Passione Gourmet Ristoranti Archivi - Pagina 3 di 6 - Passione Gourmet

Una nuova Passione… Gourmet!

“Cari amici,

Passione Gourmet sta per dare avvio ad una nuova avventura. Da oggi il sito web che tutti conosciamo va in pensione, rimarrà nei ricordi più lieti, i vostri e i nostri, di questi anni passati assieme.

Tra qualche giorno la sfida che ci siamo prefissi, e alla quale lavoriamo da mesi, porterà la piattaforma di Passione Gourmet ad avere un aspetto diverso, rinnovato nello stile, ma anche nei contenuti.
Resterà però intatta la natura immutabile che ci ha caratterizzato fin dal principio del nostro percorso: professionalità, libertà di giudizio, franchezza assoluta.

Il nostro obiettivo è migliorarci sempre ed è per questo motivo che abbiamo deciso di percorrere una nuova strada: all’inizio non tutto sarà perfetto o completo, confidiamo pertanto nel vostro supporto e nella vostra comprensione, con il fine di raggiungere quanto prima elevati standard di qualità, idonei a celebrare la nostra comune passione per l’alta cucina.

Le molte novità che abbiamo in serbo per voi le scopriremo insieme nel tempo, per ora vi chiediamo soltanto un po’ di pazienza…
Grazie anticipatamente a tutti voi!”

Il team Passione Gourmet

“Tutte le volte che qualcuno assaggia un nuovo piatto allunga la vita di settantacinque giorni”. Questo antico proverbio giapponese, notevole anche per la precisione della stima, chiude la carta dei dessert di Doozo e ci sembra un ottimo sprone per frequentare spesso questo 9simpatico locale dietro la frenetica via Nazionale. (altro…)

Guido e Costigliole sono stati per quarant’anni un binomio indissolubile e, ancor oggi, ogni volta che si passa in paese l’emozione sale ripensando a quel tempio che tante gioie ha regalato.
Un luogo mitico, creato con lungimiranza e in controtendenza alle mode del momento da Guido e Lidia, che gettò le basi per il rinnovamento della ristorazione nelle Langhe: era il 1961 e da allora Guido da Costigliole divenne un punto di riferimento per i buongustai di tutto il mondo.
Da Guido si poteva solo cenare e solo su prenotazione, vi era un unico menù degustazione, una carta dei vini formidabile, una grande cucina, ma soprattutto una splendida famiglia al lavoro, gli Alciati: ambasciatori insuperabili della grande cucina italiana e maestri nell’arte dell’accoglienza.
Dal 2002 il ristorante si è trasferito nella nuova sede di Santo Stefano Belbo nelle cantine del Relais San Maurizio, un ex monastero Cistercense del diciottesimo secolo sapientemente ristrutturato e adibito ad albergo di charme.
Purtroppo, dopo Guido, anche Lidia ci ha lasciati, e la sua eredità è stata raccolta da Luca Zecchin in cucina, mentre in sala il figlio Andrea, valente sommelier e grande appassionato d’arte, si occupa della cantina con Monica Magnini che dirige la sala.
Oggi, a fianco ai grandi classici della casa, hanno fatto capolino diversi piatti di concezione moderna, molti dei quali dedicati al pesce.
Certo, qualcosa dell’atmosfera di un tempo si è persa nel passaggio di consegne generazionale: ci si sente più clienti e meno ospiti rispetto a una volta, i coperti sono molti ed il servizio, seppur cortese ed efficente, non può più essere sartoriale come prima.
Dalla cucina qualche alto e basso: fenomenali come sempre gli agnolotti ai tre arrosti, sia nella versione al sugo d’arrosto sia quelli semplicemente serviti nel tovagliolo, molto buoni anche i “capunet” foglie di cavolo verza ripieni, e goloso l’uovo fritto con salsa al tartufo.
Poco saporito invece il risotto con le spugnole e poco convincente il brasato cotto a bassa temperatura, eccessivamente sfibrato, quasi “bollito”, con una salsa di scarsa incisività e troppo pepata.
Splendida la carta dei vini, che conta oltre 2.500 etichette, con in evidenza il Piemonte e la Francia, ma in cui è ben rappresentato anche il resto del mondo; il tutto proposto a prezzi più che ragionevoli.
Nonostante tutto, una tappa imprescindibile per chi voglia provare alcuni classici di Langa ai massimi livelli e rendere omaggio a una famiglia che molto ha dato e molto ancora darà al mondo enogastronomico nazionale.

Sala e mise en place.


Merluzzo, tartufo e funghi.

Vitello tonnato.

Terrina di coniglio marinato.

Tagliatelle al tartufo nero.

Ravioli al nero di seppia.

Lonza del coniglio grigio di Carmagnola.

Panna cotta.

Le viole sono nell’aria.

La Gallina è il ristorante dell’affascinante Ostelliere, bellissimo albergo quattro stelle in stile campagnard ospitato in un complesso colonico del ‘700. Sapientemente ristrutturato dalla famiglia Moccagatta, produttrice di vini fra i più conosciuti ed interessanti della zona, e splendidamente integrato fra le colline e le vigne della frazione di Monterotondo di Gavi, offre camere moderne e ogni comfort in un’atmosfera piacevole e rilassante.
Da circa cinque anni la guida della cucina è affidata a Massimo Mentasti, cuocone neanche trentenne di origine Varesina di cui si parla poco, la cui mano privilegia soprattutto l’aspetto goloso dei piatti, tutti estremamente ricchi e opulenti a scapito, in taluni casi, della finezza e della pulizia dei sapori.
La matrice è prettamente tradizionale e saldamente ancorata al territorio circostante, senza disdegnare però qualche incursione nel delicato mondo della cucina moderaramente creativa.
Il nostro pranzo è stato nel complesso piacevole anche se, in qualche caso, abbiamo riscontrato errori di esecuzione dovuti probabilmente ad un attimo di disattenzione, oppure all’imbarazzo del pienone domenicale. Ad esempio nella pur golosa lasagna con polpette, melanzane e mozzarella è finito senz’altro qualche giro di pepe di troppo con conseguente prosciugamento immediato della bottiglia dell’acqua, mentre la pur buona costata di fassone ci è stata servita con una cottura non proprio ottimale, risultando piuttosto molliccia al palato e difficile da scaloppare per il volenteroso maître.
Giovane e motivata ci è parsa la brigata di sala, che è riuscita nella non facile impresa di gestire senza affanni i non pochi coperti, composti da una clientela molto eterogenea per tipologia ed età, con una significativa presenza di bimbi sempre difficili da gestire al ristorante.
Interessante la carta dei vini incentrata esclusivamente sul Piemonte con massima attenzione riservata ai vini locali e, unica concessione extra regionale, per gli Champagne.
Crediamo che la cucina di Mentasti, sia già ad oggi, una delle più interessanti della zona, ma abbia ancora discreti margini di miglioramento sia sul piano della proposta, oggi fin troppo scolastica, ma soprattutto sul piano della realizzazione dei piatti.

Pane e pancetta fatti in casa ed il simbolo del locale.

Pane e focaccia.

Il burro e l’olio in accompagnamento.

Carpaccio di fassone al the e ghiotti pensieri piemontesi.

Uovo in camicia, carciofi e robiola: gustoso e goloso come promette, un piatto emblematico di questa cucina.

Lasagna croccante con polpette, melanzane, mozzarella, pomodoro… anche questo praticamente un piatto unico, esagerato… peccato per il pepe.

Costata di fassone, salsa bernaise, maionese, verdure.



Gelato fiordilatte e i suoi divertimenti: confettura di fichi, cioccolato, amaretto, caramello.


Bunet tradizionale.

L’ottima Bigolla di Walter Massa.

Telese Terme è luogo ameno, distante pochi chilometri dal confine con la provincia di Caserta, ma lontano, molto lontano dal degrado che caratterizza la zona a nord-est del capoluogo.
Ed è qui che Giuseppe Iannotti ha voluto investire e inaugurare un anno e mezzo fa una struttura sicuramente ambiziosa, hi-tech, ad offerta multipla: un negozio con prodotti eno-gastronomici selezionati con grande cura, un bistrot per una sosta veloce ma di qualità, ed un ristorante “gourmet”, con pochi tavoli ad accogliere le creazioni della cucina a vista.
Un bel paesaggio campestre circonda l’isolato, il giardino ed il terrazzo sono curati, le viti ordinate, i monti del Matese sullo sfondo.
Tutto predispone al meglio, compresi i numerosi attestati di stima che giungono da più direzioni in favore del giovane cuciniere.
Non esitiamo, quindi, ad affidarci totalmente allo chef ed a selezionare il menù degustazione più ampio, denominato “a mano libera”.
Si parte con una triade di appetizer, non propriamente “facili” per iniziare un pasto: crocchetta con pasta ai quattro formaggi, chips di lardo e gola di baccalà fritta. La gola è servita quasi fredda e la sensazione di avere le papille sature ancor prima di aprire le danze si fa strada.
La falsa partenza, però, non era un caso isolato. Troppe perplessità si susseguono una all’altra, come la proporzione nella composizione di lingua e fegato grasso, o la concezione di un gelato di mozzarella fritto panato, con gazpacho di pomodoro, che sfodera una dolcezza estrema e poco comprensibile a questo punto del pasto.
Solo discreti i crudi (ma perché metterci il salmone con tutto il ben di Dio che le nostre coste hanno da offrire?), accompagnati da semplici insalatine e da una crema d’aglio non addomesticata che crea, all’olfatto e al palato, contrasti disarmonici di difficile lettura.
L’incerto percorso è confermato dal risotto agli agrumi, dove la dolcezza della vaniglia permea il tutto, e da una passata di ceci con anguilla affumicata di scarso mordente.
Finalmente un piatto di caratura notevole nel cervo con pera cotta, sospinto verso l’alto da un piacevolissimo sentore di brace, quella buona.
Purtroppo resterà l’unico spunto di rilievo di un pranzo che ha tradito le attese. Il cervo è una dimostrazione di classe sulla quale Iannotti, speriamo, potrà costruire il suo futuro radioso, che gli auguriamo di cuore.
Allo stato attuale, però, la linea di cucina non è propriamente compiuta, caratterizzata dall’utilizzo di materie prime altisonanti, ma priva di profondità, di finezza e centralità gustativa.
Lo stesso percorso “a mano libera” è privo di un filo conduttore, i piatti si susseguono senza una particolare logica, per lo più caratterizzati dalla quasi totale assenza di acidità e pervasi dalla nota dolce davvero eccessiva.
Attendere la maturazione dello chef, senza caricarlo di eccessive aspettative, appare ai nostri occhi l’unica strada per far emergere le sue doti. E visti gli innumerevoli attestati di stima che provengono da più parti ci sentiamo di arrotondare per eccesso la valutazione, sperando in una crescita futura e nel conseguimento della necessaria maturazione.
Ai posteri l’ardua sentenza.

Crocchetta con pasta ai quattro formaggi, chips di lardo, gola di baccalà fritta. Uno start un po’ più soft, per aprire le danze, sarebbe stato gradito.

I pani, i grissini e l’olio, tutto di buona qualità.

Lingua di bue, gelatina di birra, foie gras mantecato al pepe verde, aceto tradizionale di Modena 70 anni. Decisamente squilibrato verso le note grasse del fegato, nascosto al di sotto della lingua, quantitativamente davvero eccessivo. Aceto e gelatina non riescono a fornire adeguati contrappunti acidi.

Crudi di pesce. Tonno, capasanta, rana pescatrice, gambero rosso, astice blu, salmone. Materia prima solo discreta, ma incomprensibile è la crema d’aglio, fastidioso orpello gusto-olfattivo. Non è dato ravvedere alcun legame con il sapore di mare, che inevitabilmente viene annichilito. Interessanti, invece, i capperi in polvere, esaltatori di sapidità.

Gelato di mozzarella fritto in panatura aromatizzata, con gazpacho di pomodoro. Il piatto che meno ci ha convinto, sia per l’esecuzione, non perfetta, sia per la concezione. Un antipasto così dolce, finanche stucchevole, è quasi spiazzante a questo punto del menù.

Passatina di ceci con anguilla affumicata, polvere di caffè, porcini secchi, olio alla brace. L’idea è buona, l’esecuzione meno. La crema, volutamente (a detta dello chef) insipida, non riesce a creare un legame con gli altri ingredienti. Da rivedere.

Risotto agli agrumi con battuto di astice blu, aria di prezzemolo. Tralasciando il “gioco” dell’aria, abbiamo riscontrato un notevole accento dolciastro, conferito dalla vaniglia (non annunciata, così come lo zafferano). Quasi impercettibile il sentore agrumato, che avremmo preferito maggiormente accentuato.

Fagottino ripieno di faraona, salsa al burro e parmigiano, bucce di pomodoro essiccate. Piacevole intermezzo, carico di sapore.

Cervo, pera cotta, fondo di cottura. Senza alcun dubbio la portata migliore, finalmente di livello adeguato alle aspirazioni dello chef. Gradevolissimo il sentore di brace. Cottura perfetta.

Marshmallow di limone, aria di carota, gratta checca al sedano. Pre-dolce non perfettamente centrato. Si nota la ricerca di giochi di consistenze, ma è il gusto ad essere latente, quasi sottotraccia.

Cannolo scomposto. La rivisitazione, purtroppo, non riesce a reggere il confronto con la ricetta classica. Peccato per il quadrotto di sfoglia, poco croccante. Crema al pistacchio, cioccolato fondente, e frutta candita completano la bella composizione.

Altra rivisitazione di un grande classico, la delizia al limone. Anche in questo caso operazione non riuscita. Il bignè all’interno non è fragrante, la gelatina di limone, alla base, quasi incollata al piatto.

Piccola pasticceria, ben fatta.

Sala

Tavolo

Giardino, ben curato, ulivi e viti.