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La Table d’Aki

Bisogna schierarsi nella vita.
E un posto come questo, per i limiti strutturali che lo connotano, non può piacere a tutti: ci si trova fatalmente ad amarlo o a odiarlo.
Dal voto si capisce da che parte siamo noi, ma oltre al colpo di fulmine che è scattato appena varcata la soglia di questo buco di ristorante, abbiamo numerosi e validi argomenti per argomentare la nostra predilezione.
Akihiro Horikoshi, dopo aver lavorato per più di quindici anni all’Ambroisie occupandosi delle preparazioni di pesce, ha fatto una scelta radicale: aprire una sorta di mini salotto da meno di venti persone, dove propone, a prezzi ragionevoli, pochissimi piatti da grande ristorazione. Il tutto è accompagnato da un’agile carta di vini, scelti con oculatezza per accompagnare validamente il cibo senza pesare sul portafogli.
L’ambiente è minimale, la cucina realmente a vista, nel senso che è praticamente accanto a voi. Lo chef è coadiuvato solo da una signora, anch’essa giapponese (probabilmente sua moglie dalle fonti trovate in rete, ma non ho ritenuto d’indagare oltre), che si occupa dei clienti col noto garbo tipicamente nipponico, mentre lui cucina, pulisce e fa anche i piatti.
Date le premesse arriviamo alla cucina e alla sua valutazione: il menù proposto a pranzo, che prevede solo due opzioni per entrée, un piatto principale e un dolce unico, rasenta la perfezione nelle esecuzioni. Se chiudete gli occhi e v’immaginate in una grande maison ne ritroverete in piano presentazioni, cotture, salse d’accompagnamento, qualità degli ingredienti.
L’orata, la cappasanta, la sogliola, il San Pietro vengono esaltati dal tocco di una mano sapiente nel dosare la preparazione al millimetro con salse, verdure e spezie perfettamente governate. Una gamma espressiva volutamente limitata (solo il mare), ma portata ai massimi livelli possibili.
L’unico dolce proposto, una torta di pere di fattura a dir poco classica e senza alcun accompagnamento, può sembrare una caduta, ma se poi si rivela soave al palato, non può che confermare la scelta massimalista di Mr. Aki: fare apparentemente semplice e fare sostanzialmente bene.
Ad accompagnare il tutto un cristallino, per profumi e freschezza varietale, Sauvignon Les Broux 2011, annata non sempre felicissima in zona.
Se siete stanchi di velleitarismi e non volete svenarvi per provare una cucina da multistellato tradizionale la scelta è praticamente obbligata: 49, rue Vaneau, un luogo discreto che vi resterà nella memoria e che pretende solamente l’accortezza di una telefonata un mesetto prima per assicurarvi uno dei pochi e ambiti tavoli da vero gourmet.

Orata con salsa alle spezie e carote. Dosaggi certosini e cotture millimetriche. Un entrée che dice già tutto.

Cappasanta al potimarron e spuma alla vaniglia. Elegante con echi della Cancale che più ci piacque.

Goujonettes di sogliola, brunoise di sedano rapa e capperi. Materia prima da sogno accompagnata come meglio non si può. Splendido il contrappunto salato dei capperi. Nulla per caso.

San Pietro con scalogno caramellato. Preso e catapultato qui da tavole multistellate.

Il gradevole Sancerre che ci ha accompagnato.

 

In una città in eterno scorrere come Parigi sostenere la “definitività” dei posti è quanto di più ottuso si possa affermare. Leggere su Internet racconti sul croissant definitivo, sul macaron come se non ci fosse un domani, spesso scritti da chi sulle sponde della Senna ci viene sì e no ogni tre anni e si muove per grandi firme o per sentito dire, è l’insulto più grande che si possa rivolgere ad un movimento che si rigenera mese dopo mese. (altro…)

E’ il caso di iniziare con la più importante delle premesse: da Septime si mangia bene. Molto bene.
E’ bene precisarlo subito, per non rischiare di farsi un’idea sbagliata sulla cucina di Bertrand Grébaut, talentuoso ex chef dell’Agapé. Detto ciò, la considerazione che mi viene da fare immediatamente è un’altra: siamo sicuri che sull’orbe terracqueo ci siano soltanto 86 locali nei quali si mangi meglio che all’80 di rue de Charonne?
Domanda retorica, perché l’impressione netta è che, senza uscire dal settantacinquesimo dipartimento, una buona quindicina di locali migliori, non per forza comprendenti tutti i sei che la nota World’s Best con un guizzo di coerenza nominale piazza davanti a Septime, si trovino senza sforzo. Fortunati gli abitanti della Ville Lumière, che non hanno che l’imbarazzo della scelta. Ma l’incredibile offerta parigina non è certo una colpa di Grébaut.
Ciò che mi sorprende, ma solo fino ad un certo punto, è la perseveranza con cui una certa fascia della critica gastronomica spinge locali come questo facendo leva sul fatto che un grande rapporto qualità prezzo assecondi l’esigenza di avere nuove forme di ristorazione, alleggerite da sovrastrutture e orpelli.
Mi sorprende perché non posso evitare di notare come qui, a fronte di un imponente spiegamento di forze (come si coniuga con l’idea di bistronomie la presenza di 13 persone fra sala e cucina per un menù unico e brevissimo e circa 50 coperti?), ciò su cui pare maggiormente si sia risparmiato in termini di costi sia proprio l’offerta gastronomica.
Non parlo di qualità, come già detto molto buona, a tratti eccellente, e neppure di tipologia di prodotti offerti, perché è ovvio che non possa aspettarmi homard e foie gras a queste cifre, ma di quantità, o meglio ancora di generosità nell’offerta.
Perché i 5 microassaggi, delle dimensioni che di solito troviamo lungo un menù da 10-12 portate, mi costringono, pur non essendo un fan della grande abbuffata, a ricorrere ad un’immonda quantità di (ottimo) pane, e in sè causano una consistente diminuzione dell’offerta primaria, non degli orpelli.
In sostanza è come se prendendo un volo Ryan Air per Londra accettassi di essere trasportato dal vettore fino a Bruxelles, tanto è low cost.

Oltretutto non stiamo parlando di una cucina rivoluzionaria in misura tale da dover esser centellinata per non affaticare i neuroni. Quella di Grèbaut è una cucina furba, un po’ nel solco di quella di Aizpitarte (che per inciso mentre ceniamo si sta bevendo un calice al bancone del locale), fatta di sapori e consistenze che vanno a stuzzicare i palati dei gourmet ma appagano con altrettanta soddisfazione quelli dei numerosi Bobo che affollano i tavoli del locale.
Una cucina interessante, ben eseguita, spesso decisamente intrigante. Diciamolo, però, che per la misurazione del solco che c’è tra questi piatti e quelli degli chef che spostano o hanno spostato in là anche di un millimetro l’orizzonte gastronomico si può tranquillamente ricorrere agli anni luce.
Il piatto migliore? Senz’altro l’ultimo, cioccolato con olive e sorbetto cassis-basilico. Netto. Preciso. Fenomenale. Uno dei tre migliori predessert della mia vita.
Ma anche la prima entrata è una costruzione lodevole. Gamberi crudi, lamponi, mandorle, salicornia, acqua di pomodoro. Piatto che non sfigurerebbe su una grande table moderna.
In mezzo creazioni di buon livello e di esecuzione precisa ma meno esaltanti, un po’ manierate come l’uovo poché con carote in salsa, schiuma e confit, o di ispirazione meno alta (ma in effetti consona all’idea di bistrot) come il cabillaud con cavolo e zucchine o la pancetta di maiale con cipollotti stufati, golosa e curata in dettagli come la perfetta caramellatura dei vegetali.
In sostanza un ottimo posto. A patto di assegnargli il ruolo che gli compete.

Gamberi, acqua di pomodoro, lampone, mandorle e salicornia.

Uovo poché, spuma di carota, crema di carota e carota confit.

Cabillaud, zucchine, salsa di cozze e cavolo.

Pancetta di maiale e cipollotti.

Mattonella di cioccolato alle olive, sorbetto al cassis e basilico.

Recensione Ristorante

Segnatevi a chiare lettere sul taccuino gourmet questi due nomi: Alice Di Cagno e Victor Gaillard. Non sono personaggi da copertina, questi ragazzi, e probabilmente frequentano i circuiti che a Parigi “contano” meno di altri loro giovani colleghi, ma a meno di 30 anni sono già dei veri fenomeni. Alice, italo-brasiliana dai trascorsi arpeggiati (ben intuibili dai miracoli che realizza partendo da semplici ortaggi) e Victor, cresciuto principalmente chez Ledoyen, in attesa di far fruttare in modi più consueti il loro amore hanno dato vita ad un locale che, al giorno d’oggi, è da masochisti lasciarsi sfuggire se si capita nella Ville Lumière.
(altro…)

Peripherique di Parigi, 4 Luglio 2012.
L’iimmancabile bouchon che ci accoglie lungo la rampa d’uscita ospita il nostro primo contatto col mondo civilizzato dopo i 500 chilometri di autoroute da Lione. Ciak. Si affianca Suv targato F ma con sospetto toro griffato dietro. I finestrini si abbassano, tre mani come una sola ne escono sventolando ciascuna quattro impertinenti dita, e parte il coro “italianos, cuatro a cero!”. E poopopoppoppopooopooo. Neanche un coro loro, sanno creare, e son convinti di aver inventato il calcio. Il Suv allunga, non ci resta che incassare la solidarietà di un camionista francese, che dalla prima corsia mi ricorda che abbiamo giocato bene e che dobbiamo essere orgogliosi di quella che i telecronisti francesi chiamano La Squadra. A proposito: in barba a qualsiasi credenza, i commentatori di TF1 hanno tifato spudoratamente per noi almeno fino all’uscita di Motta. Da lì in poi si son comprensibilmente dedicati alla celebrazione del trionfo imminente della Roja.
Ha ragione il camionista, comunque. Dobbiamo essere orgogliosi dei ragazzi di Prandelli. E dobbiamo esserlo anche di tanti altri che all’estero ci vanno non per tirare calci ad un pallone ma per svolgere lavori meno remunerativi ma certamente più impegnativi. Gente che in tutto il mondo fa molto di più di governi, ambasciatori e popstar per abbattere l’apparentemente inossidabile immagine di italiano pizza spaghetti mandolino mamma mamma sai chi c’è è arrivato il merendero.
Simone Tondo ha ventiquattro anni, età alla quale (e di questo dovremmo invece essere tutt’altro che orgogliosi) nel nostro Paese nessuno, in banca in particolare, ti prenderebbe sul serio. Eppure con il socio inglese Michael ha aperto il proprio locale nella giovane e multietnica (quasi monoetnica, in effetti) Menilmontant, nei pressi di Belleville. Sardo, cresciuto prima a casa con Andreini e Petza e poi in Francia con Colagreco prima ma soprattutto a Parigi come sous chef di Giovanni Passerini e Petter Nillson, Tondo ha già accumulato esperienze sufficienti per esprimere le proprie idee culinarie senza paura. Idee che sono di grande pulizia, di equilibrio e leggerezza e che sono frutto di un approccio sorprendentemente maturo ai sapori.
Fantastico, per esempio, il capocollo di maiale con melanzane e pompelmo. L’acido e l’amaro che completano il cast di supporto non tolgono affatto spazio al pezzo di carne, succulento e di giusto spessore. Nonostante i soli 42 euro del menù con formaggi (35 senza) non ci sono solo materie “povere”. Ecco quindi gli scampi con nocciole, pak choi e kumquat, arricchiti dal bouillon fatto con i crostacei, piatto schietto, perfetto tanto nell’esecuzione millimetrica quanto nella concezione logicamente ammirevole. L’abilità nel costruire piatti allo stesso tempo facili ed interessanti non viene persa nel dessert, con una ganache che si accompagna a pesche, crumble di sablé e mandorle dolci ed amare in gelato (da urlo).
Il locale al momento della nostra visita era aperto da soli 3 giorni e in tanti casi, nella stessa situazione, abbiamo scelto di uscire senza valutazione. L’impressione netta che ho avuto è però che il locale, già pieno nelle prime 2 settimane, viaggi già per qualche mistero a velocità di crociera. Crescerà, naturalmente, allineandosi in poco tempo alla valutazione che per il momento è ritoccata appena verso l’alto. Ma non credo affatto sia una scommessa azzardata.

Ravioli di ricotta affumicata, aglio e prezzemolo con pane sbriciolato alle acciughe, olive, fagiolini, rucola e limone.

Scampi, pak choi, nocciole, mandarino cinese e bouillon.

Seppie, cipolle in crema e midollo.

Capocollo di maiale, crema di melanzane arrostite e pompelmo.

Formaggi.

Predessert: limone e lampone.

Cioccolato, mandorle dolci e amare, pesche e sablé.