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Retroscena

Due menti e un ristorante nel retro(scena) marchigiano

A volte è sorprendente scoprire come località lontane da più note mete di visita nascondano tesori di splendida bellezza. È un po’ il senso di Retroscena, fresca stella Michelin 2023 e già visitata due anni fa, nel centro di Porto San Giorgio. La piazza del paese accoglie le mura del locale, una scena “retro”, o dietro, che lo immerge in un clima di antica eleganza dal quale emerge, appunto, lui, Retroscena: un’indicazione geografica che si erge a metafora del senso dell’operazione.

All’interno del locale dal look minimale e dagli arredi contemporanei si sostanzia una realtà duplice: in cucina lavorano infatti due cuochi, entrambi accomunati da un importante passato presso l’Osteria Francescana di Massimo Bottura: Richard Abou Zaki e Pierpaolo Ferracuti. Un binomio in perfetta sincronia, dove l’inventiva del primo è completata dal supporto del secondo. Puntare all’essenziale, questo l’obiettivo che i due giovani Chef si pongono con concentrazione e attenzione, sia in termini di gusto sia in termini di preparazioni. Abbiamo quindi trovato un approccio finalizzato alla concentrazione di consistenze e ingredienti, con particolare sensibilità rivolta alla realtà ittica, puntando dritto a una ricerca sulle acidità e sulle note amaricanti davvero sorprendente.

Perché “Labor Limae“, nomen omen della degustazione assaggiata, è stato un percorso circolare, capace di partire da una sapida lunghezza iodata, passando poi per acidità di stampo fermentativo, per concludersi con un reparto dolci teso al ricucire un tragitto sostanziato su note lontane da immediate rotondità accondiscendenti. Ostrica in brodo di caviale è stato un passaggio davvero emblematico del pensiero alla base di questa cucina, grazie a una concentrazione di sapori potente e sfaccettata, nella quale la nota iodata è stata protagonista rilanciandosi di boccone in boccone tra la consistenza marina del mollusco e il brodo di accompagnamento a base di caviale. Un piatto elegante e non immediato. Ma è con Riso, pesca fermentata, riccio di mare e pasta di arancia che il senso del lavoro dei due giovani cuochi ha raggiunto il suo scopo più completo: una portata complessa, organizzata su una spinta gustativa temeraria, all’apparenza eccessiva, ma che in realtà ha svelato un’intelligenza organizzativa impressionante, unendo terra e mare attraverso la fermentazione della frutta e la sapidità dei ricci di mare per creare un terreno gustativo comune fondato sulla forza di acidità, amaro e salmastro. Sono state quindi abbattute pregiudizievoli barriere ideologiche per un’esperienza universale.

In chiusura, come accennato in precedenza, impressionanti anche i dessert, dove ci risulta impossibile non citare Royale di cioccolato, nocciola torbata, caffè e tartufo una chiusura in linea con le portate precedenti, dove il reparto dessert si è camuffato da portata principale proponendo lunghezze tostate della nocciola, eleganza del tartufo e intensità del cioccolato che hanno rimandato alla notoria lièvre.

In conclusione, una cena notevole che ha dimostrato e confermato delle potenzialità dalle vedute assai ampie che sapranno regalare, ne siamo certi, esperienze ancor più indimenticabili.

IL PIATTO MIGLIORE: Riso, pesca fermentata, riccio di mare e pasta di arancia

Oltre i confini

A metà degli anni ‘50, a Cupramontana, dove il Verdicchio Classico trova la sua massima espressione, nasce Umani Ronchi, cantina emblematica per il suo solido legame con il concetto di famiglia e di identità territoriale. È Gino Umani Ronchi a muovere i primi passi verso ciò che diventerà una grande realtà marchigiana e non solo: inizialmente affiancato da Roberto Bianchi e Massimo Bernetti, cederà negli anni ’60 l’intera attività e i rispettivi vigneti alla famiglia Bernetti.

Conservandone il nome e promuovendo una costante ricerca in termini di qualità e sperimentazione in ambito agronomico ed enologico, Umani Ronchi intraprende un nuovo percorso imprenditoriale trasferendo la propria sede ad Osimo, corredandosi nel tempo di una cantina, ristrutturata nel 2000, volta alla vinificazione e la valorizzazione del Rosso Conero oltre che del Verdicchio. Negli anni è Michele, il figlio di Massimo, ad affiancare il padre con l’obiettivo di far crescere l’azienda aumentando la superficie agricola di proprietà estendendo i confini della tenuta verso l’Abruzzo e, ultimo ma non ultimo, avvalendosi della collaborazione di un enologo importante: al secolo, Giacomo Tachis.

Dai Castelli di Jesi, dove la terra caratterizzata da terreni argillosi e il Verdicchio trova la sua dimensione, fino al Conero, dove i vigneti vicini alla costa risentono dell’influenza mitigatrice del mare e dei terreni calcarei, i 210 ettari totali di proprietà si completano in terra abruzzese. L’accezione nei confronti di un approccio etico e volto alla salvaguardia dell’ambiente nella sua biodiversità parte proprio da Tenuta Centovie, 35 ettari coltivati sulle pendici di una collina esposta a sud-est/sud-ovest nei pressi di Roseto degli Abruzzi, nel teramano. Qui, da terreni alluvionali con uno strato franco argilloso sabbioso da cui a tratti affiora la ghiaia sottostante, nascono vini di grande identità, complice anche la vicinanza con il Gran Sasso e all’influenza mitigatrice del Mar Mediterraneo, le uve Montepulciano, Trebbiano e Pecorino godono delle ideali condizioni per esprimere appieno la propria aromaticità.

Ed è proprio in Abruzzo che nel 2001 nasce il progetto di conversione e certificazione biologica dei vigneti Umani Ronchi, che si estende dal 2013 alle Colline del Verdicchio e dal 2016 al Conero. Un nobile intento che mira alla valorizzazione del territorio e della sua produzione, forgiando vini come il Montepulciano d’Abruzzo Bio Centovie e il Pecorino Bio Centovie, oltre ai rossi del Conero da uve Montepulciano, dagli avvolgenti ed eleganti tannini, o ai bianchi dalla lunga potenzialità evolutiva a base Verdicchio e Chardonnay.

La degustazione

Montepulciano d’Abruzzo DOC Bio Centovie 2018

Da uve 100% Montepulciano dalla perfetta maturità fenolica nasce il Centovie 2018, espressione di un territorio d’alta vocazione. Alla prima fase di fermentazione in serbatoi d’acciaio segue l’affinamento in parte in botti grandi e in parte in legno piccolo per un periodo di 12-14 mesi, che termina in bottiglia per altri 6-8 mesi. Nel suo distintivo colore rosso rubino con delicati riflessi violacei si fanno spazio le note di marasca e di mora avvolte in sentori speziati dolci di tabacco e tè nero, dall’attacco morbido al naso. Lo stesso spettro di sensazioni si esprime al palato dove un tannino in punta di piedi gioca con un’acidità misurata e una prestanza di medio corpo, ma dall’ottima beva.

Pecorino IGT Bio Centovie Colli Aprutini 2020

Dalla selezione delle migliori parcelle del vigneto di Roseto degli Abruzzi le uve Pecorino provenienti dalla raccolta manuale delle stesse nella prima metà di settembre, convogliano in una soffice pressatura e una fermentazione in serbatoi d’acciaio per circa 20 giorni, a cui segue un affinamento per circa 12 mesi in cemento e 5 mesi in bottiglia. Il bel color giallo paglierino che risplende nel calice conduce un naso molto espressivo, che spazia da sentori di camomilla, fino alla pesca bianca e la susina gialla, corredandosi della balsamicità della nepetella. La seducente freschezza già scorta all’olfazione si conferma in una bocca di buona tensione, dall’apertura agrumata e dalla sapidità che ne allunga il sorso, affilato e intenso.

* I vini di Umani Ronchi sono distribuiti da Partesa.

Una sfida ai fornelli per sancire il migliore abbinamento con il Pecorino Offida DOCG

Il mondo del vino è alla costante ricerca di nuovi modi di comunicare, specie per avvicinarsi a quel giovane uditorio rappresentato dalla ‘generazione Z’, che dei vecchi formalismi sembra averne piene le tasche. Ecco, quindi, che il Consorzio dei Vini Piceni, in collaborazione con la Camera di Commercio delle Marche e l’Azienda Speciale LINFA, si è impegnato a fondo in questa direzione, dando vita a un format coinvolgente e fuori dagli schemi: “Autoctoni Gourmet”.

L’Harena Chef Academy di San Benedetto del Tronto ha ospitato la prima edizione dell’evento: una sfida ai fornelli nella quale sei divulgatori del settore, ognuno dei quali è stato affiancato da uno studente dell’Istituto Alberghiero De Panfilis di Roccaraso, sono stati invitati a riprodurre il piatto Risotto, fonduta di Pecorino e indivia su crema di rape dello chef Arcangelo Tinari, del ristorante Villa Maiella, una Stella Michelin. Il fine ultimo della sfida? Creare il miglior abbinamento con l’Offida Pecorino DOCG, vino principe del territorio.

La gara

A vincere la sfida moderata da Tinto, voce della trasmissione ‘Decanter’ in onda su Rai Radio 2, sono stati il giornalista Giambattista Marchetto e la giovane studentessa Angela Aniello. Membri della giuria erano:  Leonardo Romanelli, giornalista e critico enogastronomico, Alberto Cauzzi di Passione Gourmet, Giorgio Savini, presidente del Consorzio Vini Piceni, e infine lo chef ideatore del piatto, Arcangelo Tinari.

Autoctoni Gourmet” – dichiara Giorgio Sabatini, Presidente della Camera di Commercio delle Marche – “è un format nuovo su cui abbiamo scommesso con entusiasmo e fiducia, perché ha portato esperti, divulgatori di settori e creatori di contenuti digitali ad approfondire in maniera divertente una delle tante eccellenze che nascono in questo territorio. L’obiettivo è quello di dare una serialità a questo format mettendo in evidenza, edizione dopo edizione, tutti i vini che nascono nella nostra regione. L’attività si inserisce nel solco di quelle che Camera Marche porta avanti per l’agroalimentare, un comparto strategico per le Marche dove conta oltre 26.000 imprese e che contribuisce in modo significativo all’ottima performance dell’export. Nei primi nove mesi del 2022 abbiamo esportato prodotti enogastronomici per un valore di 405,4 mln di euro, il 22% in più rispetto a un anno fa”. 

Il Pecorino Offida DOCG, infatti, nel 2021 ha generato una produzione di 1 milione e 725 mila bottiglie. Un “rosso vestito da bianco” a detta di molti, che con la sua buona acidità e il corpo vigoroso si configura come un vino adatto all’invecchiamento, ma allo stesso tempo piacevolissimo se bevuto giovane. L’ennesimo esempio, insomma, di preziosa risorsa del territorio italiano, che vanta la più ampia varietà di vitigni autoctoni al mondo.

Senigallia caput mundi

Senigallia è una cittadina di meno di cinquantamila abitanti sita nelle Marche, sulla costa adriatica, la quale, nonostante le modeste dimensioni, ospita due dei migliori ristoranti italiani: quello di Moreno Cedroni e quello di Mauro Uliassi. Tutto ciò non è tuttavia frutto solo del caso, Senigallia si trova in una posizione strategica al centro della Penisola, vicina a ben cinque differenti regioni e su una delle principali vie di collegamento tra nord e sud.

La presenza nel medesimo luogo di due Chef di tale calibro ha instaurato una proficua rivalità e un continuo stimolo al miglioramento, mantenendo tuttavia una forte identità e peculiarità che distingue e contraddistingue i due ristoranti. Tanto la cucina di Uliassi è rock’n’roll, caratterizzata da sapori netti e decisi quanto quella di Cedroni alla Madonnina del Pescatore è lisergica e psichedelica, sempre ludica ma non per questo priva di profondità. Si tratta infatti di una cucina che sotto i divertenti e scanzonati riferimenti pop (Peanuts, Banksy…) rivela un alto grado di sperimentazione e una abilità nel trattare il pesce nella sua interezza veramente fuori dal comune.

No Pesce? Cedroni scherza, o quasi…

Il menù scelto (“Luca e Moreno…NO Pesce“) non prevede al suo interno alcun piatto di pesce fresco, ma fanno capolino molluschi e crostacei così come numerose interiora ittiche, che rivelano tutta la maestria di Moreno Cedroni e del sous chef Luca Abbadir.

Si parte con una serie di snack iniziali tra cui spiccano la Zampa di gallina con caviale citrico, maionese di moscioli, percebes e polvere di cavolo viola fermentato accompagnato da un perfetto margarita; il “Pane, burro e marmellata di mandarini” in cui il burro è sostituito con il fegato della rana pescatrice e la crema cotta ai ricci di mare, cervello di vitello, pane croccante, olio di prezzemolo e un cucchiaio di aceto di Jerez, è caratterizzato da grande complessità e stratificazione gustative: ricchezza e freschezza/acidità vanno di pari passo.

A seguire uno dei pochi piatti già in carta negli anni precedenti di Cedroni, nonché uno dei migliori dell’intero menù, “Ricordo di un viaggio in Vietnam”, ovvero ostrica alla brace, cavolo viola, mela e peperoncino basato su giochi di temperature, acidità, note leggermente piccanti e salinità per una pulizia al palato davvero incredibile; nonché due fantastici primi piatti, golosi ed equilibrati: Fusilloni al burro di erbe, trippe di coda di rospo e salsa al parmigiano e Mandorle e Penne al burro di ricci di mare, capesante essicate, erbe e seppie ai carboni (aggiunta à la carte) con i suoi sentori bruciati e le note amaricanti e marine.

Non mancano, poi, centrate espressioni della cucina mari-monti, tipica della Regione, come nel caso del Polpo (con cottura a 97 gradi), mascarpone, mostarda, cetriolo in agrodolce e cuore di vitello, presente in due declinazioni, tagliato sottile come un carpaccio e grattugiato come un katsuobushi, che evidenzia un sapiente uso delle diverse consistenze, e in quello della Royale di mazzancolle, gamberi rossi, salsa di lepre e lampone, brillante e irriverente reinterpretazione del classico francese.

Un capitolo a parte, infine, lo merita lo studio sulle frollature del pesce realizzato dal duo Cedroni-Abbadir con precisione scientifica all’interno del “Tunnel”, attrezzatissimo laboratorio di ricerca gastronomica, dotato di una apposita cella a umidità controllata e ozono, in cui vengono realizzati veri e propri “salumi ittici” (salsiccia di orata, pata negra di tonno, ventresca di ricciola in porchetta, solo per citarne alcuni), che se da un lato richiamano le loro controparti di terra, dall’altro realizzano esiti veramente strabilianti di concentrazione e salinità che da soli valgono il viaggio.

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Nello splendido paesaggio del Monte Conero, la bella realtà capitanata da Luca Sancricca

La vista su Sirolo e l’Adriatico, dall’alto del Monte Conero, è un’esperienza oltremodo appagante. Vale la pena percorrere le strade non sempre confortevoli che conducono sulla sommità dei Sibillini, dove poter ammirare uno scenario che ha davvero pochi eguali in Italia. In questo contesto assume ancor più significato trovare una realtà come quella de La Ginestra in Fiore, grazioso e inaspettato ristorante capitanato da Luca Sancricca, cuoco abile e dall’ottima tecnica, con esperienze di rilievo in importanti cucine dello Stivale, tra cui Cracco.

Sancricca è persona molto disponibile e intelligente, sentendolo parlare si coglie una visione assai pratica e diretta della cucina, senza sacrificare una tecnica messa al servizio prima di tutto del commensale. Perché quella de La Ginestra in Fiore è una cucina classica, diretta, senza fronzoli, nella quale la parola d’ordine è garantire sicura riconoscibilità dei sapori per non stranire l’ospite meno avvezzo. Il che potrebbe tramutarsi in una semplificazione eccessiva, dai tratti banali, manchevole di qualche scintilla personale atta a garantire identità riconoscibile al menù, ma il pericolo è presto scampato grazie a quella stessa tecnica che regala delle preparazioni intelligenti nella loro immediatezza.

Prendiamo l’esordio, l’ottimo Scampi marinati con gazpacho di cocomero, crema di bufala, marshmallow al limone, foglia di ostrica e cialda al basilico: un piatto che rivendica la propria mediterraneità, giocando su una rotondità gustativa innalzata dalla marinatura degli scampi in succo di agrumi, capace di conferire una lieve nota acida in contrasto con la consistenza delle carni, seguita dalla nota vegetale della foglia d’ostrica e dalla croccantezza della cialda. Un piatto elegante e ben realizzato.

Stessa conferma l’abbiamo trovata negli ottimi Casoncelli alla curcuma ripieni di melanzane alla parmigiana, polpo grigliato affumicato su crema di brie e pomodori confit. La pasta, tirata a mano, ha presentato uno spessore non troppo fine, dunque capace di conferire una consistenza persistente a ogni boccone, dalla quale la melanzana ha manifestato una bella rotondità gustativa, di stampo dolce, capace di inframmezzarsi con la nota affumicata del polpo. In chiusura lunghezza del brie ingentilita nuovamente dalla dolcezza dei pomodori. Un piatto riconoscibile e immediato ma assai riuscito nella sua golosità e confortevolezza.

Ben eseguito anche il dessert, Semifreddo al caprino con cuore cremoso al pistacchio affumicato, salsa al lampone e crumble al riso soffiato, capace di alternare giochi di consistenze tra morbidezza e croccantezza, al netto di un delicato contrasto tra la parte lattica ovina e l’acidità del lampone.

Chiudiamo con una nota sul servizio in sala, ottimo nell’alternare levità e professionalità innalzando l’esperienza a momento di convivialità in linea col contesto rinvigorente e bucolico della location, cui vi invitiamo a prendere parte.

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