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Pashà

Una grande famiglia e un grande cuoco – anzi una coppia – uniti nell’assoluto

Questa è la storia di una grande famiglia, i Magistà, e del loro piccolo sogno. Quando Maria Cicorella ha conquistato la stella Michelin, anni fa, poteva tranquillamente sedersi sugli allori. E invece si è fatta da parte, ha lasciato spazio alle nuove generazioni e, in particolare, al talento assoluto, in sala, di suo figlio Antonello Magistà.

Ambizioso e talentuoso, da vero maestro in accoglienza, Magistà ha scelto la strada più impervia, proporre  qualità estrema puntando in alto, davvero in alto, con una coppia di cuochi di prim’ordine: Antonio Zaccardi e la compagna, pastry chef, Angelica Giannuzzi: una combinazione, questa, che ci ricorda cosa sta accadendo anche a pochi km da qui, dove una coppia di giovani, e bravi cuochi, a Lecce, sta facendo parlare molto di sé.

E dopo un anno abbondante dall’inizio di questa meravigliosa avventura, ecco i primi grandi, grandissimi risultati. Non è facile, del resto, in una zona in cui da metà giugno a metà settembre dovresti disporre del triplo dei coperti mentre, invece, per tutto il resto dell’anno i tuoi 25 fai fatica a coprirli. Non è facile pagare stipendi, tenere i collaboratori, soprattutto quelli bravi. Ma lui è un uomo tenace, oltre che sensibile e intelligente. E le sta pensando tutte, compresa una provocazione: perché il prezzo del menù, al ristorante, non può variare durante le stagioni, come succede per gli alberghi? Condivisibile, intelligente, acuto.

Una cena straordinaria, dalla regia magistrale

Il ristorante, del resto, è pur sempre una impresa, e come tutte le imprese deve non solo stare in piedi, ma deve fruttare. Altrimenti la strada si fa difficile. E noi auguriamo tanta longevità a questo progetto straordinario, che unisce i prodotti del territorio, fantastici, alla tradizione della mano, in cucina, di Maria – i taralli e le orecchiette sono ancora compito suo – con lo straordinario talento del duo Zaccardi-Giannuzzi a dar vita a piatti potenti, gustosi, sinuosi ed eleganti.

La compenetrazione dello stile di Zaccardi con quello del suo maestro e mentore, Enrico Crippa, è ancora evidente. Ma ciò non è affatto da considerarsi un minus. Sarebbe singolare anzi se non fosse così, tanto che  dopo 12 anni gomito a gomito chi potrebbe dire quanto di Crippa ci sia in Zaccardi e quanto di Zaccardi ci sia in Crippa?

Certo è che la cucina di Antonio è viva, scintillante e già connotata da un’impronta personale, molto interessante. Una cucina che prudenzialmente abbiamo deciso di numerare con il voto qui riportato, ma è doveroso precisare come la nostra cena al Pashà si sia settata su livelli nettamente superiori. Tra i piatti, straordinario il riso alla marinara, che sembra più una pizza, dall’omonimo richiamo non dichiarato; fantastico il carpaccio di pomodoro verde, ricci e maionese di calamaro; stupendamente classicheggianti l’animella e il vitello, fino all’immensa panna cotta di gambero, con le sue gustose aperture alla fragola, al limone e allo zucchero.

Una strepitosa cena, allietata dalla regia magistrale, è il caso di dirlo, di Antonello Magistà e del giovane Riccardo Giliberti, altro vero talento dell’accoglienza.

L’invito, quindi, è quello di precipitarvi in massa a Conversano, magari non da giugno a settembre, per gustare una cucina e godervi un luogo che, ne siamo certi, farà molto parlare di sé in futuro.

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La trattoria contemporanea di un grande cuoco

Si auto-definisce un trattore-contadino, Damiano Donati, che ha impresso la sua svolta qualche tempo fa in campagna dove, sporcandosi le mani, ha capito anche dove risedeva l’essenza stessa della sua esistenza.

Un profondo attaccamento alle radici terrene, un ampio e articolato pensiero contadino che lo fa innamorare una volta di un ortaggio, l’altra dei grani antichi dimenticati, l’altra ancora di una fermentazione – peraltro è anche produttore di un fantastico sidro e, si dice, di un ottimo vino, ma questa è un’altra storia – nonché di quella agreste sapienza in grado di trasformare un grande prodotto in  un ingrediente.

Cosa che gli ha permesso di coltivare il suo talento, l’estro e la sua tecnica; culinaria, ovviamente! Messa al servizio di un progetto nuovo, diverso, apparentemente più semplice, ma in realtà ricco di contenuti. Perché Damiano è cavallo di razza, un talento sconfinato che si evince sin da piccoli dettagli, nonché una tecnica sopraffina che lo fa assurgere, peraltro, al livello del grande pasticcere. Mano fine, dicevamo, unita a senso del gusto e a questo rinnovato spirito campagnolo fa della sua cucina e del suo ristorante, il Punto, uno degli avamposti dell’avanguardia della nuova trattoria italiana.

L’evoluzione di un grande ristorante verso una grandissima trattoria

Ecco perché vogliamo fortemente virare verso una valutazione in cipolle. Nessuno immagini una retrocessione, anzi! Perché si tratta, secondo noi, di contestualizzare un luogo, una cucina ma sopratutto un approccio filosofico che tende all’eccellenza nel suo settore. Poi, chissà perché, si pensa erroneamente alla trattoria come sinonimo di cucina greve, a tratti approssimata, scostante. Niente di più sbagliato, se consideriamo come Damiano sia riuscito a coniugare i plus di una grande trattoria – prodotti straordinari del circondario e tecnica – con l’estro e la raffinatezza di un grande, grandissimo cuoco.

Il risultato ? Stupefacente, eccelso.

La tarteletta, il riso, la quaglia e tutti i dolci, con una pierangeliniana crèpe suzette in pole position, sono tutti lì a dimostrarlo.

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A Roma, alla potenza si affianca il controllo

Anthony Genovese lo conosciamo da molto tempo; sin dall’apertura, datata 2003, abbiamo frequentato il suo delizioso ristorante ubicato in zona Campo de’ Fiori, con la nitida impressione di trovarci di fronte a un grande talento caratterizzato dall’uso di ingredienti e spezie esotiche, di molte componenti evocative, di uno stile molto personale, senza alcun punto di riferimento.

Negli anni lo abbiamo apprezzato e osannato per la sua cucina non usuale, per nulla minimalista, ma sempre molto incisiva. Ma lo abbiamo anche in qualche modo criticato per i suoi eccessi, per i suoi frequenti fuori giri, per il talento smisurato di pensiero che non sempre trovava il giusto equilibrio gustativo e aromatico. La potenza non è nulla senza il controllo, recitava un famoso spot di pneumatici… fino ad ora.

Perché Antony Genovese, con la maturità, ha impresso un controllo formidabile alla sua cucina che pur resta di grande estro e potenza, come confermano le numerose visite fatte in questo periodo, e che in quest’ultima, in particolare, ci ha fatto gioire di piccoli miracoli culinari qual è l’ormai classico viaggio di foie gras e ricciola, con brodo di kiwi fermentato, a impreziosirlo.

Altro colpo decisamente interessante l’asparago tropicale, in cui la nota fenica dell’asparago è allungata mirabilmente dalla sapidità-iodata del caviale e dalla fragranza aromatica del latte di cocco. Nota che, peraltro, è enfatizzata dagli asparagi selvatici.

E poi piatti come il gambero rosso, la rosa mirtilli e scalogno passando per  i “berlingò” carciofi, ossobuco e sarda affumicata e dunque arrivando al fegato alla pechinese sono fulgidi esempi di classe, originalità ed equilibrio gustativo combinati con una moltitudine di ingredienti da una mano delicatissima.

Un grande balzo in avanti che è stato anche propiziato da Matteo Zappile, abile Restaurant Manager che, con la sua classe ed eleganza, ha saputo costruire una squadra di giovani rampanti e preparati, con la punta di diamante del giovane sommelier Luca Belleggia. Quanto a Matteo lui ha, in accordo e con la partecipazione dello chef, ripensato gli arredi, l’illuminazione, le stoviglie, la mise en place, attuando un profondo lavoro di ricerca del bello mai scontato e, men che meno ostentato, nel pieno solco della cucina del suo grande, grandissimo Chef.

“Nel suo complesso quella del Pagliaccio resta una di quelle esperienze che difficilmente si dimenticano, in grado ogni volta di allargare gli orizzonti gustativi di ogni appassionato, anche del più smaliziato. Senza dubbio una delle migliori tavole capitoline” dicevamo nella nostra ultima recensione.
Oggi correggiamo questa frase: siamo assolutamente e innegabilmente al cospetto della migliore tavola di Roma Capitale.

Una delle massime espressioni di Albert Adrià 

Siamo nel quartiere di Sant Antoni, dove il genio di Albert Adrià ha dato vita a El Barrì: l’immaginario barrio che comprende i suoi sei ristoranti di cui Tickets, insieme a Enigma, costituisce la punta di diamante.
Sedersi qui richiede una notevole dose di fortuna: il ristorante è sempre sold-out e le prenotazioni, esclusivamente online, si esauriscono nel giro di pochi secondi. Tuttavia, se riuscirete a conquistare uno dei tickets che garantiscono l’accesso a una delle quaranta sedute di Avinguda del Parallel, la fatica sarà ripagata.

Più che un tapas bar, un eccellente ristorante gourmet

Ma diciamolo subito: la definizione di tapas bar non rende giustizia a Tickets, che è molto di più di quello che recita il nome. Vi è la dimensione onirico-ludica del circo che, appena varcata la porta, fa tornare bambini travolti da un’atmosfera piacevolmente kitch che va delle insegne luccicanti (coi motti la vida tapa, tapas es libertad), agli schermi al neon, alle locandine teatrali fino alle divise da domatori del personale di sala, mentre i camerieri addetti ai dolci sono abbigliati alla maniera degli sweet soldiers.

Un teatro che non offusca il livello della cucina, anzi di queste cucine, poiché in realtà sono quattro, e a vista, le postazioni in cui vengono effettuate le preparazioni. Ma è filologicamente corretto il concetto: perché la cucina si articola sul concetto spagnolo di tapas, qui nella sua versione più libera dallo schema canonico. L’avventore, poi, ha la libertà di scegliere la mezza porzione, per favorire più assaggi, o la porzione intera, da condividere senza imbarazzi. Eppure, benché la traccia sia quella delle tapas, appunto, qui le stesse sono sublimate e, con sovente ricorso alle più moderne tecniche, sono sempre golosissime, caratterizzandosi per perfette cotture, realizzate al millimetro, e l’assemblaggio di materie prime di altissima qualità.

Una sarabanda, salata e dolce, di circa quattro ore 

Mai come in questo caso il racconto del nostro pranzo non può ridursi all’elenco di una serie di pietanze: si è trattato di un travolgente baillamme gastronomico di circa quattro ore, in cui ci sono state servite quasi una trentina di tapas, tutte notevoli sotto ogni profilo. Sull’oliva sferificata iniziale, di bulliana memoria, stati spesi fiumi di parole. Proseguendo, portiamo ancora il ricordo della burrosa tartare di tonno con la sua bottarga, i cui sapori sono poi riepilogati alla perfezione nel crackers servito al lato, e dell’ostrica cotta al forno e servita con un brodo di funghi trompetas a allungare la nota iodata. Materia prima da urlo nel gambero ripieno di wagyu, assolo di tecnica il “paesaggio nordico”, giocato sul contrasto tra  dolcezza di cipolla e rubia gallega e acido di panna e neve di aceto. La ghiotta quaglia wellington ripiena delle sue uova, spinaci, funghi, che ha concluso la parte salata del menù, aveva mantenuti intatti i suoi succhi grazie alla perfetta cottura al forno sui carboni, con l’indimenticabile millefoglie in accompagnamento.

Dopo essere catapultati nel bel mezzo di un film con Willy Wonka a farci compagnia e giganteschi frutti di bosco e fragole che scendono dal soffitto, parte la kermesse dei dolci: tra quelli serviti, abbiamo apprezzato particolarmente una splendida  tartelletta ai mirtilli e un’originale cheese cake.

In conclusione: “venghino siori, venghino”, al circo di Tickets c’è da divertirsi!

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Solida identità langarola

Che l’essenza più dritta, solida e granitica, per non dire marnosa, delle Langhe alberghi anche in questo mite comune della provincia di Cuneo, è cosa ormai nota.

A contribuire alla costruzione di questa identità, frutto di un impegno individuale che, stratificato negli anni, compone l’immaginario collettivo, c’è senza ombra di dubbio anche Gian Piero Vivalda il quale, con costanza e abnegazione, ha messo a punto una gioiosa macchina da guerra che, sin dall’accoglienza, mette al centro della propria orbita il suo ospite, soggetto e oggetto di un’esperienza umana prima ancora che culinaria. 

Un’esperienza senza tempo

Va detto subito che si tratta di una tavola, la sua, molto divulgativa e talmente eloquente, nel suo mix di classicità e grandezza, da non aver nemmeno bisogno di dichiarare i suoi prodromi, di lapalissiana scuola francese anche nel servizio, in una sala cadenzata alla perfezione e nel cui rapporto si innesca un’armonia tanto perfetta da essere, per appunto, sempiterna come in quegli storici ristoranti francesi di provincia, che difatti ricorda.

Mancavamo da tempo e con piacere abbiamo ritrovato, in un locale pieno, una cucina più accurata, e audace al punto da fare ricorso a risorse provenienti da tutta Italia; una cucina filologicamente ineccepibile e prodiga di quegli accorgimenti che la alleggeriscono, attualizzandola e mantenendola, al contempo, intatta.

Filologia culinaria

Altresì rispettata è la validità di preparazioni scrupolosamente improntate a una rigorosa aderenza territoriale. Preparazioni nitide nei sapori, golose ma non monocordi e stucchevoli, che rendono pienamente omaggio alla storia che rappresentano, una storia sabauda gloriosa e memorabile, che difatti encomia in piatti memorabili come il capretto allo spiedo, l’anguilla alla royale, i ravioli di gorgonzola e pere o il divin tegame di lumache di Cherasco e porri di Cervere, che rappresentano solo alcune delle copiose sollecitazioni palatali, e intellettuali, che qui si ha la fortuna di esperire.

In questo contesto non poteva mancare una lode alla cantina, capace di soddisfare le più disparate esigenze, e un’altra ancora al già citato servizio, degno oggi di una grande maison.

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