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El Rinconcillo

Quella delle tapas è una tradizione lunga sei secoli. Intramontabile e affascinante, icona di una nazione intera. Già nel 1670, a Siviglia, El Rinconcillo serviva le squisitezze locali in formato aperitivo, spianando la strada a tutti gli altri esercizi cittadini e lanciando una moda anche nel resto del paese. Qui si respira un’aria spensierata, scanzonata, ed è proprio in luoghi come questo che si comprende come alcune città possano anche oggi offrire realmente un’alternativa ai formalismi di una ristorazione tradizionale.
Il modo usuale, infatti, con cui si vive un tapas bar è quello della convivialità: si entra in compagnia, si mangiano piccoli bocconi, si beve e poi si cambia volentieri locale. Avventori abituali e turisti non si fossilizzano davanti ad un’unica insegna, specie da queste parti. Noi invece abbiamo fatto il contrario, assaggiando diverse preparazioni e trattenendoci più a lungo del solito, per comprenderne soprattutto se la qualità fosse direttamente proporzionale al blasone e al flusso di clientela di cui gode questo locale, il più antico della Spagna del Sud.
Al Rinconcillo c’è la possibilità di accomodarsi al tavolo, anche se la tradizione impone di stare in piedi attorno al bancone e ogni cliente si interfaccia esclusivamente con un proprio cameriere che si diletta a servirlo, in maniera personalizzata e alla velocità della luce. Man mano che si ordina, poi, viene segnato sul bancone il prezzo di ogni pietanza con un gessetto, e così fino al calcolo del conto finale.
Se l’atmosfera del luogo è in grado di entusiasmare consentendo un salto nel passato, la delusione arriva proprio dalla qualità di molte tapas. Bene gli affettati, un po’ meno i piatti usciti dalla cucina. In alcuni assaggi abbiamo notato palesi inconvenienti tecnici, come le fritture unte e bollenti all’interno o come le patate, probabilmente riscaldate al microonde. Più soddisfacenti si sono rivelati piatti principali come il saporito e morbido agnello, con una giusta quantità di grasso, o lo stufato di maiale, semplice e molto tradizionale. Sotto il profilo sostanziale, una cucina complessivamente inferiore rispetto ad altri tapas bar della città.

Bartender multitasking, qui alle prese con la pulizia di un pata negra.
Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
Jamones pata negra in vista.
jamones, Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
L’immancabile gazpacho, in questo caso con un quantitativo di cipolla di difficile digeribilità.
gazpacho, Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
Baccalà al pomodoro. Leggermente troppo sapido.
baccalà, Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
Crocchette della casa (con patate e formaggio). Ne sarebbe bastata una…
crocchette della casa, Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
Guanciale di maiale iberico in umido. Finalmente un’esecuzione degna di nota.
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Calamari giganti fritti. Davvero poco incisivi e porzione abnorme.
calamari fritti, Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
Costolette di agnello con patate (da dimenticare) e funghi.
costolette d'agnello, Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
Torta di formaggio (una cheese cake) con confettura di fragole,
torta, Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
che si va ad addizionare al resto;
Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
…ed ecco il conto finale!
Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
Interni.
interni, Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
Il bancone.
bancone, Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla
Ingresso.
ingresso, Tapas Bar El Rinconcillo, Sevilla

Mugaritz Restaurant, Gipuzkoa, Spagna

È ancora capace di dividere, il ristorante Mugaritz, saldamente ai vertici mondiali nella classifica dei 50 Best, eppure baciato dalla controversia che oppone fazioni di pubblico e di critica, forse persino le sfere emozionali dei suoi stessi clienti. Sintomo di uno stato di grazia condiviso da pochi, grandi chef: in questi tempi di abbiocco per prandium, la cucina si divincola più viva che mai fra i rebbi della forchetta e riesce persino a graffiare il palato inviando i suoi messaggi nervosi al cervello.
Andoni non è un cuoco qualunque: mangiare al suo Mugaritz significa sprofondare in un’altra dimensione culinaria, che chiede all’ospite un vigile abbandono, quasi una forma di sonnambulismo che concili veglia e sonno, interrogazione e vaticinio. Da sempre clamorosamente inattuale, artista postumo nell’accezione di Jean Cocteau, ha di certo anticipato il naturalismo che rampica dalla Scandinavia all’Amazzonia, senza tuttavia indulgere al brutismo primitivista e low tech delle espressioni più puntute. Nessuna sbavatura nei suoi piatti, anzi un’attenzione che rasenta la maniacalità per dettagli pressoché insensibili alle papille umane; neppure l’ombra del riduzionismo che accetta la complessità della cucina insieme ai colli dei galli cedroni. La perizia tecnica, tanto avanguardista che classica, dovuta a maestri come Ferran Adrià e Martin Berasategui, è innanzitutto un’istanza di rigore. Anche se ultimamente altre urgenze sembrano avere guadagnato la primazia: caduta la dimostratività degli anni 0, una diversa “semplicità” scolpisce i piatti, incentrati su un’idea sensoriale piuttosto che sulla tecnologia o sul concetto.
Soprattutto Andoni sembra possedere il requisito oggi imprescindibile nel panorama gastronomico internazionale: il possesso di un registro emozionale, cioè gustativo proprio. È l’insapore, da sempre investigato quale estrema provocazione in tempi di concentrazioni muscolari, capace di attrarre nel mulinello del suo vuoto la materia vagante del pensiero. Molte portate sembrano non contenere un solo grano di sale (per esempio il sugo di gamberi rossi delle scaglie di ghiaccio), quasi che ancora una volta la testa e la gola debbano ingaggiare il loro duello gastronomico.
La messinscena del pasto mira a scongiurare qualsiasi tipo di routine, per esempio attraverso titoli-trappola che non corrispondono alla reale composizione del piatto (cipolla carbonizzata al posto del nero di seppia), in modo da attivare la sensibilità del commensale. La prima parte del menu, dal toast affumicato con l’astice e la sua testa, che profuma di prateria e di primavera, allo struggente racemo di amaranto rosso fritto con sesamo in polvere, studio sulle testure sabbiose dove l’Oriente torna categoria dello spirito, va consumata con le mani, per esaltare la tattilità e il rapporto originario col cibo. Ma gli stessi supporti sono qualcosa di più di uno strumento: veicolano piuttosto una forma di sinestesia con l’ingrediente che riesuma gli esperimenti futuristi attraverso la citazione delle tessiture (il legno per la carota, i minuscoli arabeschi del fritto pastellato). Fino al gioco della morra che vivacizza l’impeccabile royale a bassa temperatura, servita con caviale o meno a seconda di chi vince, e alla puntata in cucina per abbattere la quarta parete di qualsiasi ristorante, dove si gustano i mini-rombi fritti. Ennesimo ingrediente aurorale che però lancia il sasso della provocazione sulla definizione di “buono”, suscitando un legittimo shock. Giacché la sacrosanta retorica della sostenibilità partecipa delle nostre sensazioni, così come il pregiudizio verso quanto è bruciato o incenerito (vedi il condimento del tendine fritto e il toast di midollo, dove sembra ancora fumare il terribile incendio del locale nel 2010); cosicché a insinuarsi è una cucina del sospetto che demistifica le certezze precostituite, emancipandocene. Alla fine del menu sopraggiungono poi i 7 vizi capitali, sequenza di piccola pasticceria contenuta in una torre di Babele a cassetti. Cioccolatini vuoti per la superbia, nessun cioccolatino per l’avarizia, consistenze lubriche per la lussuria. Un’allegoria in piena regola, che insinua l’ennesimo dubbio sui livelli di lettura dei piatti che l’hanno preceduta.
Ma anche l’impiattato contribuisce ad instaurare uno straniamento fecondo: scorrere le portate del menu equivale ad una carrellata di UFO (Unidentified Food Objects), mai così alieni rispetto agli enti tridimensionali che popolano i nostri frigoriferi e i banconi dei mercati. Sono spesso esaltati dal tocco vegetale di erbe impossibili: la messicana papaloquelite, twist olfattivo dell’agnello con i suoi aromi di foglia di mandarino e coriandolo, come la tea rock, da cui si estrae un dolcificante naturale immacolato.
L’elemento dominante, però, è la testura, vera ossessione di Andoni. Un po’ per ragioni di terroir (la cucina basca valorizza consistenze gelatinose altrove sgradite, vedi le kokotxas); in parte quale elemento di sovversione del gusto. Il menu si configura quindi come una sequenza di tattilità sottilmente “disturbanti”, sempre perfette nella loro esecuzione: la vischiosità filamentosa del granchio, la cui “mucillagine” deriva dai semi di lino ammollati nel latte delle noci di Macadamia; la spugnosità del riso fermentato, un’esplosione di sakè e di cantina; lo stridio sotto i denti del vetro di cioccolato; l’amido crudo dei dolcichini, che prosciuga il palato dalla succulenza del nasello. Soprattutto l’evanescenza “tiepida” dei trucioli di ghiaccio, sorta di rosa del deserto scarlatta pronta a sciogliersi in bocca senza anestetizzare il palato grazie a una costosa macchina giapponese. Una cucina dell’istante non meno effimera delle pompas del passato, quasi un apologo sull’obsolescenza programmata dell’avanguardia.

Mugaritz Restaurant, Gipuzkoa, Spagna

I congressi sono come i calabroni: non dovrebbero eppure continuano a volare. A dispetto dei calcoli degli entomologi sull’apertura alare, il loro ronzio ogni tanto riesce persino a ficcare il pungiglione nel cuore vivo della contemporaneità. Provocando choc non solo anafilattici, che rimettono in discussione assetti dati comunemente per scontati. Ce l’ha fatta, almeno in parte, Gastronomika 2013, che a San Sebastian in questo mese di ottobre ha inquadrato con taglio a dir poco inusuale il panorama gastronomico internazionale. Dalla messa a fuoco sono stati infatti esclusi i paesi del nord Europa, ma non è andata molto meglio al continente americano, che ha visto il solo Acurio sul palco. Forse per sfatare il cliché di una cucina irrimediabilmente nomizzata, aureolata di una corona di fiori ed erbe spontanee nella scampagnata georgica dalle Ande alla tundra, giù giù fino alle foreste australiane. Quella forse ha già preso residenza in qualche evento più o meno clandestino (ma l’anno prossimo sarà la volta dell’Italia, presente quest’anno con Gennaro Esposito).

Focus su Londra, allora, e sulla sua cucina metropolitana, che significa Heston Blumenthal (un po’ stanco sul palco, alle prese con il filo da lui stesso tranciato del food pairing, complessificato dalla volatilità e dagli ingredienti ponte) e soprattutto tanta, tantissima fusion. Talvolta di enorme interesse, come nel caso del giapponese Junya Yamasaki del ristorante Koya, che ha illustrato sul palco passo dopo passo la complessa preparazione di un piatto tradizionale giapponese, il calamaro fermentato nel suo fegato (ikano shiokara), bomba vischiosa che adopera anche per condire, al posto delle acciughe, o preparare la maionese. “Sulle montagne i vecchi usavano fermentare in questo modo, con le sue interiora, anche la selvaggina, che così si conserva per sempre: sto attualmente investigando questi procedimenti nel tentativo di riproporli”.

E anche un’altra tecnica conserviera di matrice asiatica ha avuto la sua celebrazione sul palco: l’essiccazione, soprattutto dei prodotti ittici. Quasi che tramontato il sole della lunga estate spagnola, la cucina avesse messo mano alle dispense dei vasetti senza tempo per superare il grande freddo dell’immaginazione. Ad aprirli sono stati due “outsider” di razza. Corey Lee, chef coreano che per 8 anni ha affiancato Thomas Keller alla French Laundry, oggi al Banu di San Francisco, e Nuno Mendes del Viajante di Londra. Davvero eccellente la ponencia del primo, che continua ad attingere suggestioni dalla cucina quotidiana della madrepatria, incollandone i frammenti con l’oro di una tecnica francesizzante, quasi fosse una ceramica crepata e nobilitata dal kintsugi. L’essiccazione gli serve per variare la tavolozza delle testure nel senso, modernissimo, del gelatinoso e del gommoso (è il caso dell’orecchia di mare e dell’oloturia, essiccata, reidratata, farcita come la ballotine di un MOF); ma è anche simulata con mossa di flamenco nella zuppa di finta pinna di pescecane, trompe-l’oeil obbligato dalla messa al bando dell’ingrediente originario. “Sono prodotti da valorizzare nelle loro differenze dal fresco: stanno al pesce come l’uva sta al vino o il prosciutto al maiale”, ha spiegato.

Anche lo chef portoghese è voluto transitare per il ciclo delle metamorfosi, a lui congeniali grazie alla familiarità col baccalà. A sua somiglianza, la superba capasanta britannica viene marinata, disidratata e nuovamente marinata con il brodo delle barbe, sempre per ragioni di testura; mentre il “dashi” è preparato con il baccalà vero e proprio. Un accanimento impensabile fino a pochi anni orsono, che tuttavia non invade il perimetro dell’autonomia dell’ingrediente, regista e cuoco di se stesso.

Folate cariche di spore che non sembrano aver lambito la Spagna, dove gli chef continuano a fare finta di niente. Quique Dacosta come Dani Garcia e Pedro Subijana, Martin Berasategui e Juan Mari Arzak, inceppati nel tartagliamento dei trompe-l’oeil più improbabili. Con le solite eccezioni di Angel Leon, che dal mare trae non solo plancton, ma oggi anche zuccheri e peperoncini; Josean Alija, sempre più elegante ed epurato; Joan Roca, che tuttavia cerca l’innovazione lontano dal pass, nella creazione di un’opera d’arte totale chiamata Somni con l’artista visivo Franc Aleu. Mentre Andoni Luis Aduriz, che ha dedicato il suo intervento alla “rete neuronale delle idee” sottesa al balzo della creatività, forgia come un ingegnere venusiano i suoi UFO (Unidentified Food Object), esperimenti sul limitare stesso della cucina e del gusto. Spesso evanescenti come una fata morgana che si dilegua nella bocca (ieri le pompas, oggi le scaglie di ghiaccio al sugo di gamberi rossi), quasi un monito sull’obsolescenza programmata della cucina d’avanguardia.

L’impressione è che dopo un decennio a forma di freccia, monodirezionale e dromocratico dietro la punta sibilante di Ferran Adrià, la cucina abbia imboccato percorsi plurali e paralleli, dove a spuntarla è chi possiede un universo di sapori propri. Un po’ come è accaduto dopo lo spegnimento dell’incendio avanguardista, quando Michelangelo Pistoletto scriveva: “Per me non ci sono forme più o meno attuali, tutte le forme sono disponibili, tutti i materiali, tutte le idee e tutti i mezzi. Il cammino dei passi di fianco porta fuori dal sistema che va diritto… Procedendo di fianco, la corsa fra gli individui diventa parallela, perché ogni individuo procede individualmente senza proiettarsi fuori di sé né in punti astratti né sugli altri. In questo cammino non ci sono i più bravi e i meno bravi, perché ognuno è quello che è e fa quello che fa; nessuno ha bisogno di fingere per mostrarsi migliore e diventa facilissimo comunicare senza strutture di linguaggio perché è facile capire di ognuno chi è e come è”.

Tre istantanee di una cena da Andoni, al Mugaritz:

Toast affumicato, 100% astice.

Erbe fritte dell’orto con aromi stridenti (shiso e cannella).

Carote con i loro fiori.

In una delle moderne cattedrali dedicate al culto dell’arte e alla celebrazione dell’ingegno umano, dapprima nel bistrot del museo Gugghenheim e da un paio d’anni con un ingresso indipendente in un’altra location dell’edificio, da tempo e in modo coerente un piccolo spazio è stato riservato al laborioso intelletto di Josean Martinez Alija, 35enne chef bilbaino di europea notorietà già da oltre un decennio. (altro…)

Etxebarri.
La “casa nuova” in basco. Uno di quei ristoranti imperdibili per un appassionato, didattici come pochi per quanto riguarda la conoscenza e la comprensione di uno strumento tecnico come la brace, importante per l’esaltazione e il trattamento di qualsiasi ingrediente. Qui è lei la protagonista, perché dall’inizio alla fine del pasto tutto, ma proprio tutto, viene passato attraverso di essa.
Se le parole hanno un peso, è importante sottolineare come l’Etxebarri si autodefinisce “asador” e non ristorante. Questo non per un’anacronistica convenzione, o per un’asettica professione d’umiltà, bensì per un omaggio a un metodo di cottura rispettato e prediletto, solo apparentemente semplice (basti vedere l’impressionante strumentazione di pentole e padelle varie con forature e conformazioni diverse), che nelle mani di Victor Arguinzoniz, chef dalla incredibile sensibilità, è divenuto una vera e propria arte cui giustamente sono stati tributati onori e fama.
Il fuoco, quindi, che non solo è utilizzato per la combustione e la trasformazione della materia, ma anche per definirla e cesellarla con grazia ed eleganza quasi si usasse un bisturi, e anche la scelta del tipo di legna utilizzato ha un suo rigoroso perché.
Come non giudicare eccellente il lavoro fatto sui gamberi di Palamos, di cui volentieri avremmo abusato all’infinito, o sull’uovo al tartufo passato anch’esso per la cottura con le ceneri della brace, o sui commoventi polipetti. Per non parlare della divina bontà della costata gallega.
Questo anche grazie a materie prime di altissimo livello, come, oltre a quelle appena citate, le acciughe del Cantabrico, i percebes (crostacei difficili da pescare e da mangiare, ma concentratissimi di sapore), i mitili, i funghi, i pesci o i salumi “maison”.
Molto defilata e anonima la location: un casolare sperduto nelle campagne dei dintorni di Bilbao dove la sala principale, al primo piano di quello che potrebbe essere un tranquillo bar di paese, brilla per spartana efficacia.
Altrettanto essenziale sia il servizio gestito con una solerzia e un’efficienza quasi militaresche da signore che potrebbero essere tranquillamente della famiglia dello chef, sia il menù dove vengono appena elencati gli ingredienti dei piatti.
Tutto il degustazione è stato davvero corroborante e ci ha lasciato il progetto, al prossimo passaggio da queste parti, di attingere altro diletto direttamente dalla carta.
Nota di merito alla carta dei vini che permette di poter scegliere senza troppe preoccupazioni.
Tutto il resto è brace.

Mise en place.

Pane, chorizo e brodo di maiale.

Acciughe del Cantabrico su pane tostato, burro di capra.

Mozzarella di bufala (rigorosamente auto prodotta).

Foie fatto in casa (fuori menù).

Percebes, gustosissimi crostacei tipici galiziani da maneggiare con cura, molta cura, per evitare di sporcarsi. Mare allo stato puro.

Meravigliosi quisquillones, appena scottati. Delizia infinita.

Gamberi di Palamos, altrettanto emozionanti.

Cetriolo di mare con fave.

Polipetti grigliati.

Tartare di chorizo fresco, cracker con farina di mais.

Carciofi alla brace (fuori menù).

Uovo con tartufo.

Funghi.

Le preziose angulas.

Magnifica costata di vacca gallega.

Sorbetto di arance sanguinelle.

Crema di latte fritta.

Particolare.

Gelato di latte concentrato con infusione di frutti rossi.

Petit fours.

Visto il prezzo (210 euro) non ci siamo potuti esimere. Un grande.

Le braci…

Particolari delle mitiche (mai aggettivo fu più appropriato) griglie. Notare la manovella che le posiziona con precisione millimetrica a seconda della cottura desiderata.

La “casa nuova”.

Panorama bucolico circostante.