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Geranium

Un tristellato allo stadio, solo a Copenaghen

Rasmus Kofoed ha avuto una carriera folgorante. Primo tristellato danese della storia, riconoscimento ottenuto nel 2016, è stato ancor prima vincitore del Bocuse d’Or e, in precedenza, due volte secondo e terzo (rispettivamente medaglia d’argento e di bronzo). Eppure Rasmus, che il giorno della nostra visita non era presente, deve avere un carattere e un atteggiamento davvero esemplare. Lo si intuisce nel clima che si respira qui, all’ultimo piano dello stadio comunale di Copenaghen, luogo inusuale per un ristorante di fine dining e che è al contempo professionale, impegnato e dedizioso. Ma l’aria che si respira è anche di totale complicità tra i collaboratori, che ridono, scherzano durante il servizio, alcuni ballano sulle note delle molte canzoni che fanno da sottofondo alla vostra piacevole esperienza.

Sostenibilità ed ecologia, non solo nel piatto

Una gentilezza, un pathos, una empatia tutt’altro che di facciata. Perché il pensiero e la filosofia del capo è che di ecologico e sostenibile, oltre che organico, non ci devono essere solo i prodotti, ovvero la materia prima cucinata. Sostenibile ed ecologico deve essere anche l’ambiente lavorativo, il modo di viverlo e di sentirlo. Ecco quindi che i servizi sono 8 alla settimana, da mercoledì a cena a sabato a cena. 3 giorni di riposo (domenica, lunedì e martedì). E non è raro vedere Rasmus che alle 16.00 abbandona il locale per andare a prendere i figli a scuola. E tutto ciò per noi è un valore, un grande valore. Che necessariamente si trasferisce nell’anima dei piatti e delle preparazioni servite.

Ma parlando più precisamente e dettagliatamente della cucina di Rasmus Kofoed  e del suo Geranium è facile travisare l’estremo manierismo, la perfezione delle forme e delle cesellature dei piatti e delle guarniture con una fredda e distaccata anaffettività gustativa. I piatti sono sottili, finissimi, con sapori mai troppo marcati, mai eccessivi, mai debordanti. In puro stile Bocuse d’or tutto quanto è appena sussurrato, e finissimo. Ma non si confonda con l’evanescenza. Piuttosto con profilo gustativo molto elegante e mai in eccesso ma che in molti casi arriva ad avere una profondità di gusto e una variabilità davvero sorprendente. Basta poi guardare alcuni piatti (i cannolicchi ricostruiti, il nasello, le foglie stilizzate di aperitivo) per ritrovare in molti illustri colleghi, anche italiani, alcuni spunti di ispirazione evidente.

Ciò significa che questa cucina è tutt’altro che manierista, sarebbe questa, anzi, una visione alquanto superficiale. E ci è molto piaciuto il rito, l’accoglienza, la discreta confidenza di una sala che trova in Mattia Spedicato, nostro conterraneo che si è fatto onore in Danimarca, un grandissimo interprete e protagonista. I piatti che ci hanno più impressionato ? Sedano rapa e tartufo nero, i semi di zucca con il caviale e l’uovo con le cipolle.

Andateci! Ne rimarrete estasiati.

La galleria fotografica:

Pecora Negra: la pizzeria del cuoco n. 1 al mondo per la World 50 Best

Mauro Colagreco, con una folgorante carriera, è diventato indiscutibilmente il cuoco di punta nella sua nazione d’adozione, la Francia. Tra gli altri, i più importanti riconoscimenti sono la prima posizione nella classifica della World 50 best e le tre stelle dalla Guida Michelin, riconoscimenti che lo hanno proiettato nell’olimpo dell’alta gastronomia.

Siamo stati tra i primi a visitarlo, in quell’ormai lontano 2006, quando decise di lanciarsi in una impresa folle – ma la follia è uno dei tratti distintivi dei grandi uomini – aprendo il suo ristorante, il Mirazur, a un passo dal confine italiano.
Mai stanco, mai soddisfatto, sempre sorridente e disponibile, Mauro Colagreco ha da poco aperto anche una pizzeria sul lungomare di Mentone perché, non dimentichiamolo, nelle sue vene scorre sangue italiano. Un’altra scommessa azzardata, rischiosa, ma, come tutte, vinta a mani basse.

Una pizza fragrante quella del Pecora Negra, con un punto di cottura ottimo e una stilistica che la fa assomigliare alla pizza di Stefano Callegari di Sforno. Cottura lievemente pronunciata, lievitazione perfetta, condimenti di qualità appropriati. E prezzi coerenti.

Un plauso a Colagreco, per aver creato un secondo locale di grande successo, che propone una pizza veramente molto buona, appena oltre il confine.

La Galleria Fotografica:

“La vita è movimento. Nulla è statico o assoluto. Nessuno è. Siamo in uno stato di flusso costante, proprio come la terra, le maree, i batteri, la luce, il sangue nel nostro corpo, i colori, i semi”.

Si può partire da questo assunto per raccontare la storia dello chef Mitsuharu e del suo ristorante Maido, a Lima, che gioca sull’incontro incessante di culture a lui appartenenti, propulsori di suggestioni e stimoli necessari alla propria realizzazione personale messa al servizio dei clienti. In questo gioco personalissimo di emozioni e memorie, Mitsuharu si concilia con un modus vivendi che ha origini ottocentesche, riscoprendosi esploratore di un mondo già conosciuto, che si esplicita sotto forma gastronomica con la cucina Nikkei.

Alla fine dell’Ottocento infatti, migliaia di giapponesi iniziarono a trasferirsi in Perù stipulando particolari contratti lavorativi biennali. Il loro lavoro era principalmente d’ausilio nella produzione di canna da zucchero. Al termine dei due anni, molti di questi emigrati decisero di restare in Perù integrandosi con la popolazione locale e costruendosi la propria famiglia. Al servizio della stagionalità, questa comunità nipponica iniziò a creare un nuovo corso gastronomico che vedeva l’innesto dei cibi locali nella tradizione culinaria giapponese.

Il passo per rendere questa cucina di commistioni al servizio di grandi chef fu molto breve. In principio fu Nobu (Matsuhisa), poi ci fu l’innamoramento dei fratelli Adrià che con l’eccezionale Pakta la fecero scoprire agli europei, senza dimenticare i profeti in patria di cui Mitsuharu fa parte.

Situato a Miraflores, uno dei quartieri più ricchi e sicuri della capitale peruviana, Maido è un limpido esempio di come un ristorante che fa grandi numeri possa riuscire in preparazioni tecnicamente di buona qualità. L’accoglienza, il caos dell’ambiente, la semplicità di approccio sono la cornice ideale di un locale che fa dell’onestà culinaria un suo dogma. Grande materia prima al servizio di tecniche di lavorazione ineccepibili, qualche volta però non supportate adeguatamente dal gioco di equilibri gustativi, sempre cercati ma non sempre trovati. È così che, dopo passaggi davvero notevoli come il wagyu stufato per cinquanta ore, il nigiri di animella o il saguchito de paiche, si rimane se non delusi quantomeno perplessi all’arrivo di piatti poco fini palatalmente e con una vena sapida davvero troppo accentuata.

Questo saliscendi emozionale, che lascia interdetti visti i picchi altissimi toccati in qualche occasione, è supportato da un servizio svelto e da un ritmo imposto dalla cucina decisamente serrato. Il tourbillon creato e percepibile all’interno di Maido, che in giapponese è la forma d’espressione più alta per indicare il concetto di accoglienza, si riaggancia all’idea di onestà già emersa in precedenza, in cui l’errore tecnico da parte della sala e l’armonia all’interno del piatto non sempre trovata, sembrano passare in secondo piano rispetto al clima unico e gradevole che il ristorante nel suo insieme sa offrire. Non è un caso che ancor prima di entrare a far parte della prestigiosa classifica 50 best, Maido riscuotesse un ottimo successo da parte di critica e pubblico.

Come già riscontrato in altri grandi ristoranti del Centro e Sud America, anche Maido dà l’impressione di riuscire ad esprimere le proprie potenzialità in maniera ancora molto inibita. Nel complesso però la tappa è consigliata e il ricordo è quello di una bella cena, seppur con qualche complessità di troppo. Il movimento gastronomico sudamericano sta crescendo, facendo passi da gigante. È lecito e d’obbligo quindi concedere e sorvolare su qualche errore, nello specifico da parte della sala, che nel vecchio continente sarebbe ritenuto inammissibile.

Il dettaglio in evidenza del riconoscimento della 50 Best.

50 best,Maido, Mitsuharu Tsumura, Lima, Perù

Pelle croccante di pollo con salsa Pachikay.

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Senbei di riso, choirizo, platano grigliato e emulsione di sachatomate. Boccone goloso e dai sapori spinti.

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Churos (servito con lumaca gigante dell’Amazzonia, churo alla soia e spuma di dale dale, un tubero dal sapore tra patata e rapa). Piatto cult, dai sapori tendenti al sapido-iodato.

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Sanguchito de paiche, ovvero un pesce di acqua dolce di grande pezzatura (pane al vapore, chicharron di paiche, criolla de lulo). Un boccone da urlo. Temperature e consistenze millimetriche.

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Ceviche selva (gamberi, sgombri, leche de tigre e tagliatelle di cuore di palma). Piatto ricco di sapori.

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Chancho con yuca (pancia di maiale grigliata con manioca e riduzione di ramen e cocona). Altro piatto non finissimo, ma dall’alto tasso di golosità.

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Sacha soba (spaghetti di soba con sachapapa, aderezo rojo – sorta di vinegrette – vongole e granchio crudi). Qui il livello è altissimo, sia in termini di lunghezza gustativa che di trattamento della materia prima.

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Nigiri con entrana con uovo di quaglia e ponzu.

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Nigiri con animella. Eccezionale.

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La panoramica di entrambi.

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Gindara (cotto nel miso, casho fermentato, castagne grigliate, crema di patate sangre de toro). Piatto notevole che ricorda il black cod anni ottanta di Nobu ma anche un piatto identico assaggiato al Pakta.

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Da vicino.

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Asado (wagyu cotto per 50 ore, tuorlo d’uovo, chaufa de cecina, ajicito de la selva). La consistenza della carne è tenerissima all’interno. Salsa agrodolce tirata alla perfezione.

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Cacao (cioccolato al 70%, yuzu, gelato di shicashica, mochi, castagna e terra di cacao). Buono ma dal sapore già noto.

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La brigata al lavoro.

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Gelinaz! è un parto deflagrante, innovativo, geniale nato dalle menti di Andrea Petrini e Fulvio Pierangelini. Cos’è, ma sopratutto cosa è diventato lo lascio spiegare alle parole usate dall’amico Nicolò Vecchia in questo articolo.

In sintesi 40 cuochi da tutto il mondo si scambiano, in segreto, le cucine per una serata fuori porta. Quest’anno l’evento, avvenuto il 10 novembre 2016, è partito in contemporanea in tutto il mondo. Ogni cuoco non sa che poco tempo prima dove dovrà andare, e per una settimana cercherà di conoscere a fondo la brigata, lo stile di cucina, i fornitori di ingredienti del suo collega, spesso ubicato dall’altra parte del mondo. Ecco quindi Bottura a Londra, Niko Romito in Perù e Riccardo Camanini a Copenhagen… e noi, al lido 84 di Gardone riviera ad accogliere Zaiyu Hasegawa del Jimbocho Den, ristorante kaiseki contemporaneo già visto su questi schermi.
L’iniziativa è coordinata in ogni luogo da un Ambassador, presente in ogni location, che nel nostro caso è il grandissimo solista jazz, un pò funky ma anche tremendamente rock Paolo Vizzari.

Una serata divertente, che Zaiyu ha interpretato nel migliore dei modi possibili:

Giorno 1: ci racconta il nostro Ambassador, interamente trascorso a degustare tutta, e ribadisco tutta, la carta di Riccardo Camanini al Lido 84.

Giorno 2: 14 ore ininterrotte a conoscere i fornitori e le loro storie.

Giorno 3: prima sperimentazione di menù contaminato.

Giorno 4: messa in onda dello shuffle

Hasegawa ci ha letteralmente sorpreso e sconvolto. Al rigore e alla pragmaticità tipica del suo popolo unisce un’anima profondamente artistico-genialoide, oltre che scanzonata e irriverente, che ha contaminato e contagiato tutti i commensali. Tanta tecnica, tanti passaggi raffinati, sopratutto di pensiero, ma anche di gusto.

Gli spaghettoni con quel lieve profumo di sake li ricorderemo a lungo, come difficilmente scorderemo una guancia in cui la salsa imperiosamente stagliava per la sua profondità e intensità. Divertentissimo il caffè-affogato al tartufo, vero colpo da maestro. Così come l’uso della vescica per cuocere dei tuberi, da aggiungere, con la loro salsa grassa e persistente, ad un insieme di foglie e di frutti della terra in diverse strutturazioni e cotture.

Ma lasciamo spazio alla geniale e scanzonata interpretazione della cucina del Lido 84 di Riccardo Camanini da parte di Mr. Zaye Hasegawa…

Il manifesto…
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L’arredo originale, come del resto la cucina, di Casa Camanini… in sfondo si scorge la preghiera Zen dedicata all’evento da Zaiyu San.
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Monaka, una tipica merendina pop giapponese fatta solitamente con ripieno di crema di azuki e castagna, qui in versione Haut de gamme… al foie gras e castagne.
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Il pane, straordinaria prima contaminazione, prodotto con la ricetta di Riccardo Camanini. Unica aggiunta, invece dell’acqua per l’idratazione, un leggero dashi powered by Hasegawa.
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Ravioli di funghi, brodo dashi di funghi e colatura di alici, polvere di funghi, yuzu.
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Tartare di persico e gamberi gobbetti, cavolo cappuccio, wasabi. Notare la simpatica rievocazione della bandiera giapponese.
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Radice di wasabi.
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Spaghettoni come Riccardo: burro e bottarga di Zaiyu al sakè.
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Marchesi del Lago: riso, stracchino, anguilla, sansho e unagi.
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Sorpresa… fasto food!!!
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Coscia di pollo fritta ripiena di polenta taragna.
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La fantastica Lido/Den salad con cacio e pepe in vescica… omaggio alle fattorie italiane.
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Guancia marinata alla soia, mirin e sake…
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Caffè Starbucks, con tartufo.
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Il torrone.
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