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La Pergola

Un luogo fiabesco sui tetti di Roma

La Pergola è un posto magico, quasi fiabesco, dove in un luogo unico, sulla cima di Monte Mario con un’impareggiabile vista sulla Città Eterna, si trova una cucina ricercata, elegante ma, soprattutto, leggera e digeribile. Il successo di questo posto, monumento della ristorazione italica, va equamente ripartito tra cucina, sala e location, con lo Chef Heinz Back che gioca il ruolo di direttore d’orchestra. Di nazionalità tedesca, profondo conoscitore del Bel Paese e di tutti i suoi sapori, a ogni servizio mette in scena un Gran Tour della Penisola Italica, con un’attenzione maniacale alle materie prime, alla loro provenienza e alla digeribilità delle portate, frutto di lunghe sperimentazioni.

Una cucina elegante e digeribile affiancata con un servizio impareggiabile

Si nota fina da subito un rispetto assoluto della stagionalità che permette l’utilizzo di parecchi vegetali in grado di tenere testa a ben più pregiati prodotti di carne e pesce. Ne sono un esempio lo Scampo intiepidito e profumato nella cera d’api e abbinato a tuberi e radici in varie consistenze ma dal gusto deciso e intenso. Ruolo di co-protagonista svolto anche dalla Carota di Polignano che, sotto forma di ragù, ben si abbina a un agnello dalla millimetrica cottura. Una citazione la meritano, poi, le paste ripiene dalla sfoglia eterea e dal gusto inteso come i Fagottelli ripieni di carbonara, piatto simbolo del ristorante e i Tortellini ripieni di genovese e conditi con carciofi e tartufo. La terza componente del successo di questo ristorante è il servizio, diretto dal maître Simone Pinoli e dal sommelier Marco Reitano, due veterani, bravissimi a mettere a fuoco le esigenze della variegata clientela e farla sentire a proprio agio con una accoglienza cucita su misura. Qualità trasmesse a tutto il personale che, seppur giovane, è spigliato e reattivo a qualsiasi richiesta. La carta dei vini è monumentale con ricarichi degni di un tristellato, ma con un po’ di tempo e qualche chiacchiera col sommelier ci si può divertire e scoprire anche interessanti produttori.

Purtroppo questa realtà, a differenza delle fiabe, ha un prezzo, non popolare, che tuttavia vale la pena pagare almeno una volta nella vita di ogni gourmet che si rispetti.

La Galleria Fotografica:

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Occhio alla sostanza

Dimentichiamoci degli eccessi e delle luci scintillanti di Shibuya, l’eleganza e la ricercatezza dei moderni ristoranti di sushi. Da Waraku, a Roma, con il suo locale semplice, a tratti spoglio, siamo in una vera e autentica trattoria giapponese. La sostanza è la vera regina del locale; è il cibo a portarci in Oriente, più che i pur presenti rimandi alla cultura del Sol Levante. Questo bistrò ha l’intento di avvicinare il cliente ai vari mondi della cucina giapponese che, troppo spesso, sono completamente dimenticati alle nostre longitudini a favore del sempre più celebrato sushi che, però, rappresenta solo una piccola parte del patrimonio culinario nipponico, per giunta ascrivibile solo alle occasioni particolari. La cucina quotidiana, familiare, di casa, è altra cosa e qui riusciamo ad averne un chiaro esempio.

Oltre al ramen c’è di più

Il ramen rappresenta sicuramente l’architrave della proposta: tradizionale o vegetariano, viene declinato in moltissime sfumature, passando dal piccante all’agro fino alla dolcezza del cocco. La versione con la zuppa di miso ci ha conquistato; leggermente meno salata della classica zuppa di soia, risulta molto equilibrata e delicata, consentendo di apprezzare al massimo l’apporto dei singoli condimenti, garantendo la sensazione di una zuppa diversa ad ogni assaggio. Molto apprezzata la possibilità di richiedere il “Kaedama”, la ricarica di un’intera porzione di spaghetto alla zuppa.

Da atteso protagonista, il ramen lascia il palcoscenico a quelli che, paradossalmente, sono presentati come accompagnamenti. I famosi gyoza risultano impeccabili nella tradizionale farcia e nell’ottima chiusura a mano, perdendo però di personalità nel condimento, risultando troppo appiattiti sugli stessi gusti. Il contrario accade per il meno celebre buta kimchi, fettine di maiale marinate nella soia con verza coreana, che sorprende per il gusto che strizza l’occhio all’umami.

E sul gusto si concentrano tutti gli sforzi della cucina, trascurando, forse anche troppo, il lato estetico dei piatti; anche la sala e la mise en place (praticamente assente) non si sottraggono a questo giudizio. Pur comprendendo che, per chi aspira ad essere una trattoria familiare, la presentazione del piatto non rappresenti un aspetto centrale, una maggiore cura consentirebbe di valorizzare la qualità della preparazione, permettendo di mangiare con gli occhi, oltre che con le bacchette.

Non esiste una vera carta dei vini strutturata, mentre dello spazio è riservato ad alcune birre giapponesi e ad una selezione di tè, da gustare durante il pasto o come digestivo. Anche la selezione di dessert è piuttosto limitata, con molte influenze italiane; tengono alta la bandiera nipponica i simpatici mochi.

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L’osteria moderna che si nutre di spezie, erbe e verdure

Appena si mette piede all’interno di Osteria Fernanda, regno dello Chef Davide del Duca tra Trastevere e Monteverde, si viene stregati dalla luminosità e dal colpo d’occhio offerto da un’ampia parete che domina la sala, composta da una nutrita selezione di bottiglie. La cucina è localizzata al piano superiore, dove trova spazio un soppalco dal quale è possibile assistere all’operosità della brigata grazie a un’ampia vetrata a vista. Nel complesso il locale può ospitare una quarantina di coperti, oltre a un dehor in strada. Una volta accomodati veniamo guidati alla scoperta delle proposte della cucina; al margine di una chiacchierata sui nostri gusti enoici viene suggerita una bottiglia che ci accompagnerà a tutto pasto, centrata a pieno.

Un percorso tra Oriente e Occidente

Il benvenuto dalla cucina è una ottima premessa al percorso che ci aspetta: esplosivi il Cioccolatino di cioccolato bianco, arachidi e gel al crodino e, soprattutto, la Pralina di fegatini di pollo, curry, mandarino appoggiata su una cialda di mais e pinoli. Si inizia con note di freschezza della nuova stagione, il Crudo di pesce bianco è di carattere con un gelato di colatura di alici, l’ostrica trova il suo equilibrio in una combinazione con topinambur fermentato e gel di limone nero, restituendo una sapidità rotonda. La Seppia al verde è un piatto centrato, che supera la delicatezza del cefalopode affiancandola a sapori insoliti come il cocco e i fiori di gelsomino. Menzione d’onore al Risotto con latte di bufala affumicato: appena giunto in tavola un conturbante profumo di affumicato ci investe invogliandoci ad immergere immediatamente la forchetta nel piatto. Viene suggerito di non mescolare le varie “strisce di colore” per poter assaporare una ad una maionese di riccio di mare, il verde di maionese di erbe, la salsa di arancio bruciato, il nero di seppia col suo tocco iodato ed estratto di levistico. Ogni forchettata una pennellata dei vari contrasti del piatto, grasso, sapido, fresco, acidulo, dolce, ma la portata, servita solo con una forchetta, servita peraltro su piatto fondo, reclama a gran voce l’uso del cucchiaio. Ancora, il cannellone di cervo è meno incisivo di quanto ci si aspetterebbe dati gli ingredienti in campo: il fondo di cottura al cardamomo nero ha una leggera speziatura e il ripieno del raviolo di tuberi e mela è molto delicato: sovrastato dal caramello di fondo di cervo che condisce la carne cruda. Interessanti poi l’anguilla, che gioca sul riuscito connubio tra l’amaricante delle verdure con il riso acido e l’umeboshi, sebbene la consistenza del pesce risenta di una cottura forse troppo marcata, e il maialino, cavolo nero, alloro, latte e kumquat dai sapori delicati e consistenza succosa.

Centrato il pre-dessert, stagionale data la Pasqua appena passata: una Spuma di colomba, sorbetto di mandarino, cialda di zucchero caramellizzato con olio al pepe sancho che regala un tocco di freschezza e ci prepara al finale: il godurioso dessert che gioca sui contrasti di temperature e consistenze, aromatica coccola a chiusura del pasto. Mascarpone al cioccolato bianco, cialde di nocciole, granita e gelato al caffè, gel di liquirizia con, al lato, ciambelline calde alla banana e zucchero a velo. La piccola pasticceria chiude con un Macaron al pepe sancho e una fresca sfera di cioccolato bianco ripiena di Piña Colada.

La lista dei vini è curata e varia, spazia dall’Italia alla Francia toccando anche Portogallo, Slovenia, Germania e un’ampia scelta di vini naturali. Vi è anche la proposta di qualche birra, sidro, vini liquorosi, amari e una discreta varietà di distillati. Il servizio è casual, cortese e pronto a rispondere alle richieste fuori-carta, con margini di miglioramento nel ritmo con cui vengono serviti i piatti, tenendo conto di una sala non a pieno regime al momento della visita.

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Una babele di influenze

In mezzo a così tanti stimoli, il rischio maggiore potrebbe proprio essere quello di perdersi, di non riuscire a costruire una propria personalità. E invece è proprio in casi come questi che i fuoriclasse di sala e cucina fanno la differenza e, nella complessità, sono in grado di costruire un grande locale. Sono tanti gli elementi di interesse di questo bistrot a pochi passi dalla Fontana di Trevi. In primis, proprio la zona: l’idea di un locale di questa qualità in una delle zone più turistiche del mondo ha un che di folle e allo stesso tempo entusiasmante. Secondo: è un pezzo di Francia, radicato a New York, ambientato a Roma. Una babele di influenze per un locale che si ispira in maniera molto chiara al Balthazar di New York, famoso bistrot in stile parigino aperto a SoHo dal 1997, ma intriso di romanità nel suo menù (e, in generale, molto legato alla cucina tricolore). Terzo: la coppia d’oro tra cucina e sala, Nabil Hassen e Valerio Capriotti, i fuoriclasse a cui sopra si faceva riferimento. I due si ritrovano di nuovo insieme in questo progetto dopo l’esperienza di Roscioli.

Inno alla golosità

La cucina di Nabil è da parecchio tempo una delle più interessanti di Roma, non solo per sua famosissima carbonara (per inciso, ancora una bomba a mano), ma anche per la sua capacità di leggere in chiave moderna ma sempre molto gourmand i grandi classici della cucina italiana e mediterranea. Il menù è un inno alla golosità: ci prendereste la residenza qui dentro, col desiderio di assaggiare praticamente ogni voce del menù. Questo è un locale pensato per chi ama il cibo. Ingredienti unici, gusti precisi, tanta voglia di divertire il cliente. Valerio Capriotti è invece ormai una sicurezza assoluta come direttore di sale e di ristoranti: quello che è per noi uno dei migliori uomini di sala italiana, ha ormai preso consapevolezza nella gestione a 360° della proposta ristorativa. La sua carta vini è un inno al viaggio, ricca di proposte mai banali, ma è tutto il locale ad essere costruito con intelligenza: è bar à huitres ma contemporaneamente trattoria o gastronomia, puoi cenare al bancone oppure con più calma al tavolo, puoi bere una grande bottiglia di vino o un cocktail fatto come si deve. Tutto, ora e qui. Che tu sia in famiglia con bambini al seguito o con gli amici a goderti una bella bottiglia con del pesce crudo al bancone. Abbiamo assaggiato alcuni dei classici romani come la Carbonara o il Cacio e pepe, preparati divinamente, ma ci ha stupito anche la precisione di cottura della Bouillabaisse. Il tutto in un ambiente rilassato, divertente, che lascia la possibilità di mangiare anche all’aperto nella bella stagione. Probabilmente una delle nostre tappe fisse nei prossimi soggiorni romani…

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Una dedica a Roma

A pochi passi dal Colosseo, con una vista impagabile sull’antica arena che da secoli testimonia la bellezza della capitale nel mondo, l’Hotel Palazzo Manfredi ospita il ristorante Aroma. Uno scenario privilegiato quello che si gode dalla terrazza dello stellato Michelin, ai piedi del quale si stendono il Ludus Magnus e, poco più in là, il Colosseo, tanto vicino che pare quasi di poterlo toccare. Al centro di cotanta “cornice” vi è una cucina di livello, che richiama gli avventori grazie all’intrinseca bontà dei suoi piatti oltre che per lo scenario idilliaco. Questa è guidata da chef Giuseppe Di Iorio, che alle spalle ha esperienze di spessore come quella all’Hyde Park Hotel di Londra e al Mirabelle di Roma. Una cucina di facile comprensione, la sua, adatta sia a rassicurare la clientela locale, sia a soddisfare gli assidui frequentatori internazionali, che nel piatto ricercano i sapori della tradizione. Una cucina contemporanea e ben eseguita, dunque, che diventa un punto di riferimento nella categoria della ristorazione d’hotel e accontenta tutti. Lo chef infatti propone tre menù degustazione e un menù “smart”, in ciascuno dei quali il cliente può personalizzare il proprio “percorso”, attingendo dai “piatti special” come la Entrecôte di wagyū, o dai piatti della tradizione, come la Carbonara “shakerata”.

Equilibri e tradizione

Una deliziosa sinfonia di amuse bouche apre le danze e introduce piatti in prevalenza contraddistinti da una suadente morbidezza. È il caso del risotto ai porcini e spugnole con petto, coscia e uovo di quaglia, ma anche della guancia di maiale iberico, cavolo nero e frutto della passione, nella quale si gioca con l’acidità del frutto e la sensazione amaricante donata dalla brassicacea. A chiudere il cerchio una variazione di cioccolato, mousse al fondente e gelato alla stracciatella, il comfort food per eccellenza. Si tratta dunque di una cucina che, come si diceva, gioca con gli equilibri senza tuttavia avvalersi di particolari slanci creativi. Una cucina che utilizza ingredienti, di prima scelta, tra i più blasonati, che chiaramente strizzano l’occhio a una dimensione più continentale, ma nella realtà dei fatti piacciono a tutti, locals e turisti. E il fatto che il ristorante sia “fully booked” per settimane ne rappresenta l’immediato riscontro. Il personale di sala è perfettamente allineato all’ambiente e fornisce un servizio attento e professionale ma mai ingessato. Il cliente così si sente coccolato, sotto ogni punto di vista. Dai piatti dalle sensazioni immediate, dal personale premuroso e dalla vista che può godere in quello che è uno dei contesti più fortunati della città eterna.

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