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Opificio

Cucina e bottega a Novara

Fabio Barozzi, il proprietario di Opificio, ha coraggio da vendere. Conosciamo bene la piazza novarese, non avvezza da un lato alla qualità e alle proposte innovative. Il pubblico locale è legato alle tradizioni, poco importa che nel frattempo siano in parte decadute o siano state sostituite da importanti novità. La storia è sicurezza. Beh, il patron, in questo progetto, ha deciso di rischiare, puntando dritto verso ciò in cui crede.

Ma gli innovatori servono a questo, a vedere più in là del proprio naso. Ecco quindi trasformare una ex cereria nella prima periferia di Novara, pur essendo comunque a due passi dal centro, in un locale, all’uopo anche bottega con prodotti di qualità, concepito per aperitivi con proposte non scontate e ristorante-bistrot con una squadra in cucina decisamente giovane, motivata e capace. Lo staff ai fornelli è composto da Alessio Ghiringhelli e Laura Angelina, la squadra si completa con Francesca Ranieri e la pasticcera Marta Loiacono. In sala, oltre al patron, Matteo Borsari, ex-Chef dell’Opificio, c’è una squadra altrettanto giovane e ben istruita come in cucina.

Come detto, il progetto è molto interessante e ha confermato tutte le aspettative anche alla prova pratica. La carta dei vini è intrigante e non banale, la cucina davvero divertente, moderna, attuale e molto piacevole. L’uso del km zero, qui, non è da intendersi come slogan ma come tentativo, ben riuscito, di valorizzare il circondario e, al contempo, di ottimizzare i costi senza andare a discapito della qualità, che anzi ne risulta enfatizzata.

Così, in un’afosa sera di mezza estate, abbiamo degustato un ottimo Carpaccio di melone, friggitelli al carbone, fragole verdi conservate, fiori di aglio orsino in miele e uno splendido Riso di Busonengo, burro ai limoni, latticello, olio alle foglie di fico. Tra i secondi, un’Anatra su fondo d’anatra e ciliegie sotto spirito accompagnata da un burro rancido con sentori umamici di Parmigiano.

Bel progetto, ottimi prodotti, cucina di qualità. Benvenuti, finalmente, a Novara.

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La vis creativa del menù 2021

Un celebre adagio nietzschiano faceva del caos interiore il responsabile di una creatività luminosa, efficacemente descritta dal filosofo apolide con l’immagine di una stella danzante. Ebbene, non è improbabile che, in una parabola creativa di lungo corso come quella di Moreno Cedroni, a iniettare un’ulteriore, caotica spinta creativa abbia contribuito il suo braccio destro, Luca Abbadir, fautore del The Tunnel, il laboratorio di ricerca e sviluppo della Madonnina del Pescatore, nell’anno del Signore 2019. 

Ma con un corollario assai diverso da quello di Nietzsche perché, qui, la creatività si manifesta piuttosto e più volentieri nella solidità e nella stabilità. Lo dimostra un menù che, benché poco cambiato negli ultimi due anni, si fa oggi più profondo e più cerebrale perché sottoposto a sottili, costanti rimaneggiamenti e drappeggi che, solo adesso, e più propriamente, lo ridefiniscono, mettendolo decisamente più a fuoco.

Un lavoro di cesello che, in particolare, ha coinvolto tutto tranne il reparto pasticceria, l’unico dove, invero, imperversa ancora lo stesso approccio ludico e, per certi aspetti, anche naïf, del primo Cedroni, vivo ancora oggi di una vis giocosa e intelligente ma, appunto, più a fuoco e più profonda, più coraggiosa, anche, e sempre molto prodiga di dettagli personali e autobiografici.

Adriatica rivoluzione: la frollatura del pesce

Come accade con la maturazione del pesce, che rappresenta il prosieguo di un lavoro avviato nel lontano 2000 benché mai divulgato prima né portato, finora, mai a tavola. Dopo poco più di vent’anni col menù 2021 il mondo appare dunque pronto per questa rivoluzione, che contempla l’idea di accogliere la materia ittica nella sua interezza fino quasi a portarla al suo limite massimo: la frollatura, di cui la Riviera Adriatica sta diventando il fuoco in termini di sperimentazione.

Una materia che impone, da sola, un trattamento speciale: al tavolo.  Sempre espresso e sempre preceduto da un momento di taglio e preparazione che mette in risalto la perizia e le frequenze cromatiche delle varie stagionature servite in ordine crescente, l’effetto “clinico” è presto sdrammatizzato dalla presenza stessa dello Chef che, in versione maître au gueridon o, se preferite, Itamae di Senigallia, presso ogni tavolo si occupa personalmente dei tagli, fatti al momento, e di nappature che sono veli leggerissimi, studiati all’uopo.

Oltre a questo, tra i piatti più efficaci segnaliamo senz’altro la royale di riccio insolitamente fusion nel legame che instaura tra l’usanza sicula di consumare i ricci crudi col pane, la scuola classica francese presente grazie a panna e uova e i rimandi, più vernacolari, alla grigliata sul mare, presentificata da pan grattato e prezzemolo.

Oltre a ciò ritroviamo anche un piatto nato già grande: le penne, burro e ricci di mare che varrebbero, da sole, il prezzo totale del biglietto. Solo un piatto di pasta? Manco a dirlo perché qui ci sono manifeste manifesti in uno: quello, individuale, dello Chef e quello, collettivo, dell’italianità tutta. Innanzitutto perché al posto della posata classica è sagacemente imposta all’ospite una pinza che costringe a gustare le penne una ad una come a dire, con eco nazional-popolare, che chi va piano va sano e va lontano. Poi, per il deliquio con cui il burro ai ricci di mare e la polvere di capesanta sposano le rispettive sapidità alle note amare ed empireumatiche di ortica e seppie sui carboni, il tutto in una consistenza da manuale, impreziosita dalla stellina di ricci di mare liofilizzati da sbriciolare, tra le dita, a proprio piacere.

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La maturità di un eterno ragazzo, a Senigallia

È quasi impossibile credere che Moreno Cedroni e Mariella Organi abbiano festeggiato il compleanno della Madonnina del Pescatore soffiando, assieme sin dall’inizio di questa straordinaria avventura, ben 36 candeline. Impossibile perché vedendo l’energia, la vitalità, la freschezza con cui entrambi conducono questo splendido luogo non si può credere che la loro storia sia cosi lunga. Ebbene, sì, il trucco nella vita è proprio questo e loro ce lo insegnano, mettendo sempre una straordinaria passione in ciò che fanno tutti i giorni coadiuvati da un sous chef, Luca Abbadir, che ha sposato in pieno la filosofia della casa e si è integrato splendidamente.

Però, c’è un però. Spesso parliamo della incredibile cucina di Moreno e Luca, Luca e Moreno, che anche quest’anno ha superato se stessa. Ma ci dimentichiamo di raccontare quanto la sala di questo magico luogo, condotta amabilmente dalla sua padrona di casa, sia in un crescendo continuo. Attenzioni discrete, passo svelto ma mai evidente, una macchina perfetta che gira come un orologio svizzero. E che soprattutto vi inonderà di calore e attenzioni, sempre discrete. Ci si sente a casa alla Madonnina, una casa elegante, sobria, d’altri tempi. Un caldo tepore che allieta l’anima.

Ma anche la cucina, dicevamo, non si è affatto fermata anzi ha continuato la sua progressione e il suo miglioramento continuo sebbene con la storia e il blasone che questo ristorante ha alle spalle, forse, non ce ne sarebbe nemmeno stato bisogno. Eppure è così, crescita continua, mai fermi sulle posizioni. Tant’è che quest’anno a fianco di qualche nuova entrata, derivata direttamente dallo studio portato avanti nel tunnel – il laboratorio di ricerca della Madonnina – sono comparsi molti piatti storici abilmente rivisitati e attualizzati.

Parliamo, ad esempio, del quattro cucchiai, antipasti crudi e cotti, del San Pietro alla mugnaia o del fantastico spaghetto psichedelico. Piatti simbolo puntualmente e ampiamente ritoccati e rivitalizzati sebbene, sinceramente, a questi livelli non ce ne sarebbe stato nemmeno bisogno. È proprio qui che risiede la grandezza di questo chef e di questo luogo: fermarsi mai, accontentarsi mai. Sempre in movimento, continuo e costante.

La crema cotta ai ricci, il cannolicchio, l’ape regina, costituiscono oggi il coronamento di una ricerca e di una direzione di cucina davvero originale e molto, molto interessante, nonché piatti di una intensità inaudita, che assieme alle penne al burro ai ricci – liofilizzati – ci hanno letteralmente fatto sobbalzare sulla seggiola.

Quindi un ennesimo “bravo!” a tutta la squadra della Madonnina del Pescatore: un luogo che abbiamo nel cuore e nell’anima.

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E’ passata almeno una dozzina d’anni da quando Gualtiero Marchesi mi intratteneva su un vialetto dell’Albereta, da assistente alle prime armi, interrogandosi sull’inopinato exploit spagnolo: “La loro forza è la mancanza di storia: se non avessero orizzonti così aperti non potrebbero fare ciò che fanno”. Bizzarra ammissione da parte di chi si dedicava da svariati decenni alla de-etnicizzazione del patrimonio gastronomico italiano, sublimato, corretto, dealgebrizzato nelle forme affascinanti di una contemporaneità elusiva. Quello che forse non poteva immaginare, era che lo stesso mulinello antistorico avrebbe generato tifoni di eguale potenza tanto sul fronte boreale che lungo le sponte dell’Atlantico, e domani chissà dove. Andando a cercare la tabula rasa su cui poggiare piatti glabri ed enigmatici, inesorabilmente astratti nella loro radura che sembra spazzata dalla furia di un aspirapolvere globale. Il sogno della Polonia, manco a dirlo, è quello di essere toccata dal vagolare della stessa turbolenza e che questa la scagli sempre più in alto, fin sulla bocca che risucchia ogni orpello. Ma la notte sembra ancora agli inizi: c’è molto da fare affinché la ristorazione possa scavare la sua strada nella coltre affumicata di salsicciotti e aringhe, più stagna forse della cortina di ferro che ha imprigionato la ristorazione nel patto di Varsavia.

Modest Amaro, la vedette stellata della nuova cucina polacca, è un caso a sé. Passato Per il Bulli, il Noma e Le Meurice, allo zenit di una maturità iper-riflessiva, è il grande catalogatore della dispensa polacca, ordinata per habitat con cadenza addirittura settimanale; ben lontano da Redzepi nel rifiuto del riduzionismo (sulla porta del ristorante un cartello recita: “dove la scienza incontra la natura”) e soprattutto nel raffinato estetismo del lavorio di cucina e degli impiattati calligrafici. Di lui, in forze a Varsavia, città coperta dalla smilza guida Michelin, lo storico dell’alimentazione Jaroslaw Dumanowski dice: “Ho mangiato al suo Atelier varie volte e mi ha chiesto di collaborare. Ma quando gli ho sottoposto un corpus di ricette tradizionali, non è riuscito a trarne ispirazione. La sua appartenenza si esprime in altri modi: lavorando sul territorio e i suoi prodotti senza agganci nel passato, estranei alle sue corde”. E a dire il vero nessuno degli chef polacchi sembra intenzionato a ripercorrere le orme di Anatoly Komm, tenacemente abbarbicato alle rivisitazioni di sapori e ricette russe di sempre. Sorta di Marchesi in camice e colbacco fra le onde elettromagnetiche del terzo millennio.

La Pomerania, nell’estremo nord del paese, a poche vogate dalla Germania, con l’archeologia industriale dei suoi cantieri navali sul Baltico, in cui è fiorita Solidarnosc, non è rimasta a guardare. Straordinariamente ricca di prodotti (soprattutto selvaggina, erbe spontanee, funghi e pesce di acqua dolce), che la predispongono al foraging; nonché versata nelle tecniche conserviere tanto in voga oggigiorno, dalla fermentazione all’affumicatura, che propiziano tavolozze gustative sorprendenti, sembra inclinare al pastiche, secondo un’attitudine che si lascia riconoscere anche nel paesaggio urbano, stratificazione di antico e meno antico, dove il restauro mimetico scivola nelle crepe della storia insinuandovi un perenne punto di domanda: vero o falso?

È il caso di Metamorfoza, ristorante situato nel centro di Danzica dall’atmosfera financo trendy, di proprietà di Justyna Zdunek, animatrice del Metamorfosa Gdansk Pronature Project, volto a promuovere la cucina della regione attraverso l’organizzazione di eventi, nonché produttrice di capponi e uova di galline autoctone dalle zampe verdi nella fattoria che manda avanti col marito in zona. Il suo chef Lukasz Toczek innesta su basi internazionali suggestioni spagnoleggianti e brinate scandinave, transitando agilmente dalle uova a bassa temperatura immerse nel brodo di cappone alla guancia di manzo sottovuoto con purea di sedano rapa; dal paesaggio commestibile composto di finti sassi di patate (non pietrificati dal caolino, alla maniera di Andoni Luis Aduriz, ma tinti di verde erbaceo e semplicemente asciugati), funghetti e “muschio” di prezzemolo al microonde all’impeccabile filetto di capriolo sparato con ginepro e mirtilli. Ubiqua la spolverata di acetosella selvatica in funzione acidificante; felice l’utilizzo di ingredienti extracommestibili (come il pino del gelato giustamente resinoso, scalato in una fabula mentale dalla ragnatela dello zucchero filato): una no(r)mazione che è una dichiarazione programmatica.

Altrettanto eteroclita lo stile di Adam Wozniak del ristorante Mercato, presso l’hotel Hilton, che si affaccia sul fiume Motlava, sempre a Danzica, già al timone di Villa Hestia. Recentemente premiato come migliore cuoco del paese, opera una fusione di stili che spazia dalla rarefazione del quasi-ceviche con granita azotata di lime al cappuccino di gamberi di fiume alla Alain Chapel, fino al classico lucioperca con porri e salsa montata di gamberi di fiume. La no(r)malizzazione spunta con maggiore discrezione dal vasetto di cioccolato servito per dessert, bonaria ironia sulle celebri terrecotte danesi. Mentre Bogdan Galazka, chef dal pedigree internazionale del Gothic Cafè, nel ventre dello splendido castello teutonico di Malbork, patrimonio dell’umanità dell’Unesco, si dedica alla de-archeologizzazione di ricette tardo medioevali, attualizzate con disinvoltura, che si tratti della zuppa di spelta al pepe rosa ispirata a Hildegard von Bingen o del petto di pollo al verde liberamente tratto dal Krolewiecka Ksiazka Kucharska, ricettario risalente al XIV secolo.

Tanto che la mente volta a quella contemporaneità del non contemporaneo individuata da Ernst Bloch come caratteristica saliente delle semi-periferie, nel senso che “molte persone, pur vivendo nella stessa epoca, appartengono in realtà ad epoche diverse” ed esperiscono l’attualità attraverso forme sociali e simboliche disomogenee. Quel che ne risulta è un pastiche stilistico che screzia il tessuto archeologico di lampi high-tech (o viceversa): espressioni scarsamente amalgamate, per quanto stimolanti, che vengono facilmente messe in ombra dal foraging elementare di un selvatico arrostito nella foresta sopra un mucchio ardente di braci. Per quanto anche questa strada possa difficilmente condurre lontano.

“Tutto ciò che vive ha bisogno di avere intorno un’atmosfera, una misteriosa sfera vaporosa… ha bisogno di una tale illusione avvolgente, di una tale nube che vela e protegge. E invece la storia è il mezzo scellerato che si usa per accecare: una luce troppo chiara, troppo repentina, troppo mutevole”: la considerazione di Nietzsche suonava tanto inattuale nel 1874 quanto è squillante su ogni tavola contemporanea. Che l’ipertrofia di una cultura storica malintesa sradichi i migliori istinti della gioventù, col rischio di indebolire irrimediabilmente l’impulso creativo, dovrebbe essere oggetto di riflessioni per chiunque si soffermi anche a considerare la marginalità della cucina italiana. “Solo in quanto la storia serve la vita, vogliamo servire la storia”; e tuttavia “dove si trovano le azioni che l’uomo sarebbe capace di fare, senza essere prima entrato in quello strato vaporoso di tutto quanto non è storico”?

Madrid Fusión sta all’alta cucina come il Sundance Festival sta al cinema. Dal suo esordio nel 2003 è il momento più atteso dell’anno da molti gourmet (assieme ovviamente al “nostro” Identità Golose che è ai nastri di partenza): tre giorni per capire quali siano le tendenze attuali e future, per indagare una “cultura” in tutti i sensi con un occhio privilegiato e a volte quasi scientifico, una vetrina che anticipa i tempi che verranno. Da qui sono passati tutti, ma proprio tutti i grandi protagonisti che hanno definito e ri-definito le linee guida dell’arte culinaria negli ultimi due lustri. E ad aprire il congresso di quest’anno c’era un certo Lorenzo Cogo, il nostro enfant prodige di Marano Vicentino.

Siamo lieti di ospitare il resoconto appassionato e intellettuale di una giornalista che a Madrid Fusión è in sostanza di casa. Non credo che esista “penna” migliore di quella di Alessandra Meldolesi per dare una chiave di lettura unica a un evento così esclusivo e importante.

Buona lettura

Bruno Petronilli

È una cucina letteralmente in fermento, quella che è andata in scena a Madrid Fusion 2013. Assise che si è concentrata su big ed emergenti spagnoli, confrontati con una nutrita compagine latinoamericana e una manciata di cucinieri di origini disparate (diversi francesi, soprattutto nel comparto pasticceria; il nostro Lorenzo Cogo, brillante nella sua avanguardia di secondo grado, che combina rapsodicamente le avanguardie in un bricolage d’alta scuola; nonché esponenti della “vecchia Europa”, Austria, Polonia, Svizzera, che si sono fatti ben valere mostrando alcune fra le poche, vere novità del congresso). In fermento perché il mantra invalso dopo il declino del verbo neobarocco e ipertecnologico, quello della Natura sovrana, sin qui declinato in termini di calosce infangate ed ecocucina militante, sembra aver tracimato invadendo lo specifico del cuoco. Sempre meno creatore e sempre più assistente, si direbbe quasi ostetrico dei meccanismi spontanei. A cominciare da quel “marcio” che c’è nell’alta cucina: la fermentazione. Una rivoluzione rivendicata tanto dal brasiliano Alex Atala che dal danese René Redzepi, convitato di pietra del congresso, che di questa tecnica ha fatto un sistema per ovviare all’inclemenza meteorologica delle latitudini boreali senza violare il dogma locavore. Assente eppure mai così presente negli impiattati austeri come nella forsennata reductio di quella che ormai assomiglia a un’anti-cucina (o forse a una cucina antipatica nel rifiuto di qualsiasi blandizia).
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