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Mikachan

Un devoto e sincero omaggio alla gastronomia del Sol Levante

Un grosso equivoco mediatico, a proposito della ristorazione, è spesso rappresentato dall’improprio utilizzo del termine “etnico”, foglia di fico dietro cui spesso, o comunque troppo spesso, si celano approssimative velleità imprenditoriali. Micaela Giambanco, fulminata diversi lustri fa sulla strada di Damasco, anzi di Tokyo, dove si era recata per perfezionare la nobile arte del karatè, sublima il concetto di etnico attraverso la propria divorante ammirazione per un popolo e per una cultura altra. E lo fa con un appassionato lavoro che non si risolve in una semplice mimesi bensì in un devoto e sincero omaggio alla gastronomia del Sol Levante.

I piatti della sua proposta, mutuata dal format dell’izakaya giapponese, la trattoria dove i nipponici trascorrono in un clima informale la serata dopo la giornata lavorativa tra piccoli assaggi, preparazioni più elaborate e zuppe sono accomunati, infatti, da cura e attenzione assolutamente lodevoli. In quello che può infatti essere definito un “one woman show” la Chef, praticamente da sola, persegue quella qualità che rende assolutamente ragionevole il tragitto che porta all’Infernetto, quartiere situato nel quadrante sud di Roma, in prossimità di Ostia, e soprattutto i lunghissimi tempi di attesa per prenotazioni che richiedono facilmente programmazioni di alcuni mesi prima. Ci troviamo infatti in un locale dotato di un’unica sala, non troppo ampia, dove hanno luogo soltanto cinque servizi serali a settimana, più uno domenicale a pranzo, caratterizzati da una cucina quasi interamente espressa.

Cucina che viene gestita, come detto, dalla multitasking Micaela, coadiuvata in sala e ai fornelli solo ed esclusivamente dall’efficiente consorte Paolo Campesi. Uno squisito Pollo, perfettamente fritto, dalla carne tenera e untuosità ridotta al minimo sindacale potrà rappresentare degno biglietto da visita per un menù che spazia da ottimi Ramen a base di brodi preparati meticolosamente con cotture di diverse ore o i golosi Takoyaki di polpo eseguiti a regola d’arte, accompagnati da Sake accuratamente selezionati dalla padrona di casa. Organizzate per tempo sono possibili anche Omakase di Sushi non meno che buonissimi, con punte di eccellenza che rendono onore alla tradizione di un popolo che è geograficamente lontano da noi ma che qui da Mikachan appare incredibilmente vicino.

IL PIATTO MIGLIORE: Takoyaki di polpo.

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La brezza marina del rione xx

Nel quartiere storico di Testaccio, preso d’assalto da turisti e fanatici della cucina romana popolare, Acquasanta rappresenta un unicum. Il nome del locale ne è già il manifesto. Qui, mare e materia ittica sono una cosa seria, velate di un’aura quasi sacrale, come suggerisce l’insegna. D’altronde, l’elemento dell’ichthýs (“pesce” dal greco antico) ritorna a più riprese nella cultura cristiana: dagli apostoli pescatori alle vigilie di magro. Giocando sulla suggestione, la proposta dello Chef Enrico Camponeschi non può che poggiare sul pescato del giorno e su freschissimi esemplari d’acqua salata provenienti dall’asta di Anzio, località d’origine dei titolari. L’atmosfera elegante (ma non austera) viene riprodotta in larga misura dall’arredo di contrasto e dall’ambience tipici del fine dining contemporaneo e minimalista. Uno sguardo curioso va riservato alla carta dei vini che strizza l’occhio ai trend attuali, polarizzatasi sui bianchi macerati e sulla produzione “naturale”, con qualche rifermentato in bottiglia.

Tra sacro & profano

La storia di quest’area della città, rievocata anche dall’antistante Fontana delle Anfore, che in epoca romana giungevano cariche nel limitrofo porto fluviale, non sembra condizionare l’offerta. Non c’è spazio quindi per la “tradizione” (men che meno per il garum). I piatti di Camponeschi sono piuttosto espressione di una cucina di mare creativa ma schietta che mette al centro l’ingrediente, senza sottoporlo a trasformazioni eccessive nel tentativo di preservarne proprietà e caratteristiche originarie. Non mancano incursioni di terra nel menù di Camponeschi. Fra queste, nel caso del Tortello ripieno d’anatra, è da apprezzare lo sfogo concesso a uno dei sapori più impopolari di sempre, l’amaro, esaltato dalla presenza generosa di chips di radice scorzonera in un prezioso lavoro di liaison tra le altre componenti: callosità della pasta, ricchezza della sua farcia, intensità dello scampo crudo, freschezza del gel di pompelmo intervallata dalle sue spunte aspre. Squisito poi il Tonno alla catalana che, lungi dall’essere un mero assemblaggio insapore e modaiolo, trova come crudo il suo senso in carta sotto un’aioli calibrata e in armonia con le note vivaci del pomodoro bruciato. L’esperienza viene perciò scandita da una sequenza culinaria dal gusto forte, che non vuole filtri e che scansa forme di mediazione. Eppure, scomodando Van der Rohe, less is more. In effetti, l’impressione di fondo è che talvolta qualche spigolo andrebbe smussato. Ne è emblema il risotto, realizzato con il meraviglioso Risotto carnaroli Riserva San Massimo: ben eseguito tecnicamente ma sbilanciato verso il dolce, sensazione che non lascia mai il palato e che non si giova di alcuna sterzata (attesa invece dalla spuma di erborinato). Portata golosa per alcuni, statica per altri.

L’esito complessivo certifica comunque una cucina di buona qualità seguita dalle creazioni audaci della pastry chef Giulia Fusillo che non teme di lambire il profano reinterpretando alcuni grandi classici in chiave dessert. L’Acquasanta c’è, le potenzialità anche; non resta che attendere la definitiva benedizione.

IL PIATTO MIGLIORE: Tortello d’anatra, scampi, scorzonera, pompelmo.

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Maturo

(fig.) [di situazione, condizione e sim., che ha raggiunto il pieno sviluppo relativamente agli scopi a cui mira.] Potremmo fermarci qui per descrivere l’evidentissimo percorso di crescita che ha caratterizzato la cucina dello Chef Daniele Usai. Questo processo ha permesso di superare, per sua stessa ammissione, gli estri più giovanili e la voglia di sorprendere ad ogni costo, magari sfruttando sapori e accostamenti decisi (forse anche troppo), portando la cucina verso picchi di raffinatezza che hanno pochi concorrenti, non solo a Roma, ma in tutta la Penisola. Anche quando i piatti si ingolosiscono, l’eleganza resta sempre una costante. Una goduria in frac.

Dinamismo

Questa evoluzione si traduce in un’offerta che stupisce per la tecnica impeccabile, per l’equilibrio, ma soprattutto per la sua dinamicità. I sapori si alternano: amaro, dolce, sapido, umami, mai prevaricanti, ci disorientano; che bello perdersi in questo percorso! Il Nautilus, servito come benvenuto, mette subito le cose in chiaro: il pesce spada maturato ha quasi la consistenza di un carpaccio; il sapore è estremamente intenso, senza però diventare mai pungente; il gel di champagne e le foglie di origano contribuiscono all’evoluzione dell’assaggio, boccone dopo boccone, mentre l’infuso di malva sorprende lo sguardo, ma soprattutto armonizza il tutto. Il “Giardino Iodato” sembra un omaggio all’Insalata di ostriche di sua Maestà Uliassi: un’infinità di erbe aromatiche e di pesci locali (che variano in base all’andamento dell’asta) ci regalano un piatto sempre nuovo, dove è ancora una volta il dinamismo a farla da padrone, mediante una complessità ordinata che si sublima nella bottarga in primo piano. È un antipasto ma, a nostro avviso, è il piatto che meglio rappresenta il percorso, essendo esso stesso un cammino.

Non a caso le stesse erbe aromatiche le ritroviamo nell’ultimo dessert, a completare la regata. La carta dei vini è giustamente complessa, con un’interessante proposta di abbinamenti. Il personale di sala è impeccabile, attento senza scadere nell’ingessatura, assicura il giusto supporto alla cucina di Usai e la necessaria qualità. In generale, il risultato complessivo è veramente notevole anche se questa maturazione non può mai dirsi conclusa. L’asticella deve alzarsi sempre di più e, siamo certi, Usai continuerà a evolversi e a migliorarsi, nella continua ricerca dell’eccellenza.

IL PIATTO MIGLIORE: Il Giardino Iodato.

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Il Mediterraneo crocevia della cucina di Daniele Lippi

Prendere come punto di riferimento il Mar Mediterraneo, i popoli e le culture che vi si affacciano, mettendo in primo piano, attraverso le contaminazioni, quello che li unisce, è un percorso rischioso, anche in ambito gastronomico, visti i tempi che corrono, che potrebbe sfociare nella retorica. Daniele Lippi, Chef del ristorante Acquolina del First Place Hotel a Roma, se lo è posto come obiettivo e i suoi menù che del viaggio lungo le nostre acque e terre sono riferimento esplicito fanno capire come il percorso abbia raggiunto una centrata maturità, nonostante gli appena trent’anni di Lippi. Il menù “Periplo” è fondamentalmente dedicato al mare, mentre “Anabasi/Catabasi” è un movimento non solo fisico, ma anche di ricerca e pensiero all’interno delle culture, non solo di costa ma anche di terra del Mediterraneo. A partire già dal burro che introduce, insieme ad un buon pane di grano duro, la cena. Ispirato allo smen marocchino fermenta per 20 giorni in un’anfora di terracotta, che viene portata al tavolo, con aggiunta di un garum home made di sardine e alici. Un perfetto preludio al pasto.

Una cucina originale e dialettica

Un pasto che convince, sorprende, senza però utilizzare inutili orpelli, ma sempre mettendo in primo piano la materia prima. In Topinambur, per esempio, il primo impatto visivo e olfattivo è quello di un classico della romanità: il carciofo alla Giudia. E lo è infatti, con l’unica differenza che è quello di Gerusalemme, completato da una salsa ricavata dalle sue bucce e dal classico trito di mentuccia, aglio e prezzemolo: un magnifico gioco tra croccante e amaro. E alla stessa categoria va iscritto lo Spaghetto in estrazione di rosa canina, servito con basilico e Parmigiano Vacche Rosse 30 mesi, che verticalizza le acidità di un grande classico come lo spaghetto al pomodoro, nelle cui vesti si presenta. Ma non si possono non citare il dialettico matrimonio tra Triglia e cuori d’anatra, esaltato dal ginepro e il nuovo Spaghetto di mais torbato, dove alla mantecatura con burro al whisky (il Segretario di Stato della Distilleria Poli), si aggiungono ricci di mare e porro bruciato, con le note terrose ad esaltare iodio e dolcezza. Cosa che riesce meno alla combinazione tra Seppia, con il suo nero, e capriolo, che alla fine rischia di essere solo un gioco di consistenze.

Un piccolo appunto va mosso alla carta dei vini, fin troppo classica rispetto alla dinamicità della cucina, così come il servizio, fin troppo inappuntabile nella continua ricerca della briciola sul tavolo, che non disturberebbe affatto anzi sarebbe integrata alla cucina di Lippi, che in giorni di spesso trite e sterili polemiche su cosa sia e dove vada la cucina italiana, tra tradizioni tradite o mai esistite, è assolutamente da provare come dimostrazione di quanto sia ancora vitale.

IL PIATTO MIGLIORE: Topinambur.

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Evoluzione

La realtà di Fiumicino sta maturando, da qualche tempo a questa parte, una concreta evoluzione. La ricerca di qualità e innovazione sono ormai capisaldi di diverse realtà locali. Così, non lontano dalla cucina di Pascucci al porticciolo e da Il Tino di Lele Usai troviamo, perfettamente inserito nel contesto, L’Osteria dell’orologio. Lo Chef Marco Claroni non è certo una scoperta ma una piacevolissima conferma che, col passare del tempo, mostra una crescita personale tale da trovare la sua massima realizzazione nella valorizzazione della materia prima e nel tentativo, ottimamente centrato, di minimizzare lo spreco alimentare.

Il maiale 2.0?

L’ottimo livello raggiunto dalla sua cucina traspare sin dagli antipasti, eleganti, ma soprattutto equilibrati. Impossibile non citare la freschezza del Ceviche di ombrina, la dolcezza della triglia e del suo amico peperone, ma soprattutto l’incredibile profumo (che non risulta affatto coprente) di affumicato della Tartare di tonno. Come detto, però, la nota più piacevole è data dall’attenzione all’utilizzo quanto più esteso della materia prima. Non parliamo di protagonismi fine a ste stessi, l’obiettivo principale è sempre fornire portate interessanti e di qualità, riuscire a farlo evitando gli sprechi è una scelta che sicuramente apprezziamo e che premia per come viene implementata. Qui l’utilizzo del pesce trascende, avvicinandosi a quello dell’amico suino del quale, come ben sappiamo, non si butta via niente. In questo senso abbiamo apprezzato la Mazzancolla, cruda con una variazione di pioppini. Le zampe, fritte sono sfiziosissime con la loro salsa; la testa è servita separatamente ripiena del suo condimento. Anche il secondo sposa la stessa filosofia. La Testa di ricciola è perfetta dal punto di vista culinario, soda, insaporita dal suo fondo bruno e sgrassata da un’interessante emulsione alla mela. L’impiattamento potrebbe migliorare, ma il risultato palatale è ottimo. Molto interessante anche la proposta di Macelleria di mare, con salumi e stagionati di pesce, della quale avremmo sicuramente apprezzato un’incursione all’interno del percorso degustativo.

Ben costruita la carta dei vini con numerose etichette anche estere e con soluzioni in grado di accontentare appassionati e non. Il personale di sala è cortese e attento, ma mostra qualche piccola sbavatura dettata, probabilmente, dalla giovane età di alcuni collaboratori che la preparazione e la qualità umana del maître riesce a compensare egregiamente, garantendo un servizio senza intoppi.

IL PIATTO MIGLIORE: Testa di ricciola al forno.

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