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Locanda dell’Arco

Un piccolo gioiello nell’Alta Langa

I posti autentici nelle Langhe si possono contare sulle dita di una mano, nonostante il successo di questa regione dal punto di vista enogastronomico. Infatti, tolta la ristorazione di fascia alta e altissima, sono pochi i locali dove si può trovare una cucina tradizionale autentica e ben eseguita. La Locanda dell’Arco è una delle poche eccezioni: qui è sempre un piacere tornare e vivere a pieno le emozioni che questo fortunato territorio può donare, sia nel piatto che nel bicchiere.

Il locale può ospitare una trentina di coperti e prende il nome Locanda dell’Arco dalle tipiche volte al soffitto. L’atmosfera è quella autentica della trattoria e non è raro trovare tavolate di avventori che si sono spinti fin qua su. La carta è snella e a pranzo c’è la possibilità di scegliere un menù completo con due o tre alternative per ogni portata a un prezzo molto abbordabile. Durante il periodo autunnale è ovviamente presente una selezione di piatti pensati per essere abbinati al tartufo bianco.

Connubio perfetto tra cucina e cantina

Si inizia con antipasti dai sapori schietti come il Peperone ripieno oppure la Battuta di carne, di ottima qualità, con lamelle di tartufo nero. I primi piatti, pur restando nel solco della tradizione, risultano ben pensati e mai banali come le Tagliatelle di farina di castagne con i fegatini oppure il Tagliolino con zucca e porri. Tra i secondi c’è la possibilità di assaggiare un superlativo Coniglio ruspante in umido, tenero e saporito. Di ottima fattura anche i dessert, dal tradizionale Semifreddo alla Crostatina pere, castagne e rosmarino, davvero notevole.

Parte integrante della Locanda è la carta dei vini con una notevolissima profondità di annate sulle etichette piemontesi e con prezzi che invitano a stapparle. Il servizio di sala è molto competente e attento, pur conservando l’informalità che si addice a questa tipologia di locale.

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L’innata bellezza della tradizione langarola

Non è mai facile trovare una chiave di lettura critica dei propri posti del cuore perché l’affettività, è noto, è nemica della critica. Da anni, tuttavia, l’equazione qualità/longevità non rappresenta più l’unico nostro metro di giudizio, tanto più che sempre più giovani e giovanissime realtà si stanno affacciando nel panorama della ristorazione contemporanea, affermando il valore dell’autenticità della trattoria tradizionale italiana.

Tra le nostre scorribande, appena ci è stato possibile, siamo tornati tra i sinuosi bricchi che circondano la città di Alba, nella “piola” di Enrico Crippa. Insegna semplice ma non semplicistica che, come nella nostra precedente visita, cristallizza una sicura e goduriosa tipicità nelle ricette e nelle materie prime di questo paradiso paesaggistico e gastronomico.

L’antipasto langarolo, nella sua golosa molteplicità di elementi, spazia tra i grandi classici come l’insalata russa o il vitello tonnato, in cui la acme – tecnica – si riconosce nelle cotture di carni e verdure. Menzione d’onore anche per la battuta di carne cruda, per il puntuale rapporto tra grasso e muscolo. E se del plin, della cui callosità già raccontammo con ampi elogi, l’occasione di replicarli (ovvio) ma anche di assaggiare del nuovo, ci ha portato sui ravioli di peperone, olive e acciuga con salsa al Seirass del Fen. Qui, la nota casearia di quest’ultimo si avviluppa tra l’abbraccio del peperone nella sua dolcezza e il nervo sapido dell’acciuga, richiamando atavicamente il peperone ripieno alla piemontese.

Il classico che non stanca è tarato sul devoto rispetto dell’ingrediente, la cui ricchezza gustativa sorprende nel coniglio glassato all’Arneis con fagiolini e purea di zucca.

Il finale? Su due strade: avventurandosi tra i formaggi abilmente affinati da Franco Parola della vicina Saluzzo, oppure chiudendo in dolcezza gustando, affacciati su quella Piazza del Duomo di Alba, il gelato al fior di latte con ciliegie e l’immancabile biscotto di meliga. Nel dubbio li scegliamo entrambi, chiudendo ancora una volta appagati la nostra visita alla Piola.

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Una moderna trattoria pugliese nel cuore di Putignano

La cucina tradizionale in Italia è stata per lungo tempo sottovalutata ma, fortunatamente, negli ultimi anni si sta assistendo ad una riscoperta della vecchie ricette contadine e le trattorie stanno vivendo una nuova rinascita. Stefano D’Onghia è stato uno dei primi osti pugliesi a cavalcare questa tendenza e il suo Botteghe Antiche costituisce ormai una tappa obbligatoria per chiunque voglia scoprire la cucina tradizionale del versante sud di Bari.

Nella piazza principale di Putignano, dove d’estate si può anche cenare all’aperto, Stefano e i suoi collaboratori propongono una cucina della tradizione, rivisitata in chiave moderna. I prodotti sono di primissima qualità e ricercati tra i produttori della regione, anche le erbe di campo (e i funghi, quando è periodo) provengono dai boschi e le campagne della zona. Invece le cotture e le tecniche di preparazione, in alcuni casi, strizzano l’occhio alla modernità per esaltare alcuni sapori e ottenere risultati più digeribili.

Ottime materie prime assemblate con originalità

Come da tradizione non si può rinunciare alla carrellata di antipasti iniziali, adatti alla condivisione. Tra tutti spicca la cartellata, un dolce tipico delle feste Natalizie, proposta nella versione salata e accompagnata da burrata, cime di rapa e acciughe. Ottimi anche il carciofo fritto su crema di patate oppure la rivisitazione delle cicorie di campo con l’uovo, in cui la verdura amarognola ripassata in padella è sormontata da un tuorlo d’uovo impanato e fritto. Nel solco della tradizione, invece, il capocollo con lampascione fritto e vincotto, e le celeberrime polpette di pane al sugo.

Si prosegue con delle classicissime orecchiette di farina di grano arso condite con guanciale, cardoncelli e pomodoro appeso, dove il retrogusto affumicato dato del cereale si sposa perfettamente col saporito pomodorino e le note terrose dei fughi. Sebbene essenziale nella presentazione, si rivela gustosissimo il filetto di asino cotto alla brace. Leggermente stoppose, invece, le braciole di cavallo al ragù con una spolverata di farinella di ceci. Ben fatti i dolci, buone le zeppole fritte e farcite al momento, da abbinare a qualche digestivo della casa

Da buon oste, Stefano ha messo a punto anche una bella carta dei vini dove, accanto a etichette più blasonate (non solo pugliesi) occhieggiano referenze biologiche dai ricarichi corretti.

Alle tavole di questa osteria, insomma, si sta molto bene: sarebbe solo bello vedere anche una maggiore rotazione delle proposte, salvaguardando ovviamente i cavalli di battaglia della tradizione.

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Come a casa. Molto meglio che a casa, in questa calda insegna faentina

Sospesa. Inamovibile nel tempo quanto nello spazio, complice il moto ondivago indotto dal fascinoso pavimento irregolare, è la dimensione dell’attentissima Daniela Pompili in sala e di Remo Camurani in cucina. Una dimensione che vuol esser domestica, molto meglio che domestica, appunto, e che comunque vien dichiarata già nella scelta di spezzare il cognome del cuoco, che poi è anche l’oste e, così facendo, farne una casa o, meglio una Ca’ Murani.

Sembra di sprofondarci dentro, in questa dimensione pregna di senso, e di calore, complice il camino acceso e le calde luci sui tavoli e sugli avventori. Anche la colonna sonora, anch’essa asincrona dato che si tratta di un repertorio di singoli anni ’40 e ’50, proietta la scena in un passato ideale così come fa la cucina, che è soprattuto una cucina di ingrediente e di sostanza, di una semplicità disarmante quasi monastica. Ma è una semplicità solo apparente, perché ci vuole perizia a selezionare questo Crudo di Mora Romagnola, da maiale ultra-pesante, di oltre 60 mesi di stagionatura e il lonzino di maiale affumicato, delicatissimo, appena umettato d’olio extravergine di Brisighella e del pepe appena pestato sul mortaio, all’uopo.

La mano, e il palato, di un grande interprete della tradizione romagnola

Quanto alle portate, il sipario si leva su un libidinoso uovo di oca, asparagi selvatici, ritagli di gambuccio e tartufo nero, un  piatto da scarpetta, tutto da godere col rustico, fragrante pane di Remo; così come l’ottima minestra di ceci e ritagli di tagliatelle. Si prosegue con la polpa coriacea di un coniglio selvatico in tegame alle olive nere, da mangiare con le mani, e spinaci carnosi e croccanti all’inverosimile, serviti assieme a un assaggio, indimenticabile nei suoi accenti nocciolati e dolci, del suo fegato col tartufo nero.

Non da meno i dolci: né il morbido di cioccolato né il crème caramel, spugnoso e compatto com’era una volta. Ottima anche la selezione sui vini, anch’essa iper-territoriale, e culminata con l’assaggio di un Alkermes ambrato potentissimo e deflagrante, edizione limitata 2019 di Baldo Baldinini.

Perché parte del segreto, e del successo, di questa tavola risiede proprio nel palato di chi la cucina: il palato fine del cuoco che, nel corso degli anni, ha scritto le pagine della migliore Romagna, tanto a tavola quanto nel bicchiere.

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L’alter ego di Saturne è un circo enogastronomico

Domatori di tigri e leoni, fachiri, pagliacci, acrobati, equilibristi, mangia fuoco e ipnotizzatori. Questi erano i clienti del Clown Bar nei primi anni del ‘900, quando i circensi del vicino Cirque d’Hiver Bouglione desinavano in tranquillità tra le belle mura decorate a tema.

Dal 2015 la storia trova nuovo slancio, grazie alla coppia ChartierLe Moigne, già proprietari di Saturne, che da dietro il banco presidiano i pochi tavolini in legno. Il successo è immediato. Fuori dal locale c’è sempre una fila di persone in attesa di provare gli equilibrismi palatali del duo delle meraviglie. Non c’è trucco, non c’è inganno. La formula rasenta la totale purezza, numeri da circo accompagnati dai classici da “retro tendone,” truccati quanto basta per essere contemporanei. Nessun formalismo, dunque, ma un servizio leggero e spontaneo, mentre il profumo del burro bianco si arrampica su per le scale, passando dalla cucina alla sala. Un luogo di totale perdizione in cui la suspense è rappresentata dall’attesa tra un passaggio e l’altro, mentre l’adrenalina cresce durante la scelta di un altro verre de vin.

L’intelligenza di Chartier esplode in cucina

A testimonianza di quanto già raccontato qui, Sven Chartier dimostra di possedere un’intelligenza finissima, tanta spregiudicatezza e un’affinità imprenditoriale fuori dal comune. Eccezion fatta per la filosofia di base, ovvero il rispetto per la naturalità in ogni sua forma, tra Saturne e Clown Bar non c’è alcun punto di contatto. Diretto e irriverente, Clown Bar sopperisce ai limiti dell’atteggiamento un po’ troppo politically correct di Saturne, facendo mostra di sé attraverso una cucina impeccabile nella sua semplicità e assolutamente spregiudicata.

Il cervello di vitello, gremolada e salsa al ponzu, presentato nella sua interezza, è un esempio di edonismo applicato, la sublimazione dell’arte dello stare a tavola, la volontà esplicita di infrangere qualsiasi tabù. Seppia, riso venere, inchiostro e rafano è un esercizio stilistico il cui tema è la gommosità di insieme data dalla seppia e dal riso venere cotto come fosse un risotto. Gommosità smorzata grazie alla vena balsamica e piccante del rafano e alla voluta eccessiva sapidità apportata dall’inchiostro. Piatto totale.

Non sono da meno i Ravioli con ricotta, consommé al cedro e tartufi di mare, in cui la morbidezza della ricotta si lega alle note citriche del consommé e lascia libero sfogo all’intrusione dei tartufi di mare.

Passare da Parigi senza far visita a Clown Bar sarebbe un errore imperdonabile. Fare visita a Clown Bar senza visitare Saturne sarebbe un errore altrettanto grave. Due locali che si completano a vicenda e che consigliamo di visitare uno dopo l’altro in rapida sequenza.

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