Passione Gourmet Anteprima Archivi - Passione Gourmet

Colline Teramane Montepulciano d’Abruzzo Docg

Tra la neve e la spiaggia, la vite

Strette tra il Mare Adriatico a est e il Gran Sasso a ovest, le colline teramane si profilano come un luogo di contrasti. Ancora poco battute dal turismo massivo, queste terre offrono quei sapori d’antan che altrove si sono persi, permettendo al visitatore di immergersi tra prodotti genuini ed esperienze autentiche. Uno scenario ideale per la coltivazione della vite, come si è avuto modo di appurare in occasione dell’anteprima organizzata dal Consorzio di Tutela Vini Colline Teramane Docg, che dal 2003 promuove la denominazione che si estende lungo 172 ettari sparsi tra mare e montagna.

Ci troviamo nella parte più settentrionale dell’Abruzzo, al confine con le Marche, su un territorio prevalentemente collinare che scivola verso il mare, dominato ai suoi antipodi dagli imponenti rilievi del Gran Sasso e dei Monti della Laga. Mare e montagna, neve e sabbia dorata, tutto in un solo luogo. Il clima è temperato, con piacevoli brezze provenienti dai monti e dal mare, che donano sollievo nelle giornate più assolate e un’escursione termica che la sera ritempra l’animo.

Condizioni queste, che permettono al Montepulciano di crescere vigoroso e in salute, accumulando nei grappoli tutte quelle sostanze aromatiche che si tradurranno poi in un ottimo vino. Il comune denominatore del “Colline Teramane Montepulciano d’Abruzzo Docg” è infatti l’eleganza. La vicinanza al mare, l’altitudine, la particolare matrice del sottosuolo, danno poi vita a un ventaglio di infinite sfumature gusto-olfattive che sono tuttavia accomunate da una grande, comune, piacevolezza. Un dato evidente soprattutto nelle ultime annate, nelle quali i produttori hanno via via abbandonato la strada della concentrazione del frutto, in favore di vini più fini e sottili, registrando un netto cambio di stile rispetto al passato.

Nel calice fanno così la loro comparsa vini estremamente vitali e tesi, dove il caratteristico piccolo frutto è croccante e l’apporto del legno non appesantisce in alcun modo il nettare, bensì ne rende vellutati i tannini e ne accresce gli aromi con le sue delicate note terziarie.

Alcuni dei nostri migliori assaggi

In occasione de “La nostra anteprima 2022” è stato dunque possibile approfondire la conoscenza di questa piccola denominazione, che conta meno di vent’anni di storia. Trentanove le etichette proposte in degustazione, suddivise tra le tipologie “Giovane” e “Riserva”.

Colline Teramane Docg “Yang” 2020 – Barba

All’aspetto si presenta di un colore rosso rubino piuttosto scarico, dotato di una splendida luce. Al naso si intrecciano viole, visciole e mirtilli croccanti, mentre al palato si nota un tannino deciso molto ben integrato, accompagnato da una bella freschezza. Un vino molto pulito ed equilibrato.

Colline Teramane Docg “Colle Sale” 2019 – Barone di Valforte

Al naso si presenta piuttosto complesso, con note di ciliegia e mora di rovo, rosa, il tocco balsamico dell’anice e le calde note della macchia mediterranea. Al palato è intenso, largo e avvolgente, ben riequilibrato da sapidità e freschezza.

Colline Teramane Docg “Antares” 2019 – San Lorenzo

Di primo impatto spiccano le note terziarie: amarena, dattero, vaniglia, liquirizia, cioccolato… è un naso dolce, carico, che però al palato unisce il tutto con eleganza, aprendosi morbido e chiudendo con maggior freschezza e vivacità.

Colline Teramane Docg Riserva “Castellum Vetus” 2017 – Centorame

Anche qui un colore rosso rubino molto luminoso, che al naso propone note croccanti di marasca e sottobosco, con un delicato richiamo al pellame ben dosato. Il sorso è teso e vivace, con tannini ben integrati, buona freschezza e ravvivato da una bella sapidità.

Colline Teramane Docg Riserva “Terra Bruna” 2017 – Podere Colle San Massimo

Un vino complesso ed elegante, con note scure di frutti di bosco, violetta e pellame, arancia sanguinella e macchia mediterranea. Il sorso è estremamente pulito e succoso, impreziosito da una marcata sapidità.

Colline Teramane Docg Riserva “Torre Migliori” 2015 – Cerulli Spinozzi

Un vino sottile, elegante, che gioca con le sfumature vermiglie sprigionando aromi di ribes e lampone, rose rosse e pepe rosa. Al palato è agile, davvero in forma per la sua età, con tutte le componenti in perfetto equilibrio.

Verticale 2017, 2016, 2015

Il vino di punta della Famiglia Cotarella è prodotto in un territorio di origine vulcanica, la Tuscia, situato tra Lazio e Umbria. L’ispirazione che portò alla creazione del Montiano, una particolarissima espressione di Merlot in purezza, fu il viaggio che fecero Riccardo e Renzo Cotarella nel 1988, in Francia, tra Pomerol e Saint-Émilion. Un vino che, già nella sua prima annata, il 1993, suscitò scalpore, poiché la Tuscia era considerata “terra da vini bianchi”, smentito poi puntualmente dall’ottimo giudizio di Robert Parker, che contribuì in modo determinante al successo del Montiano anche oltremare.

Oggi sono Dominga, Enrica e Marta, figlie di Riccardo e Renzo, a condurre la tenuta e, grazie al loro incontenibile entusiasmo, l’attenzione nei confronti del Montiano, che nel frattempo si è affermato anche in Italia, resta alta. Merito della sua identità territoriale nonché della sua evidente personalità mutuata dal suolo vulcanico che, rispetto alla generosità conferita dai suoli argillosi, diventa ideale per la coltivazione del Merlot che dona al Montiano finezza e verticalità e, col tempo, anche una sua personale maturità stilistica.

Dall’evoluzione alla coerenza stilistica

“Con la 2016 si tratta proprio di una evoluzione più che una rivoluzione, su un solco già ben tracciato” dichiara Dominga, e non è un caso che dal 2016 il vino vanti una nuova etichetta, più raffinata; le uve sono vinificate in totale autonomia dal genero di Riccardo, Pierpaolo Chiasso, che in cantina ha introdotto nuovi accorgimenti come l’investimento in una moderna macchina che, dopo la diraspatura, riconoscendo e separando i chicchi imperfetti da quelli perfetti, ha portato a una riduzione della produzione del 30%; una percentuale che va a ridursi ulteriormente in annate complicate come la 2017. Oltre a ciò, alcuni accorgimenti come l’uso di tini troncoconici, atti a diminuire lo stress dell’uva in fermentazione, e la riduzione della temperatura di macerazione, hanno contribuito all’obiettivo di realizzare un vino ancora più fine ed elegante, per cui “se il 2016 era il Montiano dell’evoluzione, il 2017 è il Montiano della coerenza” – afferma Dominga.

E sono proprio l’evoluzione e la coerenza ad emergere in modo chiaro nel corso della nostra recente verticale. Si inizia con un Montiano 2015 che rimane un vino di livello straordinario, morbido, equilibrato, fine e persistente per poi proseguire con un 2016 in cui si nota un perfezionamento di stile nella direzione della precisione, della finezza e dell’eleganza, arrivando al 2017, frutto di un’annata siccitosa, in cui è stato prodotto un vino di grande finezza e bevibilità, in perfetta coerenza stilistica con il 2016.

La gestione di un’annata difficile

Nell’ultimo millesimo prodotto si è raggiunto un livello contrassegnato da un attento lavoro in vigna, marcato dalla presenza di un sufficiente apparato fogliare, in cui si sono ottenute uve mature evitando la sovramaturazione, e riuscendo a raggiungere un sufficiente livello di acidità. Mentre in cantina si è riusciti ad estrarre tannini fini e dolci senza segni di secchezza, calibrando macerazioni in modo da mantenere un perfetto equilibrio tra dolcezza e acidità.

Montiano 2017

Profumo di marasca e lampone, spezie dolci, cacao e tabacco. In bocca l’attacco morbido, senza segni di sovra estrazione, è bilanciato da acidità succosa e sapidità salmastra che rendono il sorso scorrevole e verticale. I tannini sono dolci, a trama fitta e soffici. Il finale è lungo e persistente con un retrogusto pepato. Un vino sorprendente che interpreta in modo magistrale un’annata così complicata. Voto 94

Prima della Prima, Chef Enrico Crippa , carote, alghe,sesamo

CAROTE, ALGHE E SESAMO

Carota lunare, carota atomica rossa, carota viola cosmica, carota arcobaleno, carota Amsterdam, carota gialla sole, carota dolce tenera, carota corta marché de Paris. Tutte provenienti dall’orto in biodinamica del ristorante Piazza Duomo, tutte estratte delicatamente ogni mattina, intorno alle 8, dalla mano più sensibile della cucina italiana. Quella di Enrico Crippa, che al contadino Walter, il quale le verdure non le annaffia neanche più, ma le nutre con la legna macerata, lascia maneggiare solo gli ortaggi più robusti.

Non è la prima volta che Enrico Crippa si cimenta in quella che Umberto Eco ha definito “la vertigine della lista”, ovvero quella “poetica dell’eccetera” contrapposta alla poetica del “tutto è qui” che aveva già sospinto verso l’infinito la sua insalata 21 o 31 forse 41, miscellanea di erbe e fiori eduli i cui ingredienti si dispongono ordinatamente in fila, trasmettendo una vertigine vegetale che sublima e poetizza la terrosità dell’orto.
Poiché come scrive sempre Eco, da Omero in avanti sono due le modalità della rappresentazione artistica. La prima risale allo scudo di Achille scolpito da Efesto, ritratto esaustivo della civiltà agricola e guerriera che offre “l’epifania della forma, del modo in cui l’arte riesce a costruire rappresentazioni armoniche in cui viene istituito un ordine, una gerarchia, un rapporto figura-sfondo tra le cose rappresentate”. Mentre la seconda trova il suo paradigma nei 350 versi che sempre nell’Iliade occupa il celebre catalogo delle navi achee ed è poi ripresa per esempio nella lista degli oggetti dentro il cassetto di Leopold Bloom. Utile soprattutto “quando non si sa quante siano le cose di cui si parla e se ne presuppone un numero, se non infinito, astronomicamente grande; o quando ancora di qualcosa non si riesce a dare una definizione per essenza e quindi, per parlarne, per renderlo comprensibile, in qualche modo percepibile, se ne elencano le proprietà – e come vedremo le proprietà accidentali di un qualcosa, dai Greci ai giorni nostri, sono ritenute infinite”.

L’infinito attuale di una radice di carota e dei suoi eccetera gustativi, oltre il sigillo della forma. Di qui anche il particolare stile dell’impiattato, vera cifra dello chef, che evita di instaurare rapporti gerarchici fra gli ingredienti affastellati sul candore della porcellana, ma la riempie come una tela senza delineare centri, limiti o periferie.
Diverse per età, sapore e consistenza, le carote baby fresche di giornata, integre poiché complete di buccia, particolarmente intense e complesse grazie alla coltivazione biodinamica (“è come assaggiare un pane al lievito madre conoscendo solo il lievito di birra”) sono cotte per riduzione alla francese con acqua, burro di alpeggio e sale. Compongono un mare e monti inedito insieme alle alghe nori spennellate di olio ed essiccate e all’alga kombu a julienne candita con soia e mirin, dove la terrosità delle radici sposa le note ircine, umide e quasi fangose sviluppate dagli organismi acquatici. Più una spolverata di sesamo, esaltatore di sapidità naturale, e polvere di nocciola di Langa; foglie di shiso verde e rosso per le note fresche di basilico, menta e limone. Ne risulta un romanzo di formazione gastronomico, dove le esperienze compiute da Crippa in Francia affiancano i corposi capitoli del Giappone e del magistero di Michel Bras. Esperienze che sono andate a fecondare la scena langarola con la stessa vitalità degli sciami d’api sui fiori e dei lombrichi che ora rivoltano le zolle, visto che la cucina del mercato ha ormai ceduto il passo all’orto; le comande di carne e pesce seguono le disponibilità vegetali, che dettano legge sul menu.

Ci sarà anche questo piatto, quando Piazza Duomo alzerà il sipario sui locali rinnovati il 7 febbraio. L’acquisto dell’appartamento adiacente, della superficie di 300 metri quadrati, ha consentito di ampliare i bagni e il pass della cucina; allestire un salone di accoglienza, una saletta supplementare da 14-16 coperti con seminato veneziano e boiserie, uno spazio canapé, una nuova plonge e soprattutto 4 camere che verranno messe a disposizione come chambre d’hôtes.

520

CREMA DI CECI E NOCCIOLE AL TARTUFO BIANCO, GELATO DI OSTRICHE

Pensavamo di averlo ripiegato in fondo a qualche scatolone, il trompe-l’oeil, genere egemone del lungo carnevale spagnolo, fra il trantran del repertorio e la quaresima interminabile della contemporaneità. Finito nella soffitta della storia con qualche coriandolo ancora sparso sopra, come una maschera divertente da rispolverare nelle occasioni di rito. Sorridendo del fungo-prosciutto di Quique Dacosta o del carpaccio di cocomero di Andoni Luis Aduriz, per non parlare della terra in cioccolato di Ferran Adrià. Virtuosismi certo, tesi a dimostrare la padronanza del cuoco sul prodotto, nel senso letterale del possesso. Antitetici rispetto al puritanesimo di quella cucina della verità che ha preso piede da qualche tempo a questa parte.
Pensavamo, appunto, perché il trompe-l’oeil probabilmente ha solo cambiato tecniche e funzioni, spogliandosi della dimostratività del tour-de-main per farsi attrezzo di una cucina del sospetto, che allerta maliziosamente l’attenzione di chi mangia su ciò che sta realmente mangiando. Niente di effettistico insomma, piuttosto un dubbio insinuante che rosicchia l’ideologia della cucina. Come nel caso della crema di ceci e nocciole al tartufo bianco e gelato di ostriche di Christian Milone, preview culinaire dove l’illusionismo si sdoppia in un gioco ora manifesto, ora sottile. Gustativamente e concettualmente stringente.
Da una parte la castagna-tartufo, presentata sotto la cloche e affettata con la mandolina d’ordinanza secondo la più popolana delle tecniche: i marroni di Garessio pelati sono rimasti chiusi in un barattolo sottovuoto insieme ai tuberi per 1 settimana, impregnandosi dei loro profumi come il riso, ma senza effetti disseccanti, per un esito di sorprendente intensità. Dall’altra la crema di ceci ottenuta unendo loro nel Bimby un 30% di nocciole trilobate di Langa, precedentemente cotte a 60 °C per 2 ore: la frutta secca viene trattata al pari di legumi, arricchendo la testura e veicolando i profumi sulle ruote della componente grassa. Infrangendo soprattutto la routine sul muro dell’errore categoriale calcolato.
Non basterebbe se questo monocromo di stagione, imbastito sul canovaccio del comfort food regionale, con la trama delle affinità merlettate di nocciole, non sbattesse sullo scalino poetico del contrasto, secondo una legge del bello. Quella che richiede che “la distanza sia estrema e l’evidenza inconfutabile”: “Come non scorgere una legge dell’estetica in questo obbligo di paragonare i contrari?”. È il gelato di ostriche crude e acqua di ostriche, contrappasso sapido, fresco e straniero, soprattutto interlocutore olfattivo del tartufo, che irretendo nel suo profilo iodato la prepotenza degli idrocarburi sposta lungo la mucosa olfattiva il baricentro del piatto.
Ma la carta a venire riserva altre sorprese: la cialda di porcino, capolavoro analitico dove il fungo è destrutturato e riassemblato (fuori una cialda composta di isomalto e cuticola, la parte più intensa, sporca e amarotica del fungo, trappola microbica del genius loci; dentro una farcia di cappella e gambo saltati; il tutto sospinto dal supporto di muschio e foglie secche nell’alveo di una cucina emozionale e dell’istante, che lavora separatamente sull’olfatto e sul gusto); l’iper-primitivista salmone “affumicato” dal mucchietto di trucioli di liquirizia a bordo piatto, con la guancia spadellata alla lavanda da scalcare a mano, sorta di sot-l’y-laisse ben più pallido, soave e moelleux del resto della polpa, sul modello delle kokotxas basche ma con crudeltà tutta nord-europea; la carne cruda brasata al vino rosso, crasi di due classici piemontesi che inverte crudo e cotto, come la cotoletta sbagliata di Matteo Baronetto, dove la classica battuta di coscia nella sua integrità aristocratica è condita dal sugo liofilizzato al vino rosso.

520
520
520

Due sale, sobrie e dalla giusta eleganza, che possono ospitare circa 25 coperti. Un unico posto “in prima fila”, direttamente all’interno della cucina, o meglio, nel locale dove chef e brigata svolgono le ultime operazioni di “allestimento” dei piatti prima della loro uscita sui tavoli. Schermi piatti appesi alle pareti un po’ ovunque, per seguire in diretta la preparazione di quello che avremo ordinato. (altro…)