gli allevatori di api, ovini e bovini, nell’altro con quelli dei mitili. Così, nel contatto diretto con la natura, l’individuo si costituisce e, lavorando assieme, crea empatia.

La location è sempre scelta sulla base di un luogo significativo – ci spiega  Matteo Berti –  la giornata incomincia con dei lavori di gruppo, quindi c’è un’uscita: una lunga camminata assieme, il confronto coi produttori locali. Alla sera, chiudiamo sempre con una grigliata: non la organizziamo noi, ma chi ci ospita: questo è essenziale perché non dobbiamo tornare a fare i “cuochi”, non è richiesta alcuna performance culinaria.

Sulla luna, in bicicletta

Secondo Andrea Sinigaglia, Direttore della Scuola, la contemporaneità ha un problema: “Dal punto di vista dei contenuti i ragazzi di oggi sono informatissimi; per utilizzare una metafora illuminata di Ernesto Iaccarino, possono andare sulla luna, ma non sanno più andare in bicicletta” e non è un caso, racconta Amadei, “che tutti si meravigliano di come si munga una pecora, o del contatto con le api per fare il miele. Il tutto va a incrementare la loro consapevolezza, di sé stessi e della materia: è questa l’etica di fondo della nostra Scuola.

Imparare tutto e – come dice Massimo Bottura – dimenticarlo!

E ciò non vale, s’è detto, solo per gli studenti. “Il Coaching rappresenta un vero e proprio polmone per il Corso Superiore di Scuola di Cucina Italiana: l’esperienza di ALMA è infatti molto intensa – riconosce Sinigaglia – in pochi mesi c’è una concentrazione di nozioni, una stratificazione di conoscenze, di esperienze, altissima. Anche il corpo docente è esposto alla trasmissione di questo sapere e, così facendo, rischia di perdere il contatto con l’individuo, con la persona. Per questo abbiamo capito che, a un certo punto, era essenziale staccare: uscire dai ruoli, cambiare repentinamente ambiente e, dalla pianura, elevarci, guardarci da un altro punto di vista. Dall’alto: dimenticandoci chi vogliamo essere, per essere semplicemente ciò che siamo.