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Marè

Dalla colazione alla cena, pied dans l’eau

Un bar adatto a colazioni? Uno stabilimento balneare? Un ristorante da rapida pausa pranzo o da lunga cena serale? O un luogo ideale per un aperitivo di qualità vista mare?
La risposta al Marè è: di tutto un po’.

Passare qualche ora in questo bello stabilimento balneare, in cui torniamo sempre volentieri, ci ricorda quanto sia importante la vision in una impresa di successo: saper immaginare il proprio scenario futuro, anticipando anche le richieste del mercato… Quando, nella primavera 2010, vedeva la luce Marè, Luca Zaccheroni, il proprietario, sapeva esattamente dove voleva andare: fare del suo locale un punto di riferimento, dalla mattina alla sera, prima di tutto per la clientela del posto e poi, perché no, per gli appassionati disposti a fare km per passare qualche piacevole ora a tavola. Un locale dal respiro internazionale, dove abbinare l’unicità dell’accoglienza romagnola con le idee e le scelte di un viaggiatore curioso.

Il piacere di una cucina gourmand

Il duraturo legame con Omar Casali, lo chef del Marè, è stato quanto mai azzeccato: un cuoco con solide basi tecniche ed evidenti capacità organizzative, in grado di gestire un grande numero di coperti senza rinunciare a qualità e attenzioni. La scelta è caduta su una cucina gourmand, morbida e gustosa, finanche eccessivamente rotonda in alcuni frangenti ma mai stucchevole. Una cucina che è il giusto compromesso tra qualità e costi, che magari non farà gridare al miracolo ma che certamente appagherà in tutto e per tutto, donando una rappresentazione moderna della classica cucina da “bagno” romagnolo aperto, in stagione, tutti i giorni, da mattina a sera.

Il risultato è, come nelle nostre precedenti visite, una sosta di grande piacevolezza in un ambiente che, anche a cena, sa essere estremamente accogliente e confortevole, anche con bambini al seguito. L’ennesima conferma che, in fatto di ristorazione, la Romagna ha sempre qualcosa da insegnare!

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La trattoria contemporanea di un grande cuoco

Si auto-definisce un trattore-contadino, Damiano Donati, che ha impresso la sua svolta qualche tempo fa in campagna dove, sporcandosi le mani, ha capito anche dove risedeva l’essenza stessa della sua esistenza.

Un profondo attaccamento alle radici terrene, un ampio e articolato pensiero contadino che lo fa innamorare una volta di un ortaggio, l’altra dei grani antichi dimenticati, l’altra ancora di una fermentazione – peraltro è anche produttore di un fantastico sidro e, si dice, di un ottimo vino, ma questa è un’altra storia – nonché di quella agreste sapienza in grado di trasformare un grande prodotto in  un ingrediente.

Cosa che gli ha permesso di coltivare il suo talento, l’estro e la sua tecnica; culinaria, ovviamente! Messa al servizio di un progetto nuovo, diverso, apparentemente più semplice, ma in realtà ricco di contenuti. Perché Damiano è cavallo di razza, un talento sconfinato che si evince sin da piccoli dettagli, nonché una tecnica sopraffina che lo fa assurgere, peraltro, al livello del grande pasticcere. Mano fine, dicevamo, unita a senso del gusto e a questo rinnovato spirito campagnolo fa della sua cucina e del suo ristorante, il Punto, uno degli avamposti dell’avanguardia della nuova trattoria italiana.

L’evoluzione di un grande ristorante verso una grandissima trattoria

Ecco perché vogliamo fortemente virare verso una valutazione in cipolle. Nessuno immagini una retrocessione, anzi! Perché si tratta, secondo noi, di contestualizzare un luogo, una cucina ma sopratutto un approccio filosofico che tende all’eccellenza nel suo settore. Poi, chissà perché, si pensa erroneamente alla trattoria come sinonimo di cucina greve, a tratti approssimata, scostante. Niente di più sbagliato, se consideriamo come Damiano sia riuscito a coniugare i plus di una grande trattoria – prodotti straordinari del circondario e tecnica – con l’estro e la raffinatezza di un grande, grandissimo cuoco.

Il risultato ? Stupefacente, eccelso.

La tarteletta, il riso, la quaglia e tutti i dolci, con una pierangeliniana crèpe suzette in pole position, sono tutti lì a dimostrarlo.

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A Roma, alla potenza si affianca il controllo

Anthony Genovese lo conosciamo da molto tempo; sin dall’apertura, datata 2003, abbiamo frequentato il suo delizioso ristorante ubicato in zona Campo de’ Fiori, con la nitida impressione di trovarci di fronte a un grande talento caratterizzato dall’uso di ingredienti e spezie esotiche, di molte componenti evocative, di uno stile molto personale, senza alcun punto di riferimento.

Negli anni lo abbiamo apprezzato e osannato per la sua cucina non usuale, per nulla minimalista, ma sempre molto incisiva. Ma lo abbiamo anche in qualche modo criticato per i suoi eccessi, per i suoi frequenti fuori giri, per il talento smisurato di pensiero che non sempre trovava il giusto equilibrio gustativo e aromatico. La potenza non è nulla senza il controllo, recitava un famoso spot di pneumatici… fino ad ora.

Perché Antony Genovese, con la maturità, ha impresso un controllo formidabile alla sua cucina che pur resta di grande estro e potenza, come confermano le numerose visite fatte in questo periodo, e che in quest’ultima, in particolare, ci ha fatto gioire di piccoli miracoli culinari qual è l’ormai classico viaggio di foie gras e ricciola, con brodo di kiwi fermentato, a impreziosirlo.

Altro colpo decisamente interessante l’asparago tropicale, in cui la nota fenica dell’asparago è allungata mirabilmente dalla sapidità-iodata del caviale e dalla fragranza aromatica del latte di cocco. Nota che, peraltro, è enfatizzata dagli asparagi selvatici.

E poi piatti come il gambero rosso, la rosa mirtilli e scalogno passando per  i “berlingò” carciofi, ossobuco e sarda affumicata e dunque arrivando al fegato alla pechinese sono fulgidi esempi di classe, originalità ed equilibrio gustativo combinati con una moltitudine di ingredienti da una mano delicatissima.

Un grande balzo in avanti che è stato anche propiziato da Matteo Zappile, abile Restaurant Manager che, con la sua classe ed eleganza, ha saputo costruire una squadra di giovani rampanti e preparati, con la punta di diamante del giovane sommelier Luca Belleggia. Quanto a Matteo lui ha, in accordo e con la partecipazione dello chef, ripensato gli arredi, l’illuminazione, le stoviglie, la mise en place, attuando un profondo lavoro di ricerca del bello mai scontato e, men che meno ostentato, nel pieno solco della cucina del suo grande, grandissimo Chef.

“Nel suo complesso quella del Pagliaccio resta una di quelle esperienze che difficilmente si dimenticano, in grado ogni volta di allargare gli orizzonti gustativi di ogni appassionato, anche del più smaliziato. Senza dubbio una delle migliori tavole capitoline” dicevamo nella nostra ultima recensione.
Oggi correggiamo questa frase: siamo assolutamente e innegabilmente al cospetto della migliore tavola di Roma Capitale.

Una delle massime espressioni di Albert Adrià 

Siamo nel quartiere di Sant Antoni, dove il genio di Albert Adrià ha dato vita a El Barrì: l’immaginario barrio che comprende i suoi sei ristoranti di cui Tickets, insieme a Enigma, costituisce la punta di diamante.
Sedersi qui richiede una notevole dose di fortuna: il ristorante è sempre sold-out e le prenotazioni, esclusivamente online, si esauriscono nel giro di pochi secondi. Tuttavia, se riuscirete a conquistare uno dei tickets che garantiscono l’accesso a una delle quaranta sedute di Avinguda del Parallel, la fatica sarà ripagata.

Più che un tapas bar, un eccellente ristorante gourmet

Ma diciamolo subito: la definizione di tapas bar non rende giustizia a Tickets, che è molto di più di quello che recita il nome. Vi è la dimensione onirico-ludica del circo che, appena varcata la porta, fa tornare bambini travolti da un’atmosfera piacevolmente kitch che va delle insegne luccicanti (coi motti la vida tapa, tapas es libertad), agli schermi al neon, alle locandine teatrali fino alle divise da domatori del personale di sala, mentre i camerieri addetti ai dolci sono abbigliati alla maniera degli sweet soldiers.

Un teatro che non offusca il livello della cucina, anzi di queste cucine, poiché in realtà sono quattro, e a vista, le postazioni in cui vengono effettuate le preparazioni. Ma è filologicamente corretto il concetto: perché la cucina si articola sul concetto spagnolo di tapas, qui nella sua versione più libera dallo schema canonico. L’avventore, poi, ha la libertà di scegliere la mezza porzione, per favorire più assaggi, o la porzione intera, da condividere senza imbarazzi. Eppure, benché la traccia sia quella delle tapas, appunto, qui le stesse sono sublimate e, con sovente ricorso alle più moderne tecniche, sono sempre golosissime, caratterizzandosi per perfette cotture, realizzate al millimetro, e l’assemblaggio di materie prime di altissima qualità.

Una sarabanda, salata e dolce, di circa quattro ore 

Mai come in questo caso il racconto del nostro pranzo non può ridursi all’elenco di una serie di pietanze: si è trattato di un travolgente baillamme gastronomico di circa quattro ore, in cui ci sono state servite quasi una trentina di tapas, tutte notevoli sotto ogni profilo. Sull’oliva sferificata iniziale, di bulliana memoria, stati spesi fiumi di parole. Proseguendo, portiamo ancora il ricordo della burrosa tartare di tonno con la sua bottarga, i cui sapori sono poi riepilogati alla perfezione nel crackers servito al lato, e dell’ostrica cotta al forno e servita con un brodo di funghi trompetas a allungare la nota iodata. Materia prima da urlo nel gambero ripieno di wagyu, assolo di tecnica il “paesaggio nordico”, giocato sul contrasto tra  dolcezza di cipolla e rubia gallega e acido di panna e neve di aceto. La ghiotta quaglia wellington ripiena delle sue uova, spinaci, funghi, che ha concluso la parte salata del menù, aveva mantenuti intatti i suoi succhi grazie alla perfetta cottura al forno sui carboni, con l’indimenticabile millefoglie in accompagnamento.

Dopo essere catapultati nel bel mezzo di un film con Willy Wonka a farci compagnia e giganteschi frutti di bosco e fragole che scendono dal soffitto, parte la kermesse dei dolci: tra quelli serviti, abbiamo apprezzato particolarmente una splendida  tartelletta ai mirtilli e un’originale cheese cake.

In conclusione: “venghino siori, venghino”, al circo di Tickets c’è da divertirsi!

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Un delizioso scrigno di bontà dall’atmosfera retrò

Delle sei creature gastronomiche degli Adrià, Bodega 1900 costituisce la linea prêt-à-porter ed è la testimonianza che una formula imprenditoriale di successo – il ristorante fa doppio servizio quasi continuato dal martedì al sabato, ed è sempre pieno – si può coniugare con un’offerta di ottima qualità, per livello del cibo e professionalità del servizio.

Bodega è una bottega, appunto, dai soffitti in legno chiaro, la cui atmosfera è rimasta quella originale di inizio ‘900, zeppa di cosa deliziose.

Appena varcata la soglia, si viene accolti da un trionfo di prosciutti, formaggi, e conserve d’autore, mentre gli indaffaratissimi ma sorridenti cuochi che lavorano a vista salutano calorosamente; da un angusto corridoio si giunge alla sala da pranzo, deliziosamente fané, e caratterizzata da foto storiche, tavoli in marmo e specchiere d’antan a dare profondità a un ambiente molto intimo, con la presenza di un’altra cucina a vista perimetrata da pesci e crostacei, oltre che da grappoli di pomodori e carciofi freschi.

Un’ottima offerta di tapas e materie prime di grande qualità, difficile fermarsi!

La carta, consultata sorseggiando un profumato vermouth Dorado, è divisa tra pesce, carne, verdure, salumi e formaggi: materie prime eccellenti e preparazioni tradizionali catalane, ma anche del resto della Spagna, riviste in chiave contemporanea. Scegliere è davvero difficile, ma ancora più difficile è fermarsi, tra prodotti selezionati, cotture perfette, concentrazioni di sapori, consistenze azzeccatissime.  

Dopo le iconiche olive sferificate e un piatto di rubia gallega alle spezie, abbiamo assaggiato l’insalata russa migliore di sempre, con una maionese al tonno che ancora ricordiamo, e un huevo frito alla perfezione dalla sontuosa cremosità, con jamon iberico. Il passaggio dei piselli (guisantes) con trippa di baccalà, maiale e menta, ha preceduto la mollete de calamares  – piatto della serata, ci ha costretti al bis –  uno stiloso e gustoso hot-dog di calamari, poi assaggiati anche ripieni di maiale, con una vellutata salsa al nero di seppia (calamarcito). La successiva portata vegetale, coca calzot, un cipollotto tipico catalano servito su una galletta croccantissima e accompagnato da pomodoro al sentore di aceto ha confermato le aspettative, mentre il ghiotto boccone della molletta de papada, una focaccia alla guancia di maiale, ha preceduto la chiusura delle tapas salate: polpette al pomodoro (albondigas) della tradizione.
Anche i dolci ci hanno conquistato: per eleganza, sviluppo orizzontale e verticale la Naranja, per cremosità la torta de queso e il flan. 

Lo splendido chupito di Ratafia “casera” offerto a fine pasto e le mini posate a misura di assaggio di tapas griffate Albert Adrià confermano l’attenzione a ogni dettaglio, per un’esperienza che merita da sola il viaggio a Barcellona.

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