Passione Gourmet Toscana Archivi - Pagina 3 di 8 - Passione Gourmet

La Lastra e la Vernaccia di San Gimignano

Storie di produttori: Azienda Agricola La Lastra

Noto per le sue antiche torri e per l’infinito splendore delle sue vedute, il borgo di San Gimignano è certamente uno dei più affascinanti della Toscana. Uno scenario da cartolina che, a suo tempo, ha stregato anche Nadia Betti e Renato Spanu, fondatori dell’Azienda Agricola La Lastra assieme agli “amici di sempre”, Enrico Paternoster e Valerio Zorzi.

In questo meraviglioso angolo di mondo, posto circa a metà strada tra Siena e Firenze, si tramanda la coltivazione della Vernaccia di San Gimignano, vitigno conosciuto in questi luoghi già dal Duecento. Le sue uve a bacca bianca danno vita a un nettare inconfondibile, che si presenta dai lucenti riflessi dorati e dalle spiccate note minerali, caratteristiche naturalmente accentuate da un adeguato invecchiamento per il quale questo vitigno è, tra l’altro, particolarmente predisposto.

La Cantina

Tra i suoi più apprezzati interpreti vi è l’Azienda Agricola La Lastra, cantina fondata nel 1994, che lungo questi placidi declivi possiede 7 ettari vitati, integrati ad altri 23, situati a ridosso del centro storico della città di Siena dove si produce Chianti Colli Senesi Docg. A conduzione biologica dal 2000, quando “il bio non era una moda, ma una filosofia di pensiero”, tutto qui è fatto all’insegna del rispetto della natura e nell’ottica di “riposizionare i veri valori legati alla vita, per dare un futuro alla nostra Terra.

Un obiettivo perpetuato attraverso la produzione di vini di qualità ed ecosostenibili, che raccontano nitidamente il territorio dal quale prendono vita. E in effetti all’assaggio emerge chiaramente la mineralità conferita dalle intrusioni di calcare dei terreni posti a San Gimignano, in zona Santa Lucia, dal pH alcalino. Dal canto loro Nadia e Renato operano in cantina con mano leggera, prediligendo l’acciaio e dosando minuziosamente il legno nella produzione della Vernaccia di San Gimignano Riserva, facendo sì che il vitigno si esprima compiutamente in entrambe le etichette, senza sofisticazioni.

Ecco quindi che al naso emergono tutti gli aromi varietali tipici del vitigno, come la mela e la papaya e delicate sensazioni agrumate e speziate, che col tempo si arricchiranno di pietra focaia, nocciole e miele, facendosi via via più eleganti e intensi.

Vini ‘di valore’

Sempre più conosciuti e sempre più premiati, i vini della coppia giunta in queste terre ancora ventenne e fresca di diploma in agraria da quasi trent’anni impreziosiscono il panorama enologico di San Gimignano. Si tratta, infatti, di etichette dense di valore, che riflettono appieno il motto aziendale: “l’Ambiente prima del business, le Persone prima del brand, la Sostanza prima della forma. Ricerca scientifica, Rispetto, Empatia ed Etica completano la base delle nostre azioni imprenditoriali, piccole o grandi, di breve o lungo periodo esse siano.”

* I vini dell’Azienda Agricola La Lastra sono distribuiti da Partesa.

Tradizione, circolarità e avanguardia

Quando Pasquale Forte arriva in Val D’Orcia se ne innamora perdutamente. Fonda l’azienda agricola Podere Forte, deciso a recuperare la centenaria tradizione agricola valdorciana e lo storico Podere Petrucci, ormai abbandonato.
Un’azienda agricola certo ma anche un ecosistema in cui nulla è lasciato al caso e ogni dettaglio è attentamente studiato per essere in simbiosi con tutti gli altri: come le api che, col miele, presiedono all’impollinazione delle piante. Le pecore, oltre al latte per fare i formaggi, producono anche il compost necessario ai terreni, così come loro le vacche di razza Chianina.

L’azienda, biodinamica dal 2007, segue i precetti di Rudolf Steiner basati su correttezza e rispetto di terra, piante e animali con cui l’uomo vive in equilibrio. Tradizione, certo, ma Pasquale Forte è e rimane pur sempre un ingegnere, che nel suo caso ben aderisce al latino ingegnum, ovvero creatore/dalla capacità mentale: ed è questo che si ritrova nel suo Podere. Qui i terreni sono irrigati grazie a un’avanguardistica rete idrica pensata in modo da non creare ruscellamenti, per non togliere sostanze al terreno, e quindi alle piante. Tutta l’acqua utilizzata viene poi recuperata.

Nella cantina c’è un laboratorio per effettuare le molteplici analisi biochimiche, ma non solo: è infatti presente anche un grafico per l’analisi della cristallizzazione sensibile, utilizzato tanto per il vino, quanto per l’olio e per il miele, in cui ogni segno sull’immagine acquisisce un significato che può essere codificato grazie all’archiviazione delle medesime immagini nel tempo: interpretando le forme-tipo è così possibile determinare la capacità di invecchiamento di un vino, i bisogni della pianta e molto altro. Grazie alla cromatografia invece, sono analizzati i terreni in modo da poter avere un’indicazione della tipologia di compost necessario.

I terreni del podere, seppur vicini tra loro, sono molto diversi per conformazione geologica. Una conoscenza, questa, che ha permesso nel tempo, essendo che inizialmente veniva prodotto un solo tipo di vino, di dare vita a vini con caratteristiche distinte, come Anfiteatro (nome deciso in quanto l’inclinazione naturale del terreno è stata rispettata, coltivando i vigneti in pendenza) e Melo che deve il suo appellativo all’appezzamento sul quale vengono coltivate le sue uve.

Petrucci Melo e Petrucci Anfiteatro 2020: l’anteprima

In occasione della visita al Podere, abbiamo avuto il piacere di degustare precisamente l’anteprima di questi due vini: Petrucci Anfiteatro “il chiacchierone”, e Petrucci Melo, “il misterioso”. Pur trattandosi di vini del 2020, e di assaggi direttamente da botte e quindi destinati ad altri tre anni, tra maturazione e affinamento, appare chiaro che si tratti di vini di grande statura. Come detto, Petrucci Anfiteatro è espansivo, è di un colore rosso rubino brillante. Al naso si manifestano frutti e fiori rossi, agrumi e foglie. I tannini presenti già denotano morbidezza, un vino che, seppur in fase embrionale, è già piacevole. Petrucci Melo , è influenzato dal terroir più “povero” ed un microclima differente. Dal color rosso violaceo, al naso si percepiscono sentori di frutti rossi più scuri come l’amarena e la mora, le spezie e il pepe. In bocca i tannini sono più duri, indice che avranno bisogno di tempo per smussarsi, consegnando un vino che sarà sempre più austero di Anfiteatro, nella stessa annata. Le sue ombre ci consegnano un vino quasi mistico, per il quale il “non detto” è molto più di quanto è celato.

Podere Forte non è un’isola

Come detto, Podere Forte è un’azienda avanguardistica, un esempio virtuoso, certo, ma l’ingegnere non vuole che rimanga un’isola felice bensì sogna di esportare il “metodo Forte” dalla Val D’Orcia all’Italia e perfino all’Europa, per garantire futuro e sostenibilità alle prossime generazioni. Infatti, riguardo alla Direttiva Europea “Farm to Fork” attualmente in discussione in Parlamento, è indubbio che essa crei scontento tra gli agricoltori, fissando degli obiettivi di sostenibilità da raggiungere entro il 2030 ma senza dare i mezzi per raggiungerli. A questo proposito, Pasquale Forte, uomo del fare, invita chiunque desideri approfondire il tema della biodinamica a prendere contatto e fare pratica al Podere.

Ritorno all’eleganza

Villa Grey, novecentesca dimora sita sul lungomare di Forte dei Marmi, è un’oasi di sobria eleganza; un rifugio accogliente che riporta l’avventore ai tempi d’oro del Forte, quando la Versilia era meta prediletta del turismo nostrano e i menù non erano ancora tradotti in cirillico. È in questa cornice che trovano spazio l’osteria pieds dans l’eau, dedita alla preparazione di pranzi e aperitivi da gustare direttamente sulla spiaggia di proprietà, e Il Parco di Villa Grey, ristorante stellato dell’omonimo Boutique Hotel.

Un ambiente rasserenante quest’ultimo, dipinto di calde sfumature tortora nella sala interna e nella nuovissima veranda, ambienti impreziositi da un rigoglioso déhor che in estate rappresenta un’oasi nell’oasi, promessa edificata di far raggiungere la pace dei sensi all’avventore.  

Al ristorante, il recente passaggio di consegne ha portato nella brigata un profondo rinnovamento. Oggi, al posto di Daniele Angelini, troviamo in cucina Roberto Monopoli. Classe ’84, di origini pugliesi, lo chef ha messo a segno diverse esperienze pluristellate: da Caino a Montemerano, da Claudio Sadler a Milano, con Alain Ducasse quando questi patrocinava L’Andana, a Castiglione della Pescaia, e infine da Giuseppe Mancino del Piccolo Principe di Viareggio.

Un evidente sodalizio quello con il ristorante viareggino, tanto che la sala de Il Parco di Villa Grey è oggi governata da Fabio Santilli, già maître presso il suddetto. Un cambiamento che si avverte chiaramente una volta che si prende posto al tavolo: il personale di sala, composto da una squadra giovane e sinceramente appassionata, ma con ancora qualche grossolanità da raffinare, è diretto a bacchetta dal maestro e l’atmosfera è un po’ quella che si respirava dietro i banchi di scuola, quando nell’aula aleggiava quella tensione dovuta all’interrogazione imminente e il panico colpiva un po’ tutti, dai più ai meno preparati. Agitazione che tuttavia risparmia l’alunno più brillante, Luca Florio in questo caso, l’abile sommelier in grado di mettere l’ospite a proprio agio con la sua squisita gentilezza e di suggerire abbinamenti davvero ben congegnati.

Un accento internazionale

La cena prende il via con gli scampi in olio cottura, battuto di mango e seppie all’aceto di mele. Un accostamento saporito, dove però il mango tende a prevaricare sulla delicatezza degli altri ingredienti. Molto interessante, invece, la doppia cottura del calamaro confit accompagnato dal suo nero, sebbene l’accostamento alla cicoria non sia del tutto convincente.  Il piatto più interessante della serata sono gli gnudi di ricotta, burro e salvia, Parmigiano croccante e spinaci. Il classico della tradizione toscana è qui scomposto e riproposto in una veste deliziosamente fresca che ne esalta al meglio ogni ingrediente. Divertente anche il gioco di consistenze, con il cuore morbido di ricotta che si scontra con la croccantezza degli spinaci e della cialda di Parmigiano Reggiano; l’uso di pochi ingredienti dai sapori decisi e i diversi giochi di consistenze rendono il piatto intrigante. Dai sapori netti sono anche il baccalà con piselli e la pluma Iberica con purea di zucchine alla menta; piatti ben eseguiti e piacevoli, seppur lontani dai lidi di Forte dei Marmi.

La cucina di Roberto Monopoli parla italiano, ma l’accento è internazionale. Una proposta che certamente strizza l’occhio alla clientela estera che bazzica questi luoghi, con ingredienti blasonati e di eccellente qualità, che tuttavia non attribuiscono specifici connotati alla cucina. Tenendo ovviamente conto di tutte le difficoltà apportate dal momento storico e dal recente cambio di personale, la sensazione che si ha è che sia ancora in atto un rodaggio i cui esiti al momento sono incerti, ma che in futuro potrà regalare deliziose sorprese.

La Galleria Fotografica:

Petra è un’immagine arcaica, calata sul territorio a simbolo della casa del vino

È così che Mario Botta vent’anni fa concepiva la sua prima cantina.

Petra è l’uomo che deve rimanere nel paesaggio rurale in rapporto con la terra

Questo territorio, la Val di Cornia, ha già accolto in passato influenze di mondi lontani: all’inizio dell’Ottocentro Elisa Baciocchi Bonaparte, sorella di Napoleone, principessa di Lucca e Piombino, venne a produrre vino nel bosco di Montioni, non distante da Petra, facendo arrivare le prime barbatelle francesi, le basi degli attuali Cabernet Sauvignon e Merlot. Dunque si segnava un territorio, non solo perché da Bolgheri in giù, fra mare e colline etrusche, le terre sono ancora oggi vocate alle vigne del taglio bordolese coi suoi Supertuscan, ma anche perché una prima donna ha creato la storia avvincente di un viaggio al femminile. 

E sono proprio queste le parole che ci aprono il mondo di Petra, la cantina voluta dalla famiglia Moretti con il padre Vittorio, che ha prestato la sua esperienza di imprenditore delle costruzioni a quella del vino, ma soprattutto dalla volontà della figlia Francesca ispirata da un viaggio a Bordeaux del 1988. Così dalla Franciacorta (Bellavista e Contadi Castaldi), l’attuale CEO di Terra Moretti Vino e Distribuzione, Francesca Moretti venne in Toscana, proprio come Elisa Bonaparte, a cercare una zona di produzione di vini rossi in quel di Suvereto.

Nel 1997 parte dunque il cammino progettuale, poi arrivano i lavori iniziati nel 2001 e completati a primavera del 2003 con l’inaugurazione della nuova cantina, capolavoro d’architettura contemporanea di Mario Botta; solo se vista dal vero questa scultura nella vigna rivela le sue magiche proporzioni e rimane per sempre nella mente.

I primi 38 ettari vitati erano attorno all’antica cantina, oggi residenza estiva di famiglia, altri 65 sono davanti all’edificio nuovo, tutti sempre raccolti a mano. Rio Torto, in fascia costiera e Montebamboli in provincia di Grosseto completano gli appezzamenti per un totale di 105 ettari vitati. Queste vigne distaccate sono più giovani e destinate alla linea Belvento, con in etichetta disegni di animali del territorio e del mare. Vicino alla nuova cantina si trovano le varietà Merlot e Cabernet Sauvignon; il Sangiovese è presente maggiormente nella collina sovrastante. Le altre varietà coltivate sono Syrah, Viognier, Vermentino, Grenache, Ansonica, Ciliegiolo. Nel mezzo della tenuta, fra l’edificio storico e la cantina progettata da Botta, c’è un lago alimentato dal pozzo e dalle acque piovane con pannelli fotovoltaici in superficie che ruotano seguendo l’orientamento solare. Una sorta di zattera galleggiante-girasole che produce ben il 40% dell’energia di cui la cantina necessita.

Petra oggi ha quasi il 70% del personale femminile ed è 100% biologica con la conversione seguita dall’agronomo Ruggero Mazzilli; la vigna è stata curata da Marco Simonit e Pierpaolo Sirch e nel 2014 sono stati messi in produzione i vini bianchi con l’arrivo dell’enologo Giuseppe Caviola, l’etichetta ha adottato definitivamente il simbolo dell’edificio di Botta alla maniera degli Château francesi. Il nome Petra deriva dalla pietra della collina, i terreni dentro cui è scavata parte della cantina. Sono rocce di composizione scistosa, strati di argille intervallati da altri calcarei e parti minerali fra cui il ferro delle colline metallifere. La linea produttiva persegue il rispetto della varietà dei vitigni fondendo la potenza di queste zone all’eleganza e alla biodiversità del territorio.

All’ingresso della cantina, sotto la scala simbolo dell’unione fra la terra e il cielo, si apre il sipario delle vetrate e come uno spettacolo si svela la sala delle cisterne; il cuore produttivo dell’edificio è illuminato sapientemente dall’alto con feritoie di luce intervallate da grandi travi di legno lamellare che segnano il ritmo di tutta la parte superiore, divisa su due piani che includono un laboratorio di analisi, prima di entrare nel sottosuolo ove si trovano le botti per l’affinamento e i magazzini di stoccaggio delle bottiglie.

La sala centrale scavata nella collina prosegue con una vera e propria galleria voluta da Vittorio Moretti, a 35 metri di profondità, con effetti di luce lungo le pareti fronteggiate dalle barrique e sul fondo una estesa sezione del terreno lasciata a vista. Interno ed esterno della cantina sono poi marcati da colonne a forma della vite del torchio. Il mercato di Petra e Belvento è all’80% italiano e la produzione è di 380.000 bottiglie di cui 150.000 per il solo Hebo, 50% Cabernet sauvignon, 40% Merlot e 10% Sangiovese.

Sono 15 etichette di cui 7 di Belvento, tutte monovarietali: Vermentino, Viognier, Ansonica, il Velarosa rosato 100% Grenache, 13%, creato con una macerazione brevissima delle vinacce a freddo, quindi lavorato come un bianco. Poi i rossi Cabernet Sauvignon, Sangiovese, Ciliegiolo, una linea completa che punta al rapporto qualità prezzo. Con le etichette di Petra si sale di prestigio: ancora monovitigno sono Alto, 100% Sangiovese e Balena, 100% Viognier il cui affinamento è parte in cemento, con una cisterna dall’originale forma a uovo, parte in acciaio e si completa con 6 mesi in legno, oltre a 12 mesi in bottiglia; se ne imbottigliano solo 2000 all’anno, prodotte dalla vigna vecchia denominata appunto La Balena, con una mineralità e freschezza costanti.

Quercegobbe 2016

Con 14,5% vol questo Merlot in purezza è frutto del vitigno piantato nel 1998. Svolge l’affinamento in legno per 18 mesi e oltre 6 mesi in bottiglia; si presenta di un intenso colore rubino. All’olfatto svela una piacevole spinta giovanile ricca di carnosi frutti rossi e sciroppo di amarene, con una delicata nota di prugne disidratate, unitamente a una velata tessitura vegetale di macchia mediterranea e spezie. Al palato rivela tutte le aspettative del Merlot anche nella variante autoctona toscana; ricco nell’insieme, sempre morbido, ingentilito dai tannini del legno, sprigiona sentori di tabacco dolce e cuoio, chiudendo con una dosata freschezza.

Petra Toscana Rosso IGT 2015

Lo possiamo considerare il Supertuscan della cantina: in degustazione il 2015 (attualmente in vendita il 2017), 14,5% Vol. è costituito da 70% di Cabernet Sauvignon e 30% di Merlot; dopo la fermentazione in tini di legno, l’affinamento è al 30% con barrique nuove, le altre di rotazione, per 18 mesi, poi altrettanti mesi in bottiglia. È un vino di grande corpo, a tratti balsamico, decisamente intenso e caldo, all’olfatto ha sentori di ribes nero e mora, oltre a note lievemente resinose e speziate; al palato i vitigni sono in ottimo equilibrio con il Merlot che armonizza il finale, decidamente di lunga persistenza. 

La linea dei rossi di Petra si completa con  Colle al Fico, 100% Syrah, e Potenti, 100% Cabernet Sauvignon.

Angelo di San Lorenzo

Un vino che una nota a parte. Il nome si deve alla località di alcune vigne ritrovate, fra cui Trebbiano, Clarette e Vermentino. È una produzione ridottissima in bottiglie da 375 ml che eredita le botti vecchie lasciate scolme, attivando una fermentazione spontanea con parziale ossidazione. Di questa sorta di nettare lavorato come un Vin Santo, appendendo i grappoli su reti per un essiccamento di almeno tre mesi, il tempo è l’unica strategia. Il risultato è un passito di color giallo ambrato scuro, ricco di profumi dalle sfumature floreali e di frutti a bacca gialla, fino ai fichi disidratati. Al palato è decisamente armonioso e piacevolmente caramelloso, concedendo ancora note di macchia mediterranea e punte amarognole come il miele di castagno, lasciando infine il palato addolcito come fosse frutta candita.

Una rara realtà multiforme e sfaccettata

Ci sono fulcri di ricchezza e storie, non soltanto enoiche, destinate a disorientare il cronista per sovrabbondanza di materiale.

Partiamo dal territorio, innanzitutto, dato che tanta parte ha proprio la location in questa narrazione. Siamo in Valdera, a Palaia, comune della provincia di Pisa che, ad una prima visita, sorprende non trovare tra le destinazioni-cardine della nuova viticoltura italiana poiché si tratta di una collina marnoso-tufacea coperta da un 30-40 centimetri di riporto di terra decisamente fertile (un tempo adibito, fra gli altri, alla coltivazione di tabacco) stretta tra i corsi dei torrenti Chiecina ad est e Roglio ad ovest, attraversata inoltre da una strada che in epoca etrusca conduceva a Volterra.

Visivamente molto simile alla Valdorcia o alla Valdichiana, vive, soprattutto per il suo essere contesa tra i comuni di Pisa, per l’appunto, e di Lucca, un storia travagliata, soprattutto da un punto di vista vitivinicolo. Eppure è proprio qui, in un borgo già attestato come fattoria produttiva di vino nel 980 d.C., che la famiglia inglese Hands, guidata da Guy, fondatore della seminale compagnia di private equity Terra Firma, con interessi in finanza, discografia e hôtellerie di lusso, decide di investire per rivalutare uno storico complesso di circa 720 ettari tra boschi, ulivi, vigne, colture, antichi casolari e ville adibite all’ospitalità.

La storia di Villa Saletta attraversa proprietà e secoli rafforzando la sua vocazione iniziale: quattro grandi famiglie si succedono alla guida: i Gambacorta, nel 1300, quella dei Riccardi, abbiente famiglia fiorentina di banchieri di Casa Medici, che trasformarono Villa Saletta in una vera e propria azienda rurale (una specie di clos allargato o maso chiuso, classica Fattoria all’Italiana) nel corso del 16° e 17° secolo, la famiglia dei Castelli e infine gli Hands, che la rilevano nel 2000.

L’idea è di mantenere il fulcro sulla produzione enoica in un progetto molto ambizioso – con già 250 milioni di euro allocati – che prevede la ristrutturazione dell’antico borgo di Villa Saletta e il restauro delle ville esistenti, ben 43 (di circa 300 metri quadri l’una) che diventeranno un vero e proprio resort di lusso, completate da trattoria, negozi e un ristorante gourmet.

Dalle forme di allevamento ai singoli vigneti

Alla guida della cantina, ora ospitata provvisoriamente in un (bellissimo) edificio progettato dallo studio Rossiprodi, a Montanelli di Palaia (la nuova sede verrà verosimilmente completata per il 2023), come direttore tecnico e AD c’è, fin dal 2015, l’agronomo ed enologo David Landini, origini toscane, curriculum di grande rilevanza, che annovera esperienze significative tra Frescobaldi, Antinori e Gruppo Bertani Domains.

E con il supporto di Silvia Mellini, agronoma, il progetto vinicolo, in effetti una delle attività produttive insieme a coltivazione di frutta, ortaggi, erbe, grano e olio, non nasconde le proprie ambizioni, come dimostrano gli assaggi, sia le prove di vasca che le anteprime dei vini in commercio. David non si risparmia le avanguardie (anche se in realtà si tratta di un recupero attualizzato) di cantina, come la vinificazione integrale, per permettere alla produzione attuale, circa 100.000 bottiglia da 30 ettari (di cui 17 in produzione e altri che entreranno a regime a breve, ma si arriverà al massimo a 40 ettari totali), di essere insieme significativa e variegata.

Un totalizzante orientamento alla qualità, con evidenti, strumentali sacrifici sulle quantità prodotte, che nascono da un lavoro preparatorio agronomico monumentale: i vigneti sono di piccole dimensioni, non disdegnando di mescolare le varietà rappresentate (Sangiovese, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Merlot, con alcune anteprime a venire, succose sperimentazioni su varietà internazionali a bacca bianca di grande eleganza) e le forme di allevamento, tra Cordoni speronati bilaterali, Lyra per il Sangiovese, Guyot per le varietà internazionali (Cabernet Sauvignon e Franc) e miste per il Merlot, nel caso in cui il terreno e le condizioni siano o meno favorevoli.

Le lavorazioni, soprattutto, sono caratterizzate dalla grande cura artigianale, senza estremismi o prese di posizione integraliste ma comunque orientate al minimo interventismo chimico, alternando interfila lavorati e sovesci, con utilizzo di crucifere e leguminose, o inerbimenti naturali e successivamente potature verdi solo se necessarie.

La vendemmia, poi, è momento cruciale, con tripla selezione in pianta e successivamente cèrnita sul tavolo. Spicca, tra i cru aziendali, il vigneto Il Torrino, splendido allestimento circolare su marne argillose bluastre che rappresenta il cru, davvero sorprendente, di Cabernet Sauvignon, e il vigneto Le Colline, l’altrettanto splendido cru di Franc (con all’interno il ‘clos’ di 5000 metri quadrati destinato al 980 AD), che rappresentano le due marcate vocazioni aziendali insieme, ovviamente, al Sangiovese. Il resto lo fanno, c’è da credere, i boschi maestosi che circondano i terreni vitati, anch’essi, lodevolmente, oggetto di recupero varietale (e riarredo paesaggistico) e operazioni di ripristino di vecchi camminamenti, che permetteranno anche agli ospiti del resort di godere di esperienze immersive uniche.

Ebbene, considerate le premesse, c’è da scommettere che se qui a Villa Saletta si proseguirà il lavoro minuzioso fatto finora, che ha alla base la salvaguardia del territorio e la mente, alla ricerca delle condizioni migliori per permettere alle varietà coltivate di esprimersi al meglio, se ne vedranno davvero delle belle, come dimostrano peraltro i radiosi assaggi di seguito:

Rosato Italiano Rosé 2020

Nato come esperimento, ora invece frutto di una ben precisa idea di vino rosa. Ideale vino da ‘apertura’ pasto. Blend di Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon, affinato solo in acciaio. Bella acidità al naso, con sentori di ribes rosso e maggiorana, bocca sapido-salina e persistente, con ritorno fruttato.

Chianti Superiore DOCG 2016

Un Chianti Superiore lontano dalla zona del Classico che sorprende per i marcatori peculiari. Frutti a bacca nera, ribes su tutti, poi tocchi eleganti di foglia di pepe e sottobosco. Bocca succosa, intensa, marcata densità ed estratto imponente ma grande bevibilità. 

Toscana IGT Chiave di Saletta 2017

Un uvaggio di Sangiovese vinificato in maniera tradizionale, non in tino ma in acciaio, poi selezione di Cc (in parte da vinificazione integrale) capaci di rendere la parte più ‘polposa’ delle visioni enoiche di Villa Saletta. Mirtillo, foglia di pepe e noce moscata al naso, succoso alla bocca.

Toscana IGT Saletta Riccardi 2016

La tête de cuvée di Sangiovese, da vinificazione integrale, fermentazione in tino tronco-conico con leggera macerazione 3-4 giorni e 20 mesi di invecchiamento in legno fino al secondo passaggio. Melograno al naso, con tocchi di sottobosco, radice di liquirizia e pepe bianco. Bocca salmastro-sapida, persistenza e beva.

Toscana IGT Saletta Giulia 2016

Uvaggio di cuvée Cabernet Franc e Sauvignon da 100% vinificazione integrale con barrique bordolesi di tostature medio-forti. Ribes rosso, tocchi di maggiorana e timo disidratato, poi noce moscata e rabarbaro. Bocca salmastra, con ritorno fruttato e finale persistente.

Toscana IGT 980 AD 2016

Lo splendido apice aziendale, da 100% Cabernet Franc da vigneto Colline, una piccola parcella da mezzo ettaro.  Estratto sontuoso. Vinificazione integrale con fermentazione in legno bordolese poi tonneaux di legno di borgogna. Piccoli frutti neri di sottobosco, mora, bella spinta officinale di alloro, mentolatura finale da mentuccia selvatica. Bocca succosa, tannini sapidi, lunghissima persistenza di beva.