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Arpège

L’Arpège di Alain Passard: una cucina fuori dal tempo

L’Arpège è uno di quei rari ristoranti che, varcata la soglia d’ingresso, provocano un vortice di emozioni. Una volta seduti al tavolo, è inevitabile poggiare per un attimo il pensiero sul fatto che in quegli stessi locali, un tempo, vi era l’Archestrate di Alain Senderens – citato da Alain Passard quale proprio maestro – la storia della cucina francese e, allo stesso tempo, una vicenda umana che non può lasciare indifferenti e, anzi, conduce a sorvolare su qualche carenza in termini di comodità (la sala principale notoriamente stretta, la vicinanza tra i tavoli e la stanza al piano interrato).

La parabola di Alain Passard è oramai nota ai più: un cuoco che, nel 2001, con i tre macarons appuntati sul petto – e una gran fama di rôtissier – decideva di proporre un menù interamente vegetale, un’autentica rivoluzione (quando si parla di avanguardia e di svolta green…). Ora, la proposta gastronomica dell’Arpège è per la gran parte basata sui prodotti della terra – interamente provenienti dai tre appezzamenti di proprietà (terreni di diversa composizione) – con qualche inserimento proteico, ossessivamente selezionato. Ciò posto, la domanda che molti appassionati si pongono è: ad oggi, la cucina di Alain Passard merita di essere frequentata per la sua attualità oppure si risolve in un omaggio al passato? Ebbene, questo pranzo ha restituito un cuoco in grande forma, quasi rigenerato dalla pausa imposta dalla pandemia. Dinanzi, si ha un uomo che ha un evidente dono – c’è una componente imponderabile in alcuni passaggi –, una figura romantica, quasi cinematografica, di cuciniere che, grazie a ingredienti straordinari, tanta tecnica (non esibita) e un’ossessione per l’importanza del gesto, riesce ad emozionare. Si badi, sarebbe un errore recarsi in rue de Varenne alla ricerca di una cucina “contemporanea”, anche in termini banalmente estetici: quella del cuoco bretone è senza tempo, eterna, personalissima e richiede un approccio libero da preconcetti per essere apprezzata. Il servizio è preciso ed essenziale – magari il cambio delle posate avrebbe potuto essere più puntuale – e nessuno spazio è lasciato a orpelli o manierismi. I ricarichi sui vini rasentano l’immoralità (un’abitudine parigina), con alcune eccezioni (da scovare con il lanternino).

Una cucina di archetipi

In occasione della nostra ultima visita abbiamo optato per il menù “Le déjeuner des jardiniers” – un percorso interamente verde e calibrato sugli ingredienti della stagione – con l’aggiunta di due proteine alla carta (vi è la possibilità di condividere una portata in due persone). La capacità del cuoco di estrarre la massima concentrazione di sapore emerge subito in Fines ravioles potageres, consommé de printemps: una pasta finissima ripiena di cipolla, salvia e cavolo in un brodo dalla grande intensità: boccone veramente complesso. In termini di  a-temporalità, paradigmatica è la Tartare pourpre végétal acidulé au raifort moutarde des jardinier, un piatto-icona capace come pochi altri di valorizzare l’ingrediente vegetale e, nel contempo, un caso rarissimo in cui al trompe-l’oeil segue un assaggio strabiliante (la sostanza sovrasta l’impatto visivo, non viceversa). Un passaggio memorabile – forse il migliore – è poi la vellutata (tiepida) di foglie di rapa e spinaci con crema chantilly alla salvia, in un intreccio – del tutto privo di consistenza o masticabilità – tra dolcezza, note balsamiche, sensazioni tanniche e grasse, al termine delle quali resta al palato il sapore di salvia più nitido, lungo e intenso che si possa immaginare.

Ancora, il sushi di rapa bianca, olio d’oliva di Alentejo e olive nere è un piatto che si fatica a comprendere come possa funzionare: eppure, la consistenza e la mineralità della rapa, la nota piccante, la grassezza e leggera acidità dell’olio, la temperatura del riso… ineccepibile. Il passaggio meno indovinato è, invece, la parmentier di rapa, spinaci, carote e senape, in cui un eccesso di note speziate (un errore?) incide sulla piacevolezza e sulla percezione del singolo ingrediente. Il carré d’agnello di Sisteron (alta Provenza)  è la prima delle scelte alla carta: carne di qualità eccelsa, cottura di una perfezione prima sconosciuta, in un abbinamento con una salsa alle ostriche –  dai sentori iodati e salmastri – che porta alla mente Senigallia, banchina di Levante. La seconda aggiunta è invece una sogliola con salsa al vino Côtes du Jura e dragoncello, foglie di cavolo e patata fondente, in cui il pesce ha una consistenza turgida (ai confini con il croccante) e la salsa – un classico del cuoco – amplifica le note marine: le foglie di cavolo – carnose e succulente – e la patata – cremosa e setosa – non sono un’anonima presenza, bensì potrebbero rappresentare una portata a sé. Da ultimo, un soufflé di avocado e pistacchio con cuore di cioccolato fondente, un guizzo di genialità nonché un altro passaggio difficilmente “spiegabile”: ingredienti inconciliabili tra loro funzionano alla perfezione.

La cucina di Alain Passard è apparentemente semplice e scevra da sovrastrutture, tanto da correre il rischio di venire banalizzata o risultare indecifrabile, soprattutto se non sia ha una memoria gustativa minimamente strutturata, come alcuni grandi album jazzGiant Steps o Kind of Blue – , al primo ascolto ostici ma, quando vi si ritorna, a tempo debito, capaci di aprire uno squarcio e far rivalutare ciò che si è sino al quel momento ascoltato – o, in questo caso, mangiato –: l’agnello non sarà più lo stesso, così come la rapa o l’immagine che balzerà alla mente quando si penserà alla salvia.

La Galleria Fotografica:

Una cucina geniale e contemporanea pensata quasi 30 anni or sono a Parigi

Alain Passard è indubbiamente uno dei cuochi contemporanei che ha maggiormente segnato e contribuito all’evoluzione dell’alta cucina francese, ma anche mondiale, con il suo ristorante Arpège. La sua ossessione – perché di questo si tratta – per l’orto e per i suoi frutti è molto più di uno slogan, a differenza di molti suoi colleghi. È un credo profondo, frutto di anni e anni di studi e ricerche. Lo chef possiede un orto di qualche ettaro fuori Parigi in cui coltiva varietà dimenticate: frutti della terra che riportano direttamente al paradiso.

Già dal suo esordio, ormai una trentina di anni or sono, ha sempre creduto in una cucina moderna, attuale, quasi eretica al tempo. Poca, pochissima proteina animale – di elevatissima qualità, ça va sans dire – che ruota attorno al vero protagonista del piatto… una volta una rapa rossa, poi un’incredibile patata, quindi un porro da antologia.

La via della creatività vegetale passa da rue Varenne

Le sue ricette, vere e proprie opere d’arte avanguardiste, sono oggi dei classici indiscussi e indiscutibili. Prendete per esempio l’Uovo in caldo freddo con sciroppo d’acero. Uno tra i piatti più copiati di sempre, così come le capesante impreziosite da un’emulsione al geranio e da paradisiache rape. Un piatto fresco, goloso, invitante, e che ha anche il merito di  far risaltare la straordinaria dolcezza della capasanta. Ma la maestria di Alain Passard si ritrova anche nella capacità di grande rôtisseur nelle cotture delle carni e non manca di certo ai dolci, Millefoglie e Torta di mele alle rose su tutti.

Un grande, grandissimo cuoco che ha creato una lunga schiera, da Mauro Colagreco a Pascal Barbot passando per Claude Bosi per citarne alcuni, di allievi e proseliti della sua filosofia di cucina. Una cucina moderna, attuale e contemporanea, ma pensata e costruita decine di anni or sono. Un genio, indiscutibile, che tra i suoi piccoli difetti ha un luogo e un servizio non all’altezza del tenore e della profondità espressa dalla sua cucina.

In questa nostra ultima visita, inoltre, siamo rimasti un po’ delusi dalla qualità della materia prima non vegetale. Carni e pesci ottimi, ma non supremi come ci ha sempre abituato Alain Passard e come il conto lascerebbe presagire.

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Recensione Ristorante

Essere nel pieno centro di una delle città più stimolanti del pianeta e poter fare in poco più di due ore un’esperienza gastronomica a tratti entusiasmante e poi riprendere tranquillamente a girovagare leggeri, soddisfatti e con il buonumore di chi sa di non aver perso tempo né soldi è cosa di non poco conto.
Il ristorante di Claude Bosi è essenziale: una sala elegante ma neanche troppo, un servizio che gira a orologeria senza essere affettato e una cucina che definire moderna è riduttivo.
Essendo spesso scomodo muoversi all’interno di definizioni specie quando si parla di cucina è molto meglio, allora, per rendere l’idea del lavoro di questo chef, riferirsi ad alcuni concetti chiave.
Senz’altro c’è inventiva, per come ha trovato nuove strade per la composizione di sapori, pulizia per come arriva alla netta concentrazione di essi e alla giusta persistenza e leggera per come i grassi sono quasi completamente banditi o fungono da semplice e gentile rifinitura di un piatto.
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Recensione Ristorante

Una delle tematiche più in voga del mondo gastronomico e sulla quale, ormai, ci capita spesso di discutere, riguarda l’importanza degli ingredienti. La cucina così detta “local”, in questo caso non intesa come rappresentazione e rielaborazione geografica della tradizione, bensì come l’utilizzo e la presentazione nel piatto di un prodotto alimentare a ridottissimo raggio di provenienza. Mauro Colagreco ci aveva già pensato qualche anno fa ad investire sugli ingredienti local, quando decise, dopo importanti trascorsi da due mostri sacri come Passard o Ducasse, di proporre la sua personalissima cucina e, con essa, i prodotti del suo orto in questa felicissima ed elegante villa anni trenta che sormonta “le grand bleu”.

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Recensione Ristorante

Segnatevi a chiare lettere sul taccuino gourmet questi due nomi: Alice Di Cagno e Victor Gaillard. Non sono personaggi da copertina, questi ragazzi, e probabilmente frequentano i circuiti che a Parigi “contano” meno di altri loro giovani colleghi, ma a meno di 30 anni sono già dei veri fenomeni. Alice, italo-brasiliana dai trascorsi arpeggiati (ben intuibili dai miracoli che realizza partendo da semplici ortaggi) e Victor, cresciuto principalmente chez Ledoyen, in attesa di far fruttare in modi più consueti il loro amore hanno dato vita ad un locale che, al giorno d’oggi, è da masochisti lasciarsi sfuggire se si capita nella Ville Lumière.
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