Buona ristorazione, a basso costo. È l’ultima carta a disposizione dei ristoratori per ridurre, oggigiorno, il rischio imprenditoriale. Regola, questa, alla quale sembrano sottostare anche i grandi chef che, sempre più spesso, si ritrovano a fare i conti con pizzerie, wine bar o trattorie griffate, con un unico grande intento: far quadrare i conti delle loro aziende.
Discorso che calza ancor più a pennello se si parla di un paese come la Spagna, in cui l’impennata economica (sfruttata comunque nel miglior modo possibile) e il benessere di un decennio fa sono ormai soltanto un ricordo.
Il grandissimo Quique Dacosta ha quindi studiato delle formule -sulla carta vincenti- sfruttando le sue capacità di brillante ristoratore, su una piazza in cui la domanda è decisamente più alta rispetto alla tutt’altro che frenetica vita di provincia.
Sul solco tracciato dai soliti fratelli Adria’ – che a nostro avviso restano ancora la pietra filosofale del tapas bar “creativo” – ecco partorire l’idea di Vuelve Carolina, un divertente ristorante/taperia nel cuore di Valencia. Ubicato nello stesso stabile di El Poblet, succursale cittadina del più famoso ristorante di Denia che, insieme al nuovo Mercat Bar, completa il piccolo impero gastronomico della Daco & Co.
Vuelve Carolina è un locale dall’atmosfera stranamente più nordica che latina.
Lunghissimo bancone di legno all’ingresso e una saletta più raccolta, con un allestimento di piante grasse sulle pareti di legno chiaro.
Offre una carta molto ampia, suddivisa in categorie di portate che spaziano dalle tapas ai crudi, fino ai piatti principali di carne e di pesce.
Vengono proposti piatti tradizionali che recano la firma dello chef valenciano. Una sorta di reinterpretazione non troppo sofisticata di piatti amati dal cliente locale.
Lo stile avanguardista dei piatti contempla alcuni classici di Dacosta, come il cuba libre di foie gras o alcuni dei suoi famosi “risi” che si alternano a più banali affettati o immancabili (è la moda del momento) hamburger.
Inoltre ci sono due convenienti menu degustazione (da prendere per un minimo di due persone, a 24,20 euro e 27,50 euro) tra i quali è possibile assaggiare una selezione di tapas creative oppure i piatti storici di Dacosta.
Ci si può divertire se si sceglie oculatamente: alcune portate, infatti, hanno una riuscita decisamente migliore rispetto ad altre, anche a livello di materia prima, stranamente variabile a seconda dei casi (su tale aspetto potrebbe giocare un ruolo chiave il flusso di commensali in una giornata). L’ostrica, le capesante, il maiale e i cannolicchi ne sono l’esempio positivo. Più deludenti invece i gamberi fritti ed il polpo.
Si intravede tutto il know how di un grande maestro dei fornelli, dai bocconi più semplici, connotati da esercizi tecnici di elevato standard (patata soffiata con tuorlo d’uovo) ad assaggi più complessi (si pensi allo storico cuba libre di foie gras).
Sebbene ci siano stati (più) alti e (meno) bassi, questa resta una esperienza da prendere in considerazione, una valida alternativa a tavole più blasonate, specie se si vuole fare un pasto più veloce e meno impegnativo, ma comunque all’insegna della qualità e del divertimento.
Le buone olive.
Il pane (che viene prezzato a 2,50€), con grissini ai semi di girasole e un godurioso formaggio aromatizzato al peperoncino verde.
L’ostrica, omaggio al Perù. L’ostrica viene servita con un fresco e speziato succo al lime che contribuisce ad allungare il gusto della prima.
Tra i piatti migliori: carpaccio di capasanta marinata con condimenti marini naturali (ricci, alghe, ed altro).
Gamberi fritti e (ottima) maionese di pomodoro secco. Peccato per i crostacei dai quali ci aspettavamo un gusto più intenso, probabilmente coperto dalla frittura.
Tradizionalissimi cannolicchi con ratatouille di verdure. Semplici ma buoni.
Polpo alla brace con patate, olive e pomodori appassiti. Uno dei classici di Dacosta, per noi abbastanza deludente.
Patata soffiata con tuorlo d’uovo: un piacevolissimo esercizio tecnico.
Il cuba libre di foie gras, che consigliamo di dividere in due o tre persone. E’ una panna cotta di fegato grasso ricoperta da una intensa gelatina di cuba libre, rucola e arancia. Piatto impegnativo a livello lipidico ma collaudatissimo.
Uovo con funghi e mousse di patata affumicata.
Carpaccio di maiale iberico. Gustosissima la carne ma anche la salsa (una sorta di fondo bruno particolarmente acidulato).
Torta di mele alla maniera di Carolina. Una destrutturazione abbastanza scontata e, a nostro avviso, con qualche errore tecnico e di concepimento (fette di mela troppo spesse e poco caramellate).
Di ottimo livello lo yogurt con gelato alla viola, concentratissimo.
Curiosi dettagli.
Insegna.
Dove eravamo rimasti?
Diciamo che l’ultima esperienza non trascorse all’insegna della perfezione. Avevamo notato, tra grandi tecnicismi e sprazzi di genialità creativa, alcune mosse inaspettatamente prevedibili, segno di una preoccupante omologazione della sua cucina.
E invece, alla luce della nostra ultimissima incursione in quel di Denia, la cucina di Quique Dacosta ci ha riportato il sorriso, impressionandoci positivamente e rassicurandoci che quella di qualche anno fa fu soltanto una serata storta.
“Tomorrowland”, andato in scena nella stagione 2014 appena conclusa, è un percorso dirompente col quale lo chef valenciano continua ad ostentare grande passione per creatività e voglia di stupire.
I concetti di buono e bello vengono rappresentati da una sequenza di piatti in cui ogni assaggio è trainato da un binomio emotivo che è il sogno di molti cuochi: gusto e divertimento.
E’ un risultato raggiunto grazie a rigore tecnico, grande personalità e voglia di migliorarsi.
Complice forse la circostanza da “ultima cena” dell’anno (il ristorante ha chiuso i battenti per le ferie proprio il giorno della nostra visita) che ha contribuito a rendere la nostra esperienza semplicemente perfetta, al top di un’ipotetica scala valori.
Il processo iterativo che conduce alla perfezione non può prescindere dai dettagli e, a tal riguardo, preme sottolineare come Dacosta abbia dato vita ad una cucina sempre più ragionata – filologica rispetto al territorio e con un estremo senso della misura– studiando anche il perfetto abbinamento enoico per ogni singola portata. Dacosta ha costruito col tempo un luogo multisensoriale, capace di regalare al cliente un’esperienza che resta impressa a lungo nella memoria.
Il suo ristorante è un modello da studiare per comprendere cosa il più esigente tra i clienti si aspetta da un “tristellato”, ovvero la simbiosi tra grande cucina, intelligente cantina, incantevole location, cortesia e professionalità del personale – poliglotta, naturalmente – capace di regalare un’esperienza “non plus ultra”, alla stregua delle poche grandissime tavole mondiali.
Nonostante mille artifizi, questa è una cucina vera. Celebra tradizione e territorio; presenta una sublimazione di una già eccellente materia prima che è direttamente proporzionale alla concentrazione gustativa che emerge dopo la trasformazione della stessa, qualsiasi consistenza essa raggiunga.
E’ una cucina completa su tutti i fronti. Di forma e sostanza, estremamente estetica; vicinissima al concetto di habitat naturale degli ingredienti. La costante rincorsa ad elementi ecologico-naturali di supporto è parte integrante del lavoro di ricerca di Dacosta.
Ma il valore principale spicca fondamentale a livello gustativo, in cui c’è spazio solo per preparazioni che non concedono arzigogoli cerebrali, regalando bocconi di raro equilibrio e piacevolezza. Anche a Denia, come a Modena, la tradizione indossa abiti avanguardisti ma incredibilmente comprensibili. Ed il concetto di poliedrico e trasversale di questa cucina non può che esser frutto della maturità tecnica e culturale di uno chef dalla curiosità inesauribile. Un perfezionista.
Tomorrowland è una carrellata delle passioni dello chef: c’è sorpresa, innovazione, ricerca, territorio e creatività. Circa una trentina di assaggi serviti in sette atti.
Il divertimento inizia in veranda, tra gli odori di pino.
La sala, invece, sembra in apparenza fredda e minimalista, nessun tovagliato, ma soltanto una piccola scultura sui tavoli bianchi.
Atto 1°: snacks.
Petali di rosa e gin tonic alla mela.
Il dettaglio della rosa contenente una julienne di mele imbevute nello sciroppo di rose. Fantastico inizio.
Foglie secche e radici: le foglie sono al granturco e alle erbe sottaceto. La cialda è fatta con una concentratissima polvere di funghi.
Pietre di parmigiano.
Pomodorini sott’aceto.
Spaghetti alla puttanesca. Dacosta gioca con il celeberrimo piatto di pasta sostituendo la pasta con un formaggio cremoso.
Raïm del pastor. Sono delle piante mediche che vengono raccolte alle pendici del Montgò. Vengono marinate e hanno una testura fibrosa.
Atto 2°: Salagioni e sott’aceto.
Le salagioni: bottarga e polpo secco.
Ajoblanco e mandorle. Un sottilissimo involucro contiene l’ajoblanco liquido. Il sottile strato di olio risalta l’aromaticità della mandorla.
Olive e noccioli: si tratta di un gelato di olive con delle acciughe ricostruite nei noccioli. Il tutto adagiato su una gelatina di olio di oliva.
Atto 3°: Tapas.
“Toro” (ventresca di tonno) in “foglia di tabacco” (che in verità è un’alga croccante e affumicata).
Frittella leggera di baccalà.
Socarrat ripieno di aioli e gamberetto crudo. Il socarrat è la parte di riso che resta incrostata sulla padella. La parte croccante della paella.
Lattuga di mare. Si tratta di alghe affumicate, plancton e mozzarella di bufala.
La materia prima, di livello insuperabile, è principalmente locale, anche se quest’anno ci ha fatto grande piacere ritrovare una fetta di Bel Paese quando c’è stata proposta un’ottima mozzarella di bufala campana (è facile pensare ad una folgorazione di Dacosta sulla via di Paestum per l’ultima edizione de “le strade della mozzarella”).
Cannolicchio al naturale leggermente condito con una salsa allo zenzero. Straordinaria materia prima.
Variante: questa volta il cannolicchio è una tartare con menta, limone, gojuchang e cocco.
Capesante alla brace.
Ricci di mare al naturale. Nome del piatto ingannevole, in quanto si tratta di un involucro di alga nori ripieno di crema di ricci di mare. Raffinatissimo boccone, pur dominato da note grasse.
Tronco di Gerusalemme. E’ uno degli assaggi migliori. Viene ricostruito un topinambur con una crema al topinambur, salsa al piccione e tartufo nero. Una preparazione dalla quale è difficile pretendere un coefficiente tecnico superiore.
Mochi al tartufo nero e “Torta della Serena”, formaggio locale di pecora. Tre bocconi di piacere.
Un piccolo fuori menu: cremoso di parmigiano. Storico piatto di Dacosta che gioca con due ingredienti nostrani, il basilico (viene fatta una gelatina con diverse tipologie) e il parmigiano reggiano.
Atto 4°: Piatti.
Ostrica fritta. In verità è cruda e fritta, adagiata su una cialda all’acqua di ostriche. E’ un primo approccio al mare.
Da vicino.
Per poi venire travolti da uno tsunami di sapore: gambero rosso di Denia sbollentato in acqua di mare. Viene accompagnato da un formidabile tè con bietole e teste di gamberi. Da applausi a scena aperta.
Si chiude succhiando la testa del carapace.
Dacosta è un maestro dei risotti. Questo è con piselli e uova di seppie. Dalla grande cifra tecnica e stilistica.
Ma il coup de théâtre è in verità dietro l’angolo: luci della sala spente, si pensa ad un calo di tensione o a un corto circuito. Fino a quando tutti i camerieri fanno irruzione in sala servendo ai commensali un piattino luminoso con una pepita d’oro al centro.
“Colazione da Tiffany”, esclama il cameriere, “…è il sorbetto”. Una fragrante meringa di mela, sorbetto di champagne, bergamotto, limone, essenza di rose. Gusto e innovazione. Difficile chiedere di più per una delle trovate sceniche più coinvolgenti in cui ci sia capitato di imbatterci negli ultimi tempi.
Storione. Altro grande colpo. E’una declinazione del pesce. La pelle croccante fa da supporto a tre cubi di filetto adagiato su una crema ricavata dal pesce. Il caviale chiude il cerchio.
Taco mediterraneo. Un gutosissimo boccone di rana pescatrice con gochujang, baccelli di piselli e germogli di coriandolo in una frittella sottile a base di mais liofilizzato. E’ l’intelligente transizione dal pesce alla carne.
Anche le portate di terra sono di grande densità gustativa. Tendini di vitello, orzata e tartufo.
Eccellente l’orzata che viene preparata con queste “mandorle di terra”, tipiche della zona.
Piccione e radici di malto. E’ la chiusura delle portate salate.
Atto 6°: Dessert.
Splendido il Mojito alle alghe marine e cetriolo. Alla base ci sono perle di mango e limone che creano un grande equilibrio all’insegna della freschezza.
E tutt’altro che banale la foresta nera, dalla eterea consistenza.
Rami di cannella.
Atto 7°: Piccola pasticceria.
Nido al mango.
Carta di cioccolato e yogurt e lamponi.
Mandorle al cacao, pepite d’oro, tartufo e macaron.
Alcuni dei vini in accompagnamento. Il sommelier José Antonio Navarrete è considerato uno dei migliori di Spagna. E’ suo il merito di aver saputo costruire una cantina che si focalizza sui vini naturali di Spagna dando pari importanza ai grandi Cru francesi e italiani.
I congressi sono come i calabroni: non dovrebbero eppure continuano a volare. A dispetto dei calcoli degli entomologi sull’apertura alare, il loro ronzio ogni tanto riesce persino a ficcare il pungiglione nel cuore vivo della contemporaneità. Provocando choc non solo anafilattici, che rimettono in discussione assetti dati comunemente per scontati. Ce l’ha fatta, almeno in parte, Gastronomika 2013, che a San Sebastian in questo mese di ottobre ha inquadrato con taglio a dir poco inusuale il panorama gastronomico internazionale. Dalla messa a fuoco sono stati infatti esclusi i paesi del nord Europa, ma non è andata molto meglio al continente americano, che ha visto il solo Acurio sul palco. Forse per sfatare il cliché di una cucina irrimediabilmente nomizzata, aureolata di una corona di fiori ed erbe spontanee nella scampagnata georgica dalle Ande alla tundra, giù giù fino alle foreste australiane. Quella forse ha già preso residenza in qualche evento più o meno clandestino (ma l’anno prossimo sarà la volta dell’Italia, presente quest’anno con Gennaro Esposito).
Focus su Londra, allora, e sulla sua cucina metropolitana, che significa Heston Blumenthal (un po’ stanco sul palco, alle prese con il filo da lui stesso tranciato del food pairing, complessificato dalla volatilità e dagli ingredienti ponte) e soprattutto tanta, tantissima fusion. Talvolta di enorme interesse, come nel caso del giapponese Junya Yamasaki del ristorante Koya, che ha illustrato sul palco passo dopo passo la complessa preparazione di un piatto tradizionale giapponese, il calamaro fermentato nel suo fegato (ikano shiokara), bomba vischiosa che adopera anche per condire, al posto delle acciughe, o preparare la maionese. “Sulle montagne i vecchi usavano fermentare in questo modo, con le sue interiora, anche la selvaggina, che così si conserva per sempre: sto attualmente investigando questi procedimenti nel tentativo di riproporli”.
E anche un’altra tecnica conserviera di matrice asiatica ha avuto la sua celebrazione sul palco: l’essiccazione, soprattutto dei prodotti ittici. Quasi che tramontato il sole della lunga estate spagnola, la cucina avesse messo mano alle dispense dei vasetti senza tempo per superare il grande freddo dell’immaginazione. Ad aprirli sono stati due “outsider” di razza. Corey Lee, chef coreano che per 8 anni ha affiancato Thomas Keller alla French Laundry, oggi al Banu di San Francisco, e Nuno Mendes del Viajante di Londra. Davvero eccellente la ponencia del primo, che continua ad attingere suggestioni dalla cucina quotidiana della madrepatria, incollandone i frammenti con l’oro di una tecnica francesizzante, quasi fosse una ceramica crepata e nobilitata dal kintsugi. L’essiccazione gli serve per variare la tavolozza delle testure nel senso, modernissimo, del gelatinoso e del gommoso (è il caso dell’orecchia di mare e dell’oloturia, essiccata, reidratata, farcita come la ballotine di un MOF); ma è anche simulata con mossa di flamenco nella zuppa di finta pinna di pescecane, trompe-l’oeil obbligato dalla messa al bando dell’ingrediente originario. “Sono prodotti da valorizzare nelle loro differenze dal fresco: stanno al pesce come l’uva sta al vino o il prosciutto al maiale”, ha spiegato.
Anche lo chef portoghese è voluto transitare per il ciclo delle metamorfosi, a lui congeniali grazie alla familiarità col baccalà. A sua somiglianza, la superba capasanta britannica viene marinata, disidratata e nuovamente marinata con il brodo delle barbe, sempre per ragioni di testura; mentre il “dashi” è preparato con il baccalà vero e proprio. Un accanimento impensabile fino a pochi anni orsono, che tuttavia non invade il perimetro dell’autonomia dell’ingrediente, regista e cuoco di se stesso.
Folate cariche di spore che non sembrano aver lambito la Spagna, dove gli chef continuano a fare finta di niente. Quique Dacosta come Dani Garcia e Pedro Subijana, Martin Berasategui e Juan Mari Arzak, inceppati nel tartagliamento dei trompe-l’oeil più improbabili. Con le solite eccezioni di Angel Leon, che dal mare trae non solo plancton, ma oggi anche zuccheri e peperoncini; Josean Alija, sempre più elegante ed epurato; Joan Roca, che tuttavia cerca l’innovazione lontano dal pass, nella creazione di un’opera d’arte totale chiamata Somni con l’artista visivo Franc Aleu. Mentre Andoni Luis Aduriz, che ha dedicato il suo intervento alla “rete neuronale delle idee” sottesa al balzo della creatività, forgia come un ingegnere venusiano i suoi UFO (Unidentified Food Object), esperimenti sul limitare stesso della cucina e del gusto. Spesso evanescenti come una fata morgana che si dilegua nella bocca (ieri le pompas, oggi le scaglie di ghiaccio al sugo di gamberi rossi), quasi un monito sull’obsolescenza programmata della cucina d’avanguardia.
L’impressione è che dopo un decennio a forma di freccia, monodirezionale e dromocratico dietro la punta sibilante di Ferran Adrià, la cucina abbia imboccato percorsi plurali e paralleli, dove a spuntarla è chi possiede un universo di sapori propri. Un po’ come è accaduto dopo lo spegnimento dell’incendio avanguardista, quando Michelangelo Pistoletto scriveva: “Per me non ci sono forme più o meno attuali, tutte le forme sono disponibili, tutti i materiali, tutte le idee e tutti i mezzi. Il cammino dei passi di fianco porta fuori dal sistema che va diritto… Procedendo di fianco, la corsa fra gli individui diventa parallela, perché ogni individuo procede individualmente senza proiettarsi fuori di sé né in punti astratti né sugli altri. In questo cammino non ci sono i più bravi e i meno bravi, perché ognuno è quello che è e fa quello che fa; nessuno ha bisogno di fingere per mostrarsi migliore e diventa facilissimo comunicare senza strutture di linguaggio perché è facile capire di ognuno chi è e come è”.
Tre istantanee di una cena da Andoni, al Mugaritz:
Toast affumicato, 100% astice.
Erbe fritte dell’orto con aromi stridenti (shiso e cannella).
Carote con i loro fiori.
Recensione ristorante.
Denia, Maggio.
Caldo.
Afrore spagnolo.
Strada interminabile da Gandia.
Impazienza.
Sollievo.
Oasi.
Stupore.
Meraviglia.