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Le Clarence

L’incanto del luogo e del palato

Salire le scale di questo lussuoso ma discreto Hotel Particulier situato nel cuore di Parigi, in una strada ubicata nei pressi degli Champs Elysées che offre l’opportunità di stare al centro senza patire il frenetico bailamme delle zone turistiche, rappresenta una di quelle esperienze che non solo arricchiscono ma, in un certo senso, coronano la passione di chiunque abbia interesse per l’alta cucina. L’atmosfera formale ma al contempo piacevolmente rilassata che vi accoglierà in una delle tre splendide sale del ristorante Le Clarence, fornirà nuove sfumature alle nozioni di classe ed eleganza, oltre che offrire nuove prospettive al valore, fondamentale, del servizio in sala, militarmente votato al benessere della clientela.

La rivoluzione parte delle basi

E poi la cucina di quell’autentico fuoriclasse che è Christophe Pelé, una cucina classica ma proiettata nella modernità, profondamente gourmet ma con tocchi di golosità talvolta così sfacciati da riuscire, e brillantemente, ad accostarsi a quella classicità che ne funge, appunto, da impianto base.

Impianto su cui poi infinite sono le variazioni con l’altalenarsi di gradienti di finezza che risultano essere il connotato saliente di un percorso gustativo che giammai si risolve in consolidate rendite di posizione. Qualche esempio? La nota piccante appena percepibile del peperoncino accompagnerà con grazia la seppia grigliata con pancetta e oxalys, come pure le nuance vegetali e acide di zenzero e cardamomo esalteranno un tonno crudo di qualità memorabile, valorizzandone le peculiarità.

Più in generale, è bandito ogni appiattimento di sorta e si assiste a un lavoro che persino all’interno dello stesso ingrediente base viene compiuto in punta di fioretto oppure tramite una gioiosa volontà di evidenziarne, quasi senza pudore, il côté gourmand. Una prova? Il collo del tonno servito a centro tavola, sic et simpliciter, per godere senza pensieri di una materia prima straordinaria. La tecnica, più che padroneggiata, qui è dominata ed è al servizio della delicatezza di fondo – una delle caratteristiche principali di Pelé – incarnata, a esempio, in un apparentemente scontato zabaione alle erbe che, più che nappare, accarezza un San Pietro di straordinaria succulenza.

In ogni piccolo particolare, insomma, sono depositate meticolosa attenzione e sofisticata artigianalità che nulla trascurano e tutto esaltano, come accade con lo splendido raviolo di funghi che accompagna degnamente la quaglia, duettando alla pari con essa per intensità di gusto e abilità d’esecuzione. Nulla è lasciato al caso a Le Clarence, una tavola che dall’inizio alla fine riconcilia pienamente con i concetti di benessere e di bien vivre.

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Lo spessore di Bruno Verjus à la Table

In una città che gastronomicamente, per antonomasia, è ricca di stimoli a 360° con una qualità media elevatissima, la figura di Bruno Verjus si staglia con titanica e coerente grandezza.

Nato a Roanne, nella terra di una delle grandissime maison francesi, i Troisgros, Bruno Verjus ha da sempre coltivato una passione per il mondo della gastronomia letteralmente divorante; sia come giornalista gastronomico, che come blogger e titolare di una rubrica radiofonica, ha dedicato infatti da sempre interesse e attenzione alla cultura del cibo e al cibo come cultura. Da tutti i viaggi fatti nella sua attività imprenditoriale precedente all’ingresso nel mondo del food ha tratto la linfa, nel 2013, per sublimare la sua passione passando dall’altra parte del pass e concependo il ristorante dei suoi sogni, un locale dove la golosità veniva elevata a status con materia prima di qualità e livello tali da essere un benchmark assoluto.

Quando si parla di qualità assoluta si intende sottolineare una ossessiva, quasi compulsiva attenzione per l’approvvigionamento di ingredienti tramite una filiera cortissima, che prevede un rapporto diretto con ogni produttore di quasi ogni singolo ingrediente il quale viene acquisito dallo Chef rispettandone rigorosamente tempi, stagionalità e quantità disponibili senza mai forzare nessuna di queste prerogative.

La Table al centro, anzi, in cucina

Il risultato è una offerta gastronomica di inopinata potenza e altissimo tasso di libidine gastronomica anche grazie a una brigata che, davanti ai propri occhi, si mette in tutto e per tutto al servizio degli eccelsi ingredienti esaltando e riproponendo al meglio quanto concepito dallo Chef in una location, un piccolo locale, dove la cucina è al centro e dove i tavoli, letteralmente, la avvolgono senza soluzione di continuità.

Scorrere il menù, che cambia continuamente, con cadenza pressoché quotidiana, rappresenta una dura prova di pavloviana resistenza in cui il compendio a 180 o 300€ ne rappresenta il salvifico compromesso.

E così dalle mani dei due bravissimi e italianissimi executive di Bruno Verjus, Cristian Stradaioli e Giuseppe Mariani (segnatevi questi nomi che tra qualche anno saranno di dominio pubblico), sarà possibile assaggiare i migliori carabineros della vostra vita; una ventresca di tonno di pornografica bontà; un homard cotto al vapore e appena rosolato in un burro arricchito del suo carapace, di rara scioglievolezza; un rognone aromatizzato alle erbe e rifinito con un lieve passaggio in aceto di memorabile golosità; delle madeleines che rappresentano un punto di riferimento definitivo.

Insomma una tavola che, dopo un pasto del genere, diventerà con ogni probabilità LA tavola, oppure una delle tavole di elezione del vostro gastronomico peregrinare.

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Un’esperienza senza tempo seduti alla leggendaria tavola di Bernard Pacaud

Cerca il bel prodotto. Cucina senza problemi. Offri semplicemente il meglio“. È la “cucina di civiltà” di Bernard Pacaud, uno dei sommi cuochi francesi viventi, che paragona i suoi piatti nientemeno che all’ambrosia – da cui il nome del ristorante, L’Ambroisie – ovvero “il nettare degli Dei”. 

Un pensiero, una filosofia, un credo che riassume perfettamente quello che accade tra le mura di questo storico ed elegante tempio della ristorazione parigina, aperto nel cuore della labirintica Marais, sotto i portici di Place des Vosges nel 1986 proprio nel luogo in cui, un tempo, c’era la bottega di un orafo. Con il suo arredamento in stile settecentesco con arazzi di Aubusson, pavimenti in parquet originali e mobilio d’epoca, questo tempio della gastronomia offre qualcosa che non tutte le grandi tavole del mondo possono permettersi: un viaggio nel tempo.

A L’Ambroisie la semplicità del prodotto stagionale e la sua sublimazione sono il frutto del connubio sempre rinnovato tra ricerca dell’eccellenza e rispetto della tradizione. Un ristorante leggendario in cui si vive un’esperienza capace di emozionare anche il più navigato degli appassionati gastronomi, come dimostra il fatto che un importante critico gastronomico francese ha scritto che un pranzo a L’Ambroisie è una festa, intima e senza clamori, per gli occhi e per il palato, centrando in pieno la sensazione che si prova seduti a questa tavola e ad ogni singolo assaggio di questo cuoco discreto, ossessionato dalla perfezione.

Il ristorante, tuttavia, è stato spesso criticato per il servizio, considerato in alcune situazioni troppo distaccato e supponente, o poco attento verso i clienti, circostanza che, in un tre stelle parigino, è lecito non aspettarsi. E circostanza che durante il nostro pranzo, fortunatamente e puntualmente, non abbiamo riscontrato; anzi, possiamo ben dire che tutta la sala, dal maître al più giovane cameriere, ci ha accompagnato con modi di fare discreti e gentili, di estrema professionalità.  

La perfezione di piatti “datati” più che attuali

Ad ogni modo Bernard Pacaud lascia parlare i suoi piatti riuscendo a farsi perdonare anche madornali scelte poco eleganti, se non scorrette, allorquando, ad una settimana dalla prenotazione, riceviamo una mail che ci informa che il menu prenotato ad un prezzo “favorevole” per il pranzo non sarebbe stato più disponibile a seguito dell’apertura post-covid (per intenderci, alla carta si spendono dai 280 ai 400 euro per 3 piatti, mentre il menù déjeuner era prezzato 180 euro!). Peccato averlo saputo solo dopo aver prenotato tutto in funzione di quel pranzo, ma tant’è.

Ciò detto, tornado al cibo, c’è poco da dire, se non esaltare all’ennesima potenza la classe, la magnificenza e la straordinaria esecuzione dei piatti di Pacaud, da più di trent’anni sulla cresta – concreta – dell’onda. La scelta dei sui tre piatti leggendari (feuillantine al sesamo con scampi, spinaci e salsa al curry; le scaloppine di branzino selvaggio, lamelle sottilissime di carciofi e caviale e la torta al cacao amaro) è tassativa per chi volesse scolpire il parametro della perfezione sulla propria erudizione gastronomica.

Ogni ingrediente occupa un posto preciso e determinante all’interno del piatto. Il disco di sesamo croccante che nasconde gli scampi, meravigliosamente carnosi, seduti su un altro croccante di sesamo adagiato su un letto di spinaci, ha sapore leggermente amarognolo ma intensissimo. Il tutto a sovrastare il bagno dorato di una incredibile salsa al curry. Lucida, densa, elegante e raffinata, a legare insieme l’intero piatto. Ci sono sapori dolci, aciduli, perfetti. Il branzino è tenero, appena cotto dal vapore, che lascia la carne con una persistenza iodata che ti fa piacevolmente sprofondare nel mare. Stesso sussulto per i carciofi, meravigliosi per sapore, consistenza e marinatura e, ça va sans dire, per la generosa salsa al caviale, tutt’altro che pleonastico. Poi si chiude con la torta al cacao e gelato alla vaniglia: anch’essa capace di toglier il fiato per l’eterea consistenza e gli intensissimi sapori. Uno dei migliori dessert mai assaggiati in vita nostra.

Nonostante il figlio Mathieu abbia ormai da anni intrapreso una strada separata da quella del padre, ora ultrasettantenne, il perfezionismo di monsieur Bernard è sempre più vivo e riscontrabile, in maniera più che tangibile. Certo, l’homard e l’agnello rispetto al predetto trittico di capolavori sono soltanto eccellenti, quel tanto che basta per farti venire la voglia di tornare a provare altri piatti di stagione.

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Stephanie stand alone

Stephanie Le Quellec, nome non particolarmente noto ai gourmet nostrani, è invece agli onori delle cronache d’Oltralpe da parecchi anni. In primis per essere stata sdoganata al grande pubblico, nel 2011, dalla vittoria del programma televisivo Top Chef. E poi per il merito, forse più concreto, di aver ottenuto due stelle dalla Guida Michelin al timone del primo La Scene, all’interno del Prince di Galles in Avenue George V a Parigi, uno dei lussuosissimi palace che spuntano come funghi a cavallo tra il I e l’VIII arrondissement. A ottobre 2019, si trasferisce armi e bagagli (portando con sé, sorprendentemente, il nome del ristorante) in Avenue Matignon, quasi a voler sfidare da vicino Jean Francois Piege, che dei grandi chef francesi è quello che più di tutti ha beneficiato della notorietà televisiva. A dividerli, l’Eliseo, l’Hotel Bristol e cinque minuti a piedi lungo rue du Faubourg-Saint-Honoré.

Al di là di qualsiasi valutazione sull’energia straripante del personaggio, capace di portare avanti una famiglia con tre figli e contemporaneamente di svolgere con evidente successo un mestiere duro in un ambiente ipercompetitivo e dominato dagli uomini come l’haut cuisine parigina, l’operazione imprenditoriale appare snella ed efficiente. Bistrot al piano terra aperto solo a pranzo, gourmet nell’interrato, aperto solo a cena. Di sotto, 32 coperti, compatti e ravvicinati (sicuramente troppo per puntare ancora più in alto nelle valutazioni della ”rossa”), dai quali si vedono le toques all’opera come in un’unica, grande chef-table. Carta dei vini considerevole, tenendo conto di quanto sia giovane il locale, e prezzata “alla parigina” pur senza le esagerazioni che capita di incontrare in altre grandi tavole della città. Brigata di sala numerosa, charmant, complessivamente precisa, ma in evidente difficoltà in alcune fasi del servizio a causa della distanza tra i tavoli da bistrot.

Sul filo tra il classico e l’informale

E la cucina? La scuola classica da cui proviene la chef (i suoi mentori sono Legendre, Briffard e Jourdin), si vede tra le righe ma, d’impatto, quello che risalta è la volontà di alleggerire, di uscire dalla formalità, di dare più valore possibile ai prodotti e alle stagioni. Per quanto riguarda gli influssi, poco o nulla viene da quell’oriente che continua a condizionare Parigi da un decennio, piuttosto è evidente un afflato mediterraneo, in particolare nella scelta di alcune materie prime.

Il menu “Mise en Scène”, nove piatti e cinque dessert divisi in atti, prevede un benvenuto che invita esplicitamente alla condivisione: la tartelette di foie gras al rabarbaro e menta-bergamotto (mentha citrata), servita per due commensali in sei fette, da mangiare con le mani utilizzando un piccola alzatina in ceramica. Segue la collezione di pomodori maturi 2021 “fatiguées“ (stancati) nella loro acqua, infuso di erbe glassate: quest’ultimo intenso e fine, mentre sulla maturità, decantata nel nome del piatto, rimane qualche perplessità, soprattutto per chi ha avuto modo di assaggiare veri pomodori maturi dalle nostre parti, in particolare da Roma in giù. Classicismo di alto livello nel pane mi perdu/mi soufflé con caviale Oscietra, crema fredda, acetosella: diverse texture nel pane, caviale di ottima qualità e risultato scontato, si vorrebbe il bis. Citiamo anche la triglia “cuite de peur”, noi diremmo “scottata”, e finocchio: un piatto più energico che elegante, che riporta, ancora una volta, al mediterraneo. Tra i vari dolci, serviti tutti in contemporanea, spicca la superba esecuzione della crème brûlée alla vaniglia: comme il faut!

La Scene è un’ottima tappa “intermedia”, perfetta se si vuole passare una serata di indiscutibile interesse gastronomico schivando le tavole parigine più impegnative.

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L’alta cucina classica francese rifiorisce ad Ivrea

“Hai un nuovo messaggio Instagram da Giovanni Passerini”

“Alberto, ti scrivo per segnalarti un matto che ha lavorato da me per un anno e mezzo e che ora ha ripreso le cucine di un locale di Ivrea. È un fuori di testa che serve germano e lumache di mare in vineria, un ossessionato di tecnica francese. Non lo conosce nessuno e so che su queste cose tu ti esalti. Un abbraccio a presto!”

Già, Giovanni mi conosce bene. E per una volta abbandoniamo lo stile classico della recensione per introdurre un ragionamento che ci sta molto a cuore. Perché in questa semplice frase c’è la quintessenza della nostra professione, fatta di immensa, sconfinata passione. Passione nello scovare sempre una novità che stimoli noi e che stimoli il nostro lettore, fare chilometri per una liévre à la royale, per un timballo, per un nuovo piatto avanguardista; insomma, per scovare un talento che non si era ancora svelato.

Siamo noi che, mossi dalla passione, abbiamo la responsabilità di raccontare queste meravigliose storie e veicolarle affinché luoghi e persone vengano visti, visitati, celebrati. È il nostro compito, ancor più in momenti difficili, come questo. E dovremmo tornare a farlo con tanta intensità e frequenza ancor più a breve, perché ciò sarà il motore di una ripresa ci auguriamo essere rapinosa perché, ecco, questo settore non è solo la nostra passione ma, non dimentichiamolo, è anche una delle più importanti e straordinarie risorse di cui dispone il nostro Paese: il comparto agroalimentare e tutta la straordinaria filiera che vi ruota attorno.

Nel regno di Roberto Bordone e Alessandro Esposito

Eccoci quindi effettuare una prenotazione fulminea alle Cantine Morbelli e intraprendere un viaggio che, di questi tempi, tanto scontato non è. Arriviamo e subito rimaniamo colpiti dalla varietà di bottiglie e di produttori non scontati che scorgiamo sugli scaffali. Merito di Roberto Bordone, titolare di questa splendida realtà che, con grande passione e capacità, vi saprà regalare abbinamenti forieri del suo talento, della sua personalità e della sua sensibilità. È lui che ha preso in mano il tutto, 6 anni fa dalla famiglia Morbelli, lanciandosi letteralmente nell’ignoto.

Oltre che le sue grandi doti di sommelier e di wine-scout, Roberto ha anche il ruolo fondamentale di mecenate di Alessandro Esposito, giovane poco più che trentenne eporediese che ha trascorso qualche anno a Parigi facendo esperienze in cucina che lo hanno segnato indelebilmente. Da Christophe Pelé a Le Clarence, con il grande Giuliano Sperandio come co-partner in crime, ha attinto la grande passione per il classicismo francese rivisitato e una quasi-ossessione per l’abbinamento ittico-cacciagione. E poi il passaggio dalle cucine di quel cavallo di razza dal talento jazz e un filo punk di Giovanni Passerini, che gli ha consentito di approfondire ancor più l’irriverente manipolazione dei classici con un tocco di folle ma lucida, eretica pazzia.

Il risultato? Beh, pur nella sua verde e ancora lievemente acerba elaborazione, siamo al cospetto di una delle cucine più interessanti che abbiamo avuto modo di trovare in questo periodo girovagando l’Italia. Le ingenuità non mancano, la tecnica è ancora sporca, l’errore è dietro l’angolo, ma quanta personalità e quanta passione! E ancora quanto rigore, quanta voglia di crescere, migliorarsi, emergere! Un progetto ambizioso quello di Alessandro e Roberto, ambizioso e qualitativamente elevato, al pari del rispettivo talento.

La grande scuola francese al servizio di una cucina di mercato

L’intento qui è quello di portare una grande cucina di mercato tutti i giorni, frutto di improvvisazione e tecnica, tanta tecnica, contaminando i grandi classici con spunti creativi. Il legame tra il regno del mare e quello della caccia è una costante ereditata dall’esperienza a Le Clarence, la grande passione per la pasticceria classica e la voglia di cimentarsi con ricette tanto importanti quanto complicate completa il cerchio di questo luogo davvero magico.

E nel nostro pranzo un tripudio tra liévre à la Royale, tourte de pigeon, le turbot en vessie, mille feuilles e via di seguito, non disdegnando nemmeno un risotto e dei tortelli, anch’essi francesizzanti, forieri di storia, tecnica e un condensato di passione davvero elevatissimi.

Il giudizio, non ancora pieno, è prospetticamente e velocemente raggiungibile ma soprattutto è l’auspicio che qui si continui a fare questa rivoluzione lenta ma continua in una piazza tutt’altro che facile. E allora largo ai temerari di Cantina Morbelli, inondiamoli della nostra presenza!

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