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Il Desco

A pochi passi dall’Arena, la salda cucina di Elia e Matteo Rizzo a Il Desco

Il Desco, con Elia prima e Matteo Rizzo dopo alla direzione della cucina, è una realtà consolidata nel panorama veronese.

Lo è, però, in una forma molto pratica, che non cerca l’appariscenza e il fuoco d’artificio, ma lavora sottovoce, con costanza e dedizione quotidiane al fine di consolidare quel fil rouge sinonimo del passaggio di consegne tra padre e figlio, avuto nel corso degli anni nella famiglia Rizzo.

Aperto nel 1981, il locale si fregia infatti di una stella Michelin guadagnata nel 1985, mantenuta fino a oggi (erano due fino al 2014). Il dato è conferma della qualità che Il Desco offre al commensale.

Nella nostra visita ne abbiamo avuto una prova tangibile dai tratti appaganti, sebbene non del tutto esaustivi. Perché, al netto di un encomiabile lavoro tecnico, soprattutto a livello di cotture delle carni ittiche, precisissime, non tutte le cariche gustative hanno fornito una varietà palatale capace di discostarsi da una reiterata ricerca della rotondità.

Il che, va precisato, non è di per sé un difetto: è una scelta personale, una filosofia che affonda le proprie radici nella tradizione di cui Il Desco è esponente da decenni, con risvolti assai positivi nell’eleganza complessiva e nella definizione dei sapori, ma che, soprattutto nelle portate principali, ha frenato la vivacità e l’alternanza di pensiero che si erano palesate in precedenza.

Abbiamo provato un menù dall’andatura discendente, in cui a farla da padrone è stato l’omaggio alla componente ittica, cucinata, ci preme ripeterlo, con grande abilità.

Capesante e beurre blanc al prezzemolo si è rivelato un esordio da applausi: mollusco dalle carni di squisita morbidezza, bilanciato dalla croccantezza della misticanza on top, con elegante gioco di dolcezza in chiusura tra il burro al prezzemolo e la maionese di corallo. Piatto diretto, puntuale e irresistibile.

Stesso livello è stato fornito da Scampi fritti con insalatina aromatica all’aceto di lamponi, signature dish del locale, in carta dal 1982, e mai modificato nella preparazione. La pastella croccante, preparata con un semplice mix di farina e acqua, ha controbilanciato la morbidezza dello scampo, con una generosa salatura finale a suggellare il connubio. In accompagnamento, la componente vegetale ha fornito una freschezza dai lievi tratti amaricanti, capace di ricalibrare il palato dalla frittura per prepararlo al boccone successivo.

Ma è con Risotto, limone, pepe rosa e uova di aringa affumicate che si è raggiunto l’apice dell’esperienza. Piatto migliore del servizio, ha manifestato la volontà di osare su terreni un poco più audaci, proponendo un gioco di lunghezze tutt’altro che banale, quasi spavaldo, tra l’affumicatura delle uova ittiche e la profonda nota speziata del pepe, con nel finale il limone a conferire acidità e pulizia. Il tutto sulla più classica base di un risotto mantecato con burro e formaggio.

La seconda parte del menù ha osato un poco meno, puntando sull’impostazione più classica della cucina.

Spigola e piselli ne è stato un esempio emblematico: carne ottimamente cotta, servita su “tartare” di piselli, fagiolini e cipollotto, con emulsione a base di piselli e latte aromatizzato al branzino. Piatto dalle spiccate note dolci grazie alle salse di accompagnamento, ben eseguite, ma che hanno dettato legge in un’accoppiata che poteva suggerire maggiori stimoli e contrasti.

Risultati non dissimili anche per Vitello, Parmigiano ed erbette, in cui il fondo di cottura della spalla di vitello e l’emulsione al Parmigiano si sono accordati tra dolcezza e sapidità, smorzando sia l’amaricante dell’asparago scottato sia le note ematiche delle carni bovine.

Un’ottima cucina classica, quindi, che coccola il commensale confermandone con precisione e sicurezza le aspettative, ma che può raggiungere traguardi altrettanto notevoli abbracciando un pizzico di audacia in più, di cui abbiamo avuto sentore e che ci ha regalato piacevoli sorprese.

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A pochi metri dalle rive dell’Adige, la consolidata realtà dei coniugi Tapparini

La Fontanina è un locale storico veronese con oltre 200 anni di vita.

Gestita dal 1984 da Nicola e Marta Tapparini, il primo diviso tra cucina e sala, la seconda dedicata alla gestione del servizio, l’osteria prende il nome dall’omonima fontana situata nel quartiere di Santo Stefano, ora all’interno del locale, che, nei giorni di Carnevale, faceva sgorgare rivoli di vino in onore del Duca della Pignata.

L’aneddoto inquadra il clima retrò e d’antan che si respira tra le mura de La Fontanina. Appena arrivati ci si trova infatti di fronte a un muro di vegetazione dato dalla graziosa pergola esterna, che si erge a simbolico varco verso un mondo da scoprire. Superato l’ingresso se ne ha conferma. Gli interni sono oltremodo sfarzosi, barocchi, a tratti ridondanti. Ovunque si posi lo sguardo si possono trovare specchiere, tende, bottiglie, oggetti d’ogni sorta scovati in giro per il mondo, tutti uniti in un pot-pourri visivo di grande gusto, che richiama l’estetica liberty di fine ‘800 e inizio ‘900.

Ma è un caos solo apparente poiché, seduti ai tavoli, si ha la fortuna di assaggiare una cucina precisa e diretta, che ha saputo fare di necessità virtù, con una proposta semplificata a causa del COVID, ma in grado di trovare un equilibrio che dà ragione del titolo di “Osteria” di cui si fregia il locale.

Una proposta ridimensionata ma ugualmente capace di valorizzare la materia prima

Non più un menù degustazione suddiviso per portate, quindi, ma un menù settimanale basato su ingredienti stagionali.

In cucina, le preparazioni sono curate da Nicola Tapparini e dal cuoco Saimir Budani. Classe 1993, il giovane chef può vantare una formazione di tutto rispetto, finalizzata col diploma presso l’ALMA, ed esperienza pluriennale in Italia, tra cui un importante biennio Al Cristo, sempre a Verona.

Tale parentesi scaligera è risultata sicuramente fondativa nella cura della materia prima, in particolar modo ittica, che si concretizza in preparazioni in cui l’ingrediente principale viene valorizzato grazie a tecnica e semplicità esecutiva, e attraverso l’accompagnamento con comprimari vegetali atti a risaltarne le peculiarità.

Prendiamo il piatto migliore del servizio, il polpo scottato con lenticchie. Il cefalopode è stato cotto sottovuoto a 100 °c, in acqua di mare, per due ore, per poi essere scottato in padella e servito su un letto di lenticchie in umido. Una preparazione relativamente semplice ma che ha permesso di garantire una consistenza delle carni estremamente morbida e tattile, lontana da gommosità di sorta, e in cui la croccantezza esterna del pesce, oltre a fornire un buon gioco palatale, ha donato una nota amaricante marcata e di notevole lunghezza. Le lenticchie, in chiusura, hanno completato la riuscita conferendo rotondità alla portata.

L’attenzione sulle consistenze si era palesata anche in apertura di servizio, con il baccalà mantecato, le puntarelle e il pane croccante. Riconfermando la qualità della materia prima, il merluzzo è stato lavorato con acciughe del Cantabrico, capaci di aggiungere una potente spinta sapida, per poi essere servito su un letto di puntarelle condite con una semplice vinaigrette. La nota vegetale ha bilanciato la sapidità ittica, garantendo inoltre un piacevole contrasto tra la spalmabilità del baccalà e la consistenza della cicoria.

Meno uniformi i dolci: ha spiccato il tortino con cuore morbido al cioccolato e sorbetto ai cachi, tecnicamente ben eseguito e altrettanto ben calibrato nella gestione delle dolcezze che non sono scadute nella stucchevolezza, ma non altrettanto possiamo dire del tiramisù, coi savoiardi evanescenti rispetto alla farcitura, e della crema bruciata, lavanda e spuma di cioccolato e liquirizia, che ha manifestato una sovrabbondanza della lavanda capace di monopolizzare le potenzialità gustative, al netto della buona preparazione della crema.

Auguriamo ai coniugi Tapparini e al promettente chef Budani di proseguire con successo lungo il percorso intrapreso che, pur al netto di una semplificazione complessiva della proposta, ci ha regalato momenti rimarchevoli. E di questi tempi è già molto.

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Cucina di pesce “terragna” all’ombra dell’Arena

Un locale storico di singolare bellezza ed eleganza. Questa è l’Osteria Fontanina a Verona, a pochi metri dal suggestivo scenario di Ponte Pietra. In posizione un po’ defilata rispetto al centro città , ma poco importa.

È questa una delle mete favorite di una clientela – in gran parte straniera – che qui ritorna sempre, incantata dal lusso di un’accoglienza elegantemente informale, di una cucina italiana e di territorio non priva però di un tocco internazionale, di una carta dei vini con oltre 700 etichette con cui, senza badare a spese, ci si può divertire assai.

Bellissimi gli interni, sfarzosi, dove i tavoli sono separati da bottiglie e casse di vino, specchi, sculture, quadri e addirittura arazzi posizionati un po’ dovunque in un disordine perfettamente studiato. Tutto trasmette un’idea di lusso ma anche di “casa”. L’effetto è po’ quello di mangiare a casa di un ricco, disordinato signore, appassionato di antiquariato. In estate, poi, è possibile mangiare sotto un bel pergolato con vista su uno degli angoli più pittoreschi della città.

L’Osteria è gestita dalla stessa famiglia, i Tapparini, da quasi 40 anni. Oggi il timone della cucina è nelle mani di Nicola, in sala la moglie, Marta, perfetta nell’accoglienza informale ma inappuntabile.

Nonostante i grandi classici della Fontanina siano il brasato all’Amarone, il Nuvola ’99 (tecnicamente un uovo croccante al tartufo ndr.) o gli agnolotti, piatti in carta ormai da 20 anni che la clientela più affezionata desidera sempre ritrovare, la grande passione di Tapparini è il pesce al quale è dedicato un percorso di degustazione.

Sapori compositi di terra e di mare

Piatti in cui la materia prima non è quasi mai presentata in purezza o esaltata come ingrediente assoluto a rievocare il gusto del mare ma è sempre accompagnata da ingredienti di terra che ne diventano co-protagonisti.

Si veda – per fare qualche esempio – l’uovo di quaglia nel Sandwich veneziano, un piatto interessante che ha il solo limite di non essere tecnicamente agevole da mangiare. E poi la frutta fresca e secca che accompagna le capesante, la crema di broccoli che accompagna un delicatissimo baccalà: tutti piatti di impostazione molto classica, costruiti più sulle assonanze che sui contrasti.

Una cucina che ha il pregio, insomma, della concretezza ma che ci è sembrata di impostazione un po’ datata, a cui senz’altro gioverebbero un pizzico di freschezza e di acidità in più e una maggiore attenzione per l’ingrediente, a volte non adeguatamente valorizzato a causa di una certa ridondanza.

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Una tradizione di famiglia, giunta alla quarta generazione

La storia della Trattoria alla Pergola è antica e affonda le proprie radici nell’800. Tuttavia, è col 1913 che si ha la svolta, quando la famiglia Bresciani prende in gestione il locale per condurlo, di generazione in generazione, al giorno d’oggi. 

Parliamo della quarta generazione che alterna il lavoro di Stefano, in sala, e quello della moglie, Ornella, in cucina. La continuità è però solo in apparenza lineare, in quanto l’apporto degli odierni gestori si sostanzia quasi per caso. 

Stefano e Ornella, infatti, prendono in mano il locale nel 1988 senza avere alcuna pratica culinaria. I due si conoscono e si innamorano sui banchi dell’università, mentre studiano medicina a Padova. Esterni alla realtà della cucina, abbandonano la carriera medica spinti dall’amore reciproco e da una sana incoscienza, con l’obiettivo di salvaguardare la tradizione familiare dei Bresciani. 

Il paradiso del bollito e non solo

La proposta, presentata a voce per le inevitabili conseguenze del COVID-19, pesca a piene mani dalla tradizione popolare veronese, in cui a farla da padrone è il carrello dei bolliti, ma lo sguardo si posa anche a realtà regionali limitrofe.

Iniziamo con un tagliere di salumi a base di coppa, soppressa, prosciutto crudo e salame “impitarà, ovvero avvolto e conservato nel proprio grasso. La qualità complessiva è buona, ma a spiccare è l’ultimo salume per morbidezza delle carni e ottimo dosaggio della sapidità.

Come prima portata scegliamo il risotto all’isolana e i tortelli di zucca alla mantovana. Il risotto, originario del comune di Isola della Scala, si rivela ottimo. Assai equilibrato tra la presenza delle carni di vitello, maiale e tastasal, a donare una spiccata nota sapida, si chiude con una splendida lunghezza data dalla cannella. La spezia non è però aggiunta nel finale, in separata sede, ma è unita durante la mantecatura grazie a un formaggio appositamente aromatizzato. Un piatto diretto, rotondo e ben fatto. Meno incisivi i tortelli che, pur garantendo una qualità elevata degli ingredienti, risultano poco equilibrati nel dosaggio della noce moscata e nella composizione della pasta.

La portata principale è il cavallo di battaglia del locale: appunto, l’opulento carrello dei bolliti. La proposta vede la presenza di tagli bolliti e arrosto di cui scegliamo un assaggio complessivo: cappello del prete, lingua, lingua salmistrata, testina, cotechino e gallina per i bolliti; carré di vitello, carré di maiale, tacchino e prosciutto per gli arrosti. Il tutto accompagnato da kren (rafano grattugiato messo sotto aceto), mostarda e pearà, tipica salsa veronese preparata con brodo, pane raffermo grattugiato, midollo, Grana Padano e una dose generosissima di pepe, da cui il nome. La qualità della materia prima è alta, e prova ne è la morbidezza delle carne, soprattutto quella arrosto.

In chiusura ci viene presentato un secondo carrello, questa volta dei dolci. Quasi tutte le leccornie sono preparate dalle mani sapienti della signora Ornella, eccezion fatta per le torte, realizzate da una pasticceria locale. Scegliamo il Pan di Spagna con zabaione, realizzato in casa, in cui spicca la splendida crema dalla nota alcolica accentuata, senza però eccedere in stucchevolezza e mantenendo una consistenza lieve e persistente.

Non possiamo quindi che augurarci che la famiglia Bresciani continui nel proprio operato, anche nelle generazioni a venire.

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Michael Silhavi e la sua cucina neoclassica, affacciata sull’Adige

L’Osteria Ponte Pietra è un vero e proprio gioiellino, in uno degli angoli più suggestivi di Verona, proprio di fronte all’antichissimo, meraviglioso Ponte che le regala il nome. L’interno non è da meno: dappertutto risplendono boiserie, bottiglie, calici, specchi. Qualcuno sostiene che sia tra i più bei ristoranti di Verona e, dopo aver visto lo spettacolare tavolino posto all’esterno, con vista sull’Adige, non fatichiamo a crederlo.

In cucina c’è Michael Silhavi, veronese di origini francesi che coniuga perfettamente le tradizioni venete con qualche spunto internazionale, sempre all’insegna di una studiata e perfettamente interpretata classicità che, tuttavia, nel corso degli anni ha irrigidito un poco la proposta in menù. Nel corso delle nostre precedenti visite avevamo già sottolineato come qui si ha, forte, l’impressione di non voler scontentare nessuno: dalla coppia in cerca di una serata romantica non necessariamente impegnativa, gastronomicamente parlando, al gourmand che invece vuol trovare il modo di appagare le proprie papille gustative passando per il turista, curioso di saggiare la cucina di quest’angolo d’Italia e così via fino al più esigente gourmet – che troverà maggiori spunti di interesse nel menu degustazione pur rilevando, come detto, una certa staticità – non si potrà non apprezzare l’equilibrio, l’ottima tecnica e l’eccellente palato dello chef.

Cucina molto golosa per ogni tipologia di cliente

E lo confermiamo anche dopo questa visita: al Ponte Pietra la strategia è quella di non scontentare nessuno. Riuscirci è facile? Tutt’altro. Qui la scommessa però è ancora vinta grazie a una cucina che marcia in netta prevalenza su collaudatissimi binari di stampo prevalentemente classico che tendono però a rendere poco dinamica, per chi già la conosce, la proposta. Questo, in sintesi, il motivo del punteggio assegnato, associato a qualche eccessiva rigidità – a locale semivuoto avevamo chiesto di assaggiare un paio di piatti dal degustazione ma ce n’è stato concesso laboriosamente solo uno – e la sensazione generale che ci si prenda tutti un po’ troppo sul serio.

Ciò detto, la maturità tecnica dello chef è più che evidente in piatti classici come i deliziosi Agnolotti di ossobuco che si sciolgono in bocca mentre maggiore creatività si coglie in accostamenti apparentemente arditi come quelli che caratterizzano la Faraona, ceci, yogurt, cetriolo e aglio nero, piatto equilibratissimo arricchito da un fondo impeccabile. Una sola citazione per quanto riguarda i dessert: la Crostatina di lamponi… come una pizza, ormai segnature dish di Shilavi nonché l’inossidabile sostanza di una sbrisolona di mostruosa bontà.

Questo gioiellino sull’Adige si conferma una sosta intrigante, caratterizzata da una cucina di ottima tecnica che utilizza eccellenti materie prime e conserva la capacità di non deludere mai.

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