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Villa Naj

Nuovo chef per una delle migliori tavole dell’Oltrepò Pavese

Cambio della guardia al Villa Naj: da qualche mese, ormai, Federico Sgorbini, il cui lavoro ci aveva favorevolmente impressionato non troppo tempo fa, ha lasciato la guida della cucina e, al suo posto, si è insediato Alessandro Proietti Refrigeri.
Se il bravo Sgorbini si era formato, tra l’altro, al fianco di Enrico Bartolini nella straordinaria stagione de Le Robinie, Proietti Refrigeri ha al suo attivo un anno al Noma e quasi due a La Pergola, con Heinz Beck, prima di assumersi la responsabilità della gestione delle cucine della galassia Berberè dove, oltre a creare e seguire il menu degli otto locali sparsi per l’Italia, si è occupato di food cost e gestione delle risorse umane. Quindi la chiamata a Villa Naj e la prospettiva di tornare, stabilmente, in cucina.

Il cambio non ci è parso traumatico. La cucina di Villa Naj continua il suo interessante percorso declinato in termini di modernità e creatività guardando sempre ai prodotti del territorio ma spesso scollegandoli totalmente dalla tradizione. Prodotti del territorio come riso, farine, formaggi e carni, per lo più, nel contesto di una cucina creativa che guarda anche a Oriente, ricca di contrappunti acidi e che sa gestire molto bene le tonalità più amare. Una cucina complessa, dove il tratto più rilevante di discontinuità rilevato a seguito del cambio dello chef può declinarsi, a nostro giudizio, proprio nell’accresciuta complessità delle preparazioni, oltre che nella rinnovata centralità dell’elemento vegetale figlio probabilmente dell’esperienza al fianco di René Redzepi e riconoscibile, ad esempio, in un piatto quale Rape e Radici, servito al termine del percorso “salato” per pulire e preparare il palato alle portate dolci.

Talento, tecnica e buone idee: un’interessante tavola contemporanea

Lo chef, dunque, sembra voler rischiare qualcosa in più rispetto a chi lo ha preceduto e dobbiamo dire che i risultati gli danno ragione. A cominciare dagli amuse bouche, tutti centrati, pensati, studiati, mai “buttati lì”, come più spesso ci piacerebbe vedere. Ma non finisce qui, ovviamente. Giochi di consistenze e contrasti: la voluttuosa texture degli gnocchi di ortica, sgombro arrosto e olio all’assenzio fa da carrozza e trasporta al palato il gusto deciso dello sgombro e la nota verde-amara dell’assenzio: un gran piatto.

L’essenza dell’umami, poi, viene applicata a un mito italiano: Spaghetto (risottato), scampi, miso, alga kombu: piatto eccellente giocato su toni piacevolmente sapidi. Chapeau. Certo, c’è anche qualche imperfezione come la foglia di carciofo che dovrebbe dare (come sottolineato anche in fase di presentazione del piatto al tavolo) la parte croccante alla crema di patate ma che non si rivela tale e qualche piatto un po’ più banale come l’ennesima variazione sul maialino. I dessert, inoltre, ci sono sembrati nettamente la parte più debole del menu.

Ciò detto, siamo al cospetto di una cucina dinamica e creativa; senza dubbio una delle migliori, oggi, in Oltrepò. Tratti, questi, che prevalgono sulle perplessità lasciando ben sperare per un futuro ricco di soddisfazioni.

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Noma: l’esperienza al limite della perfezione

“La tradizione è custodirne il fuoco, non adorarne le ceneri”.
Gustav Mahler

Con questa frase del celebre compositore austriaco vogliamo introdurre la nostra nuova epica visita in quella che, oggi, è riconosciuta universalmente come La Mecca della cucina nordica: il Noma. Ci siamo stati di nuovo, sfidando impetuose correnti informatiche nella difficoltà di riuscire a trovare un tavolo e l’importante investimento che questo ristorante chiede ai suoi avventori.

Agli ingressi dell’eclettico quartiere di Christiania, il Noma rifiorito dalle ceneri di un ex stabilimento industriale abbandonato, vede ora quasi del tutto ultimati i lavori di costruzione di quello che, un tempo, poteva sembrare solo un sogno redzepiano. Dall’ingresso nella serra fino alla test kitchen, Redzepi e adepti di lunga data si interrogano su come conciliare le ottocentesche salse del manuale di Auguste Escoffier (ne hanno una sua copia, originale autografata, autentica rarità) con muffe e batteri, attori assoluti nel grande mondo della fermentazione.

Di fatto, il termine stesso “fermentazione”, per quanto ormai entrato nel lessico gastronomico, affonda le sue radici etimologiche in epoca classica con il  latino fervere, letteralmente mettere in ebollizione. Al Noma, piatti e idee fermentano di pari passo, permeando questa realtà di una dimensione quasi leggendaria. La cucina di Redzepi, anzi della squadra di oltre 100 persone che a ogni servizio portano avanti la geniale concezione di questo Chef, lascia sbalorditi chiunque abbia la possibilità di vivere questa esperienza. Perché fermentazione, qui, significa anche un capovolgimento gustativo dal complesso al semplice: partire da un gusto elaborato frammentandolo, campionandolo, in gusti più semplici. Una sequenza aurea che in ogni frattale di questo mosaico gastronomico ha un preciso sapore: nuovo ma, soprattutto, diretto, fulminante. Sviluppare menù in maniera monotematica, sfruttando la stagionalità di un determinato regno, animale o vegetale che sia, fa sì che oltre la conoscenza del semplice ingrediente nel suo familiare impiego si possa ricavare, con gli esperimenti di Redzepi, infinite combinazioni, aprendo le porte a gusti e consistenze extraterrestri.

Il mare: tra idee, piatti e fermento

Il menù provato, in un ordine di 22 portate, esplora le profondità marine del Baltico e dell’Atlantico e porta nel piatto creature abissali che solo dal nome richiamano le gesta del Capitano Nemo.

Dalla vongola centenaria servita con panna acida e olio di pino al nobile mondo dei crostacei raccontato in 5 servizi: in gelatina, fritto, arrostito, glassato e in insalata. La disarmante freschezza della capasanta servita tout court, in tutta la sua turgida matericità fa capire il livello di profondità donde arrivano gli ingredienti. I ricci di mare delle Fær Øer con koji e miso di funghi oppure il rombo marinato al grano fermentato innescano una reazione di stupito godimento su un sentore di carnosità affumicata che rasenta inaspettatamente la norcineria. La schnitzel di lingua di merluzzo oppure la pelle di latte fritta, ripiena di baccalà mantecato o, ancora, le uova di lompo con tuorlo d’uovo, passo dopo passo, alzano sempre di più la tensione, appagandoci.

La sala, complice della cucina, gioca sull’inevitabile stordimento che tali piatti possono suscitare nel cliente enfatizzando ancora di più l’ebbrezza che pervade il commensale.

Di fatto, il Noma fa sua declinazione della nozione di terroir, combinazione vincente tra uomo, territorio e clima. Le conoscenze e le tecniche usate trascendono senza alcuna distinzione di forma o limite geografico dalle tradizioni gastronomiche locali. Sembrerebbe un paradosso quello appena detto, poiché il Noma stesso è portabandiera di una precisa tipologia di cucina, quella nordica. Tuttavia il concetto di fermentazione è un qualcosa che interessa da nord a sud, dal sakè alla tradizione casearia. Non è un caso se al Noma vi lavorino ragazzi da tutto il mondo, dove ognuno può mettere del suo. Il paradigma della cucina redzepiana allo stato attuale non si esaurisce nella pur sfidante elaborazione di menù monotematici; al contrario, essa rappresenta una fucina d’idee che potrà ispirare le culture gastronomiche di tutto il mondo.

Signore e signori, il multiculturalismo gustativo non è mai stato così in fermento!

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Anima polifunzionale e stile post-industriale nel cuore di Christiania, a Copenhagen

Parte della grandezza della rivoluzione scandinava risiede nel fatto che è popolata da chef che sono o sono stati, in qualche modo, legati al Noma. 

Come Matt Orlando che, dopo un’esperienza come sous-chef di René Redzepi, nel 2013 decide di ristrutturare un grande capannone nei pressi di uno dei canali di Christiania e trasformarlo in un piacevolissimo, luminoso locale stile post-industriale, graffiti inclusi, dall’anima graziosamente polifunzionale perché capace di essere al contempo ristorante, bar, giardino e luogo di aggregazione, con una disinvoltura davvero sorprendente.

Tale fluidità riesce in qualche modo a specchiarsi felicemente anche nella cucina, che ha anima vivace e ricchezza di riferimenti, ma è altresì improntata al credo, fermo, della sostenibilità. Così fanno il loro ingresso fermentazioni, marinature ed essiccazioni che, di ingredienti poveri o erroneamente destinati allo scarto, rappresentano la nuova vita gastronomica.

E che vita! 

Una cucina fluida, solida ed ecosostenibile

Lo chef americano, del resto, vanta importanti trascorsi in cucine di stampo classico come a Le Bernardin a New York e presso il Manoir aux Quat’saisons a Oxford, ma anche moderne come quella del The Fat Duck di Heston Blumenthal fino ad arrivare al Noma stesso, appunto, di Redzepi. Risalendo la china dei suoi trascorsi si vede quanto questi si riversino orgogliosamente nell’attualità di Matt Orlando, artefice di uno stile rigorosamente imperniato di genius loci scandinavo benché contaminato del proprio, profondo, bagaglio di conoscenze.

E i suoi piatti testimoniano questa fusione e permettono di spaziare all’interno di uno spettro di sollecitazioni molto ampio fatto di verticalità e ampiezza, e dove si raggiungono picchi gustativi ragguardevoli mentre una gamma di persistenze molto ampia, dovuta alla sapiente estrazione dei sapori, consente di godere di un’esperienza totale: efficace e poderosa.

Senza scomodare lo stesso Noma a lui vicino, o chef come Niko Romito, orbitante migliaia di chilometri, si può senz’altro dire che Matt Orlando coniuga materia prima locale e quintessenza quasi primordiale in modo esemplare. 

Se è nei particolari che si cela il diavolo allora è normale ricordare, anche a distanza di tempo, il brodo di ossa che accompagna il rombo, l’affumicatura del cuore di agnello che guarnisce un’insalata di mediterranea completezza o la memorabile freschezza della granita di angelica che accompagna il gelato al rabarbaro.

Copenhagen attualmente è una delle mete gastronomiche europee più stimolanti che ci siano e Amass rappresenta, a pieno titolo, uno di quegli indirizzi che rendono onore a tale attributo.

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La versione 2.0 di una delle più esclusive esperienze gastronomiche dell’ultimo decennio

Prima regola di René Redzepi: vietato concepire un semplice ristorante…

Il Noma aveva chiuso i battenti un anno fa, nell’entusiasmo generale per l’aspettativa del trasferimento del ristorante in una dimensione potenziata. Facevano da preludio intriganti e uniche escursioni fuori dai confini nordici, a sperimentare e cimentarsi con un clima diametralmente opposto a quello familiare, come la ricerca di ingredienti semi-sconosciuti nella giungla del Messico, che insieme all’esperienza del pop-up australiano ha probabilmente indotto Redzepi a reinventare la sua cucina e il suo Noma.

Invero, René Redzepi non si è mai fermato. Oggi il Noma non è nè un ristorante, nè una brigata, è un’esperienza, anzi, una Comune con decine di persone che, ogni santo giorno, mettono anima e corpo in quel che fanno, che sia cucinare o piuttosto stampare i menu o piegare con cura i tovaglioli.

Si respira un magico entusiasmo a 360 gradi, che proietta il commensale in un’esperienza unica nel suo genere. A cominciare dalla straordinaria accoglienza di tutti coloro che vivono e lavorano in questo ristorante, laboratorio di idee in cui, con il passare del tempo, l’asticella si alza sempre di più.

All’arrivo del taxi ti aspettano sul ciglio della strada, conoscono il tuo nome e la tua nazionalità. E sanno che l’emozione è grande. Ti accompagnano per una passerella in legno in cui ti spiegano e illustrano cosa succede nelle serre-laboratorio dove si sperimenta in continuazione, tra nuovi piatti, studio di ingredienti e tecniche di lavorazione. E, nel frattempo, René Redzepi e i suoi fedelissimi ti vengono incontro per darti il caloroso benvenuto. Giunti alla porta d’ingresso del ristorante, ti chiedono di aprire ed entrare come fosse casa tua. Cuochi e camerieri ti danno un benvenuto ad alta voce, sorridendoti, come se fossi l’unico ospite del giorno.

Tre percorsi concettuali ogni stagione: una sfida nella sfida

La location è spettacolare. Un ex magazzino-bunker incendiato, situato nello stesso distretto della comunità hippy di Christiania, è stato trasformato in un’imponente struttura di design, con annessi orti e laboratori hi-tech, che conserva opere d’arte appositamente pensate per questo luogo: si va da Tomàs Saraceno a Olafur Eliasson.

I posti a sedere sono una quarantina di cui quattro, ogni sera, sono riservati a studenti (a un prezzo di circa 130 euro a persona).

Il menu, appena andato in scena, è interamente incentrato sul mare e i suoi frutti. Il prossimo verterà su verdure e vegetali senza l’utilizzo di ingredienti animali, mentre quello autunnale avrà come protagonista la selvaggina.

Si va da molluschi centenari – pescati nei fondali delle acque delle Isole Fær Øer da un avventuriero sub scozzese – a meduse,  cozze giganti,  alghe marine sconosciute, ma anche erbe spontanee ricercatissime, pesto di formiche, reinterpretazioni scandinave del curry. E si chiude con sofisticati dessert con gelati di alga kelp, pigne selvatiche e plancton.

Si percepisce sotto tutti i punti di vista la scelta premiante e complessa di ricercare il prodotto raro ancor prima che eccellente, come se si rincorresse una chimera (pensate che la materia prima costa un quarto del prezzo complessivo del menu, pari a circa 320 euro). È impressionante la profondità e la consistenza di ostriche, cozze e altri molluschi, ingredienti che approdano dalla rete direttamente nel piatto per apprezzare appieno la loro intensità naturale.

E i piatti meravigliosi sono più di quelli interessanti, ma più ostici. Quella di Redzepi è pur sempre una delle cucine più sperimentali che ci siano in circolazione.

Lo testimoniano preparazioni come la Testa di merluzzo glassata con una salsa di ali di pollo, a metà strada tra un teryaki e una salsa bbq, con intingoli e condimenti di accompagnamento da urlo, come il famoso pesto di formiche, dalla prorompente acidità citrica, e ancor prima, due meravigliose preparazioni in cui l’innovazione si fonde alla perfezione con sapori più tradizionali, con lo Stufato di cozze (che sembra un ragout speziato dal sapore spagnoleggiante) e il Calamaro – dalla consistenza perfetta – appena laccata da un delicato burro alle alghe. Il momento migliore la riserva l’Insalata di erbe e lumache con sottaceti e petali di rosa essiccati, una preparazione che lascia molte sensazioni in bocca rinfrescando piacevolmente il palato sul finale.

Tante, tantissime novità che, ovviamente, interessano anche il sistema di prenotazioni. Al momento della conferma del tavolo si paga interamente il costo della cena pro-capite. Circostanza che consente di fare cassa già dai 3 mesi precedenti alla prenotazione.

La sala e la cucina vengono gestite con meticolosa attenzione e professionalità da giovanissimi talenti; il cameriere incaricato di coccolare il nostro tavolo parlava perfettamente tre lingue, oltre a essere di una simpatia rara.

Prima di lasciare il ristorante, si viene accompagnati in un giro in cui si scopre che, quello che si era immaginato è in realtà ancora più grande e complesso, dal momento in cui sono oltre settanta le persone che fanno girare questa incredibile macchina dei sogni.

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Fermento gourmet a Copenhagen. La modernità vintage del nuovo eclettico locale griffato René Redzepi

Oltre ad essere una tra le città più vivibili al mondo, Copenhagen è attualmente uno dei posti più interessanti dove mangiare. L’ultima trovata del geniale -ed instancabile- René Redzepi è il 108 (numero civico dell’edificio che ospita il locale in Strandgade).

Aperto da soli otto mesi e fresco di Stella Michelin, il 108 è una bicicletta nuova fiammante che nella sua modernità mantiene linee vintage ben studiate. Si viaggia veloci e leggeri senza dover rinunciare al brivido di poter percorrere sentieri meno convenzionali. Il come lo si scopre dal menù, che si divide tra veri e propri assaggi gourmet (rigorosamente in stile nordico) -su tutti i gamberi crudi, fragole verdi fermentate e acetosella e la barbabietola, cuore di vitello affumicato e ginepro- ed una proposta “comfort” a scelta tra tre piatti principali da condividere, a base di carne, pesce oppure vegetali: costola di manzo, cipolle grigliate, burro affumicato e capperi di sambuco; coda di rospo all’osso con cetrioli fermentati, alghe e salsa alle cozze; cavolfiore grigliato con salsa alle nocciole e pino.

Le opzioni di percorso suggerite sono dunque due: o costruirsi personalmente un’intera degustazione o, dopo un paio di assaggi, optare per una tra le generose portate principali (dette Livretter, parola danese che indica il “piatto preferito”), terminando con il dessert. L’offerta dei dolci si limita a soli tre piatti, comunque tutti molto interessanti su carta.

Lista vini essenziale con etichette per lo più francesi; si può acquistare la singola bottiglia oppure richiedere il calice. Il servizio è informale ma attento; la brigata tra sala e cucina mette insieme una ventina di ragazzi provenienti dalle più svariate parti del mondo, capitanati dal giovane chef trentenne Kristian Baumann (di origine coreane ma danese d’adozione), in grado non solo di seguire le orme del grande capo ma, grazie alla fiducia conquistata, capace di imporre la sua firma con personali creazioni ben realizzate come le ormai immancabili oxballs, frittelle ripiene di carne fatte con la rielaborazione di una pastella giapponese, quella dei takoyaki. Durante la bella stagione l’intero staff si occupa di foraging nei boschi circostanti, portando in cucina germogli, fiori, bacche, ortaggi selvatici e tutto ciò che di edibile offre il territorio per trasformarli in ingredienti da utilizzare in menù nel corso dell’anno. Come avveniva al Noma, i cuochi supportano il lavoro in sala prendendo parte al servizio ed interloquendo direttamente con il cliente, disponibili a racconti e spiegazioni dettagliate.

Traspare la voglia di portare avanti un concetto di ristorazione divertente e concreto, estremamente territoriale ed essenziale, con tante piccole attenzioni. Una cucina ricca di dettagli che tende a valorizzare l’ingrediente principale, incorniciandolo con una svariata serie di prodotti-auto-prodotti, tra cui polveri, oli, salse e vegetali fermentati. E non spaventino l’ambiente alquanto freddo e la scelta di tenere i tavoli piuttosto ravvicinati, al 108 si sta bene e si mangia ancora meglio. Inoltre, visto e considerato che ci troviamo in Danimarca, i prezzi sono più che accessibili, perfettamente in linea con la qualità del cibo e del servizio offerto.