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Larossa

Un’immersione nelle Langhe, con un occhio all’Oriente e al sud America

Fresco di riconferma della prima stella Michelin conseguita nel 2017, Andrea Larossa – cresciuto professionalmente sotto l’ala di Carlo Cracco – continua il proprio percorso culinario in maniera programmatica: sposare la tradizione al fine di valorizzare gli ingredienti delle tavole piemontesi, avendo però uno sguardo volto all’assimilazione di elementi di altre culture (Giappone e Messico in primis) così da ottenere una koinè culinaria quanto più audace e interessante.

Nella nostra visita abbiamo optato per il menù “Gastronomico”, trovando una realizzazione binaria che se ci ha convinti nella prima parte ci ha lasciato qualche dubbio nella seconda.

Se l’intento dello chef albese era chiaro già dalla descrizione del menù, che specificava la messa in opera delle “idee più creative e gli abbinamenti più particolari”, è pur vero che nell’esperienza complessiva questa stessa intenzione si è vista in maniera discendente.

Una degustazione a due facce

Nella prima parte dell’esperienza, almeno tre piatti si sono rivelati notevoli. In primis, Mare d’autunno, con un gioco di delicati accordi tra le consistenze degli elementi, a cui il cavolfiore ha fornito una croccante interruzione atta a valorizzare lo champonzu e la lunghezza del gorgonzola. A seguire, Taco di Langa, in cui la rotondità della lingua di Fassona cotta a bassa temperatura è stata esaltata dalla bagna cauda per garantire, di nuovo, una notevole lunghezza finale tramite la tostatura della farina di mais messicano del taco. In terza istanza, Spaghetti alla puttanesca, di gran lunga la portata migliore della serata: piccolo gioiello di tecnica, il piatto si è elevato ad attore protagonista grazie all’ottovolante gustativo fornito dall’incontro tra la sapidità dei capperi disidratati, la dolcezza dei pomodori canditi, la nota amaricante della polvere di cipolla e la persistenza della pasta al peperoncino. Un piatto cosmopolita e intrigante. Semplicemente ottimo.

Purtroppo, nella seconda parte del percorso abbiamo riscontrato una flessione discendente rispetto ai risultati della prima metà, in particolare nelle ultime due portate. Il Controfiletto di renna si è rivelato, ahinoi, un piccolo insuccesso: dall’impiattamento rivedibile, la portata ha palesato una sovrabbondanza gustativa data dalle tre maionesi e del burro di arachidi, che ha annullato la presenza dell’ottima carne.

Ciò detto, e al netto di altri passaggi da mettere a fuoco, come il dolce Nevoso, la splendida sala è il luogo di Patrizia Cappellaro, compagna di vita del patron, coordinatrice di un servizio di squisita precisione e puntualità.

Confermiamo quindi il voto della visita precedente, augurandoci un pizzico di equilibrio in più nel complesso delle future degustazioni al fine di valorizzare a una tavola che, ne siamo certi, potrà dare ancora tanto nei prossimi anni.

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A Guarene brilla un giovane cuoco che ha molto da raccontare

A due passi da Alba, sulle adiacenti colline, un meraviglioso relais è il palcoscenico di un’esperienza gourmet a tutto tondo; un ambiente raffinato e luminoso e una carta vini profonda con una particolare attenzione al biodinamico, si fondono con una proposta gastronomica matura. Il coreografo è Michelangelo Mammoliti che porta sulla tavola de la Madernassa il suo Piemonte, ma non nella più classica delle versioni, piuttosto, aggiungendo note, sapori e consistenze che vanno ad esaltare le materie prime locali creando piccoli singoli gioielli. Si intuisce di essere seduti ad una grand table con l’arrivo degli amouse bouche: non si può non restare affascinati dal susseguirsi di queste dieci miniature di piatti ciascuna con un’identità e una storia da narrare.

Assemblage al tavolo: un leitmotiv studiato e riuscito

La Salamoia marina, dove i gamberi di Sanremo vengono completati al tavolo con l’aiuto di due piccoli tegami: di coulis di teste di gambero uno, di salamoia l’altro, dove il crostaceo lascia protagonista la muria. L’atto di completare al tavolo le portate sarà il filo conduttore del pasto e se ad un occhio poco attento potrebbe sembrare ripetitivo, altro non è che l’elemento signature (come potrebbe essere il menu Tutto Brodo di Andrea Berton) di un cuoco che, così facendo, ci trasporta in un viaggio per il mondo dalla Francia all’Asia fino alle Americhe, mantenendo equilibrio e coerenza nel percorso.

A questo proposito si potrebbero citare La Giardiniera, composta da fagiolini ostrica e mousseline per la dirompente spinta acetica, il Peperone di Capriglio per ricordarci la fortuna di vivere in queste terre oppure il Germano Reale per grazia e leggerezza, il concetto che ne sta alla base è il medesimo: solidità.

Si arriva all’atto finale con un pre-dessert definito Essenziale, che con fava di tonka, cacao e nocciola rimanda all’infanzia mentre gustiamo pane e Nutella e ci prepara il palato per quella che sarà l’ultima nota di questa esperienza, PH3, un sorprendente tributo al citrico dove gli agrumi sprigionano tutta la loro maestosa fragranza e complessità.

Arriva infine una piccola pasticceria che appaga la vista e il palato, per un ultimo sguardo a questa cucina  nei confronti della quale abbiamo solo un rimpianto: non aver visitato l’orto, fucina delle molte erbe aromatiche sempre presenti nei piatti.

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Solida identità langarola

Che l’essenza più dritta, solida e granitica, per non dire marnosa, delle Langhe alberghi anche in questo mite comune della provincia di Cuneo, è cosa ormai nota.

A contribuire alla costruzione di questa identità, frutto di un impegno individuale che, stratificato negli anni, compone l’immaginario collettivo, c’è senza ombra di dubbio anche Gian Piero Vivalda il quale, con costanza e abnegazione, ha messo a punto una gioiosa macchina da guerra che, sin dall’accoglienza, mette al centro della propria orbita il suo ospite, soggetto e oggetto di un’esperienza umana prima ancora che culinaria. 

Un’esperienza senza tempo

Va detto subito che si tratta di una tavola, la sua, molto divulgativa e talmente eloquente, nel suo mix di classicità e grandezza, da non aver nemmeno bisogno di dichiarare i suoi prodromi, di lapalissiana scuola francese anche nel servizio, in una sala cadenzata alla perfezione e nel cui rapporto si innesca un’armonia tanto perfetta da essere, per appunto, sempiterna come in quegli storici ristoranti francesi di provincia, che difatti ricorda.

Mancavamo da tempo e con piacere abbiamo ritrovato, in un locale pieno, una cucina più accurata, e audace al punto da fare ricorso a risorse provenienti da tutta Italia; una cucina filologicamente ineccepibile e prodiga di quegli accorgimenti che la alleggeriscono, attualizzandola e mantenendola, al contempo, intatta.

Filologia culinaria

Altresì rispettata è la validità di preparazioni scrupolosamente improntate a una rigorosa aderenza territoriale. Preparazioni nitide nei sapori, golose ma non monocordi e stucchevoli, che rendono pienamente omaggio alla storia che rappresentano, una storia sabauda gloriosa e memorabile, che difatti encomia in piatti memorabili come il capretto allo spiedo, l’anguilla alla royale, i ravioli di gorgonzola e pere o il divin tegame di lumache di Cherasco e porri di Cervere, che rappresentano solo alcune delle copiose sollecitazioni palatali, e intellettuali, che qui si ha la fortuna di esperire.

In questo contesto non poteva mancare una lode alla cantina, capace di soddisfare le più disparate esigenze, e un’altra ancora al già citato servizio, degno oggi di una grande maison.

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Ad Alba una nuova rinascita, nel solco dello stile sempre personale

Il cuoco-Samurai, tra gli allievi prediletti del maestro Marchesi, ha compiuto un altro salto verso il cielo. Ha sviluppato nel menù Mo(vi)menti, con quella “vi” tra parentesi che apre a mille significati, una serie di colpi da K.O. tecnico rendendo protagonisti ingredienti quali riccio di mare, barbabietola, cetriolo, radicchio e merluzzo. Nomi brevi, asciutti e concisi in perfetto stile kaiseki, che identificano l’ingrediente principale su cui Enrico Crippa costruisce una sinfonia di variazioni di gagnairiana memoria. L’ispirazione del piatto principale accompagnato da satelliti è la medesima del cuoco transalpino, ma il contenuto è assai diverso. La differenza sta nel fatto che Pierre Gagnaire improvvisa, dematerializza il concetto di variazione a favore di un’interpretazione totalmente jazz dei comprimari, che a tratti, molto spesso, diventano protagonisti più della portata principale, a cui dovrebbero asservire ma che molte volte schiavizzano il protagonista, in una rincorsa egotica davvero interessante.

Esaltazione dei piatti satelliti, della materia prima vegetale e di quella dolce

Un concetto simile ed articolato anche in queste variazioni del cuoco albese d’adozione, in cui troviamo un grande piatto principale nel riccio, favoloso in abbinamento al pecorino, ma in cui i due satelliti Sorbetto di ricci di mare e lardo e Mandorla e ricci di mare (sorbetto alle mandorle e ricci di mare ghiacciati) sono decisamente sopra ogni aspettativa. Così come nel cetriolo in cui il riso soffiato e la salsa bernese verde sono un capolavoro assoluto. Il  merluzzo salato da noi e cotto a bassa temperatura ricoperto con sfoglia di patate, funghi e salsa di funghi – in cui il merluzzo in tutta la sua declinazione è decisamente stupendo – è seguito da Porcini a lamelle e polvere di anice, Cialda di riso allo zafferano e funghi al prezzemolo, Brodo di funghi da bere. Imperioso e imperiale. Difficile e a tratti discontinua la variazione-esaltazione della barbabietola, interessante e stimolante il radicchio. Molto vivace e intrigante la zucchina: servita in albume croccante, tuorlo morbido e spaghetti di zucchine in carpione, Bijoux al Parmigiano e Zucchina al brusco (zucchina al vapore e salsa bernese).

Un intreccio di classicità transalpina, finiture nipponico-orientali con un uso sapiente e continuo delle erbe. Uno stile ormai tutto personale, decisamente di impronta unica, che ci ha convinto molto, questa volta anche sul versante dolce con due capolavori come il Monviso, rivisitazione della nocciola e dintorni, e un assoluto Profiteroles, un’interpretazione post-moderna davvero fenomenale.

Molto buono anche il  Vacharin alle fragole: cilindro di meringa ripieno di sorbetto alle fragole e spuma di latte di mandorle, spolverato con polvere di yogurt. Il tutto coronato da un servizio – capitanato dall’immenso Vincenzo Donatiello – simpatico, giovane, dinamico, preciso come un orologio svizzero di grande classe e che non ha dato il minimo accenno di esitazione.

Un grande ristorante, un grande cuoco, un grande maître che si confermano ancora una volta.

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Rigore tecnico giapponese e sensibilità territoriale per l’alta cucina langarola del Piazza Duomo di Alba

Mai una sosta. Mai un segno di cedimento o un accenno di volersi adagiare sugli allori. Nella cavalcata inarrestabile di una delle cucine più estrose, vive e tecnicamente evolute dello Stivale.

Enrico Crippa, il “cuoco samurai” delle Langhe, è in grande forma e l’esperienza a tavola sottolinea lo stato di grazia del suo lavoro e di tutta la squadra del ristorante Piazza Duomo. Sono scesi a pioggia, negli ultimi anni, nuovi e ambiti riconoscimenti nazionali e internazionali, ma nulla di tutto ciò ha potuto scalfire la costanza creativa e la produttività di questa insegna, situata nel cuore di Alba.

Rigore e dedizione.

Crippa si conferma un cuoco vero, stakanovista ai fornelli: sempre presente in cucina, sempre sul pezzo, costantemente a contatto con le sue amate verdure, provenienti ormai al 100% dall’orto con serra curato in maniera certosina dalla famiglia Ceretto. Un “parco giochi” confezionato in maniera sartoriale, che rilancia in chiave significativa l’amore e la sensibilità estrema dello chef per ogni elemento del suo ecosistema vegetale (eredità di Scuola Michel Bras).

Tra mille varietà di erbe, ortaggi, frutta e verdure dimenticate, la cifra stilistica di Crippa trae linfa espressiva perpetua, generando esercizi che gravitano con eleganza tra tonalità pacate, acuti contaminati e contrasti accesi, riassumendo sempre esemplare chiarezza e pulizia gustativa. Una sintesi perfetta tra sapori langaroli e tutto il fascino del rigore orientale: abilità, polso e pensiero, armonizzati con una padronanza tecnica che pochi cuochi possiedono. Costruzioni di equilibrio minuzioso si sommano ad un’estetica impeccabile, senza sottrarre spazio al gusto.

Una cena strepitosa, una continua conferma

Impressionante (per volume di assaggi e per esecuzione) la batteria di piattini dell’Antipasto all’Italiana: una sequenza a raffica di mini-preparazioni che sovrastano il tavolo dei commensali, partendo dalla logica di nobilitare un gesto classico e conviviale in una futuristica visione attuale. Un crescendo di note erbacee e iodate, improntate su leggerezza e delicatezza, si susseguono per approdare alla sostanza sfrontata del tramezzino finale, con una sorta di bloody mary a tonificare e pulire il palato. Evoluzione e crescita applicata a tutto, anche ai grandi classici: l’assaggio elettrizzante di Mandorla e ricci di mare rinvigorito dalla cialda al wasabi e dal finto involtino di lattuga, alghe e maionese di ricci, da apprezzare con le mani; o ancora l’eleganza pungente dell’Insalata di uova e uovo (caviale, tuorlo marinato, cagliata di latte e brodo di merluzzo). L’oriente viaggia poderoso in background insieme allo spirito langarolo, facendo capolino nei colpi di classe, assestati con destrezza: profondità e ritmo nella Zuppa di olio e semi di vinacciolo, con verdure alla piastra, uovo di quaglia pochè, cumino, spezie e peperone di Senise bruciato.

Sorprende sempre, pur essendo una conferma, l’abilità nel trattare le carni, in cui il tocco classico è proiettato coerentemente al moderno, come nel Cuscus di riso fritto servito con pancia di agnello scottata, costolette di agnello glassate, funghi e brodo di funghi da sorseggiare in un dinamico mangia e bevi.
Novità anche dal comparto dessert: un’Insalata di spaghetti, pomodoro burrata e basilico in veste di sorbetto del nuovo millennio; per poi atterrare nel seducente Cannolo di bietola, crema di ricotta alla cioccolata, pistacchio, arancia e sorbetto di acacia.

Crippa sembra aver raggiunto una pace dei sensi che fa apparire tutto facile, anche se naturalmente facile non è: merito anche del suo formidabile alter ego di sala, Vincenzo Donatiello. Vero fuoriclasse e mattatore, dal profilo appassionato, che rilancia l’operato in cucina conservando leggerezza, competenza e rara professionalità applicata al dettaglio.

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