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Sassicaia & Madame Bovary

Un nome pieno di smisurate promesse

Quando una ventina d’anni fa ho cominciato a bere quelli che definivamo con una certa spocchia da cazzari “vini di pregio”, il Sassicaia, tra i “grandi vini italiani”, era un’etichetta imprescindibile. Ricordo ancora l’entusiasmo naïf con cui tracannammo tra amici al ristorante dell’Antica Corte Pallavicina, una bottiglia della Tenuta San Guido, annata 1997. Sassicaia ’97 abbinato a scaglie di parmigiano, a fette di culatello Spigaroli, che sublime goduria mi sembrava allora! Bolgheri si atteggiava retoricamente a Bordeaux. Oggi questo lo percepisco come una palese scimmiottatura priva di originalità; una forzatura commerciale, ma al tempo, nella nostra goffaggine da bevitori di “vini pregiati” in erba, ne eravamo come ammaliati, sopraffatti, tramortiti d’assuefazione. Almeno io lo ero: tramortito, ammaliato, sopraffatto. 

La Toscana più assolata e snob. La Maremma più mediterranea e maiala. Terra di cipressi patinati, terrazzamenti artificiosi impiantati col compasso a filari di vigne pettinate a rittochino. Collinette squadrate dalla manovalanza nobiliare che pretendeva – che pretende tuttora con tracotanza tutta gentilizia – di rinnovare vigneti e vitigni di Graves o del Medoc. Questo da solo, a pensarci bene, dovrebbe trasmettere una tristezza interplanetaria più che altro, essendo chiaramente un’ostentazione da parvenus snocciolata a colpi di vitigni internazionali: Cabernet Sauvignon, Merlot, Petit Verdot, Chardonnay. Vini a spericolata concentrazione di solforosa e affinamenti esasperati in barriques nuove di zecca.

Supertuscan

Già la sola parola Supertuscan per intendere la melassa bordolese pluripremiata da guide laccate, osannata in copertina su riviste anglofone al botulino, mette un certo disagio psichico. Sentirla poi biascicare con leziosaggine dalle bocche vanesie a culo di struzzo dei troppi sbicchieratori tronfi fa ancora più rabbia: SÙ PÈR TÙS CÀN… per carità! I giratori di calici. I critici tromboni. I sommelier scorreggioni che discettano d’uvaggi e Guyot, d’annate e supposte rettali, ma si può? Viene sempre in mente il Barbariccia dantesco dal XXI canto dell’Inferno con tutta la sua schiera di diavolacci: 

Ed elli avea del cui fatto trombetta

Non vorrei sembrare ingrato oltremisura, eccessivamente denigratorio, ma quando mi capita di riassaggiare vini della tipologia del Sassicaia, come nel caso di questi 1998 e 2000, li trovo immancabilmente stucchevoli, faticosi al palato e comunque di ben poca piacevolezza, di nessuna energia vitale a mio giudizio. Da degustatore incallito provo sempre a fare esperimenti di sdoppiamento psichico per evitare di lasciarmi condizionare troppo dai paraocchi mentali o da pregiudizi di natura ideologica/culturale. Non c’è niente da fare, nonostante i buoni propositi di tenere a bada la propria contingente percezione del gusto, questo genere di vino resta seppellito nel bicchiere, quasi fosse una colata di cemento armato negli Zalto.

Ricordo allora con un certo amaro in gola quel celebre passo da Madame Bovary (1856). La frase si adatta felicemente alla situazione, è un calzino perfetto al piedino zoppo di quei vini che un tempo amavamo ma che ora troviamo fastidiosamente asettici, sciropposi, frigidi addirittura:

Ma il denigrare quelli che amiamo ci allontana sempre un poco da loro, non bisogna toccare gli idoli, la polvere d’oro che li ricopre potrebbe restarci attaccata alle dita.

Le viscere della realtà

La polvere d’oro che ricopre gli idoli mi sembra un’immagine di insondabile profondità. Fa riflettere sul fatto ad esempio che abbiamo tanto bisogno di idoli così come l’aria che respiriamo perciò è probabile che ognuno di noi col trascorrere degli anni, a un idolo (vini di pregio, vini eleganti, vini concentrati, vini di lusso) ne sostituisce indifferentemente un altro (vini in anfora, vini naturali, vini genuini, vini biodinamici), col rischio di ritrovarci le dita talmente insudiciate dalla polvere d’oro posticcio da non poter più fare affidamento neppure sulla nostra stessa capacità di discernimento tra ciò che pare autentico o fasullo, tra il costruito e l’indeterminato, il buono e il malfatto. Certo, ad oggi i sensi del mio olfatto, le antenne del gusto davanti ai due bicchieri di Sassicaia 1998 e 2000 sono sopraffatti da un sentimento di sconforto misto a imbarazzo, a sprezzante distacco. Una mortificazione organolettica che individua esclusivamente l’artificio tecnico di cantina, l’innaturalezza enologica alla fonte di vini celebrati ai quattro venti dal mondo intero, a danno di qualsiasi possibile bontà agricola o spontaneità contadina. Lo straordinario e il prezioso rivelati per quel che altro non sono al di là dell’apparenza: verniciatura d’oro finto.

Più sono smisurate le promesse, più enormi sono le aspettative, maggiore sarà il disinganno. “Parigi, che nome pieno di smisurate promesse” è un pensiero fulminante che ci proietta senza filtri nella mente della povera Emma Rouault. È la mente ristretta della donnina di provincia imbevuta con romanzetti sentimentali. Figlia di contadini, educata in collegio dalle suore, sposata al medico anche lui di provincia, il vedovo sempliciotto e noioso Charles Bovary (imprescindibile la lettura di Jean Améry, Charles Bovary medico di campagna. Ritratto di un uomo semplice). Il matrimonio tra i due rappresenta la tragedia della mediocrità di entrambi i protagonisti, il dramma casalingo della frustrazione coniugale. La piattezza di Charles poverino, privo d’ambizioni e senza talento neppure per la propria professione medica. La funesta banalità di Emma, nutrita dai sogni ad occhi aperti circa la sua condizione sociale, abbagliata dal miraggio di un amore romantico destinato a frantumarsi nei sotterfugi dell’adulterio, assolvendo soddisfazioni erotiche da feuilleton. Un amore fatuo, condannato a morte dalla cruda realtà quotidiana impantanata nel grigiore della provincia più tetra. Queste piccolezze amalgamate della coppia rimandano di riflesso alla smisurata pidocchiosità del secolo. Alla bassezza collettiva del contesto sociale di Yonville, rispecchiata a sua volta dalla classe della media-borghesia, quintessenza del provincialismo opprimente, fondale delle mentalità grette del farmacista, del commerciante, dell’apprendista notaio, del proprietario terriero Don Giovanni di provincia, del notaio rapace, del prete. 

Flaubert mon cher

Nel primo capitolo di Madame Bovary, la coppia viene invitata al ballo presso il Marchese di Andervilliers al Castello La Vaubyessard. È una scena penosa a cui assistiamo durante il ballo. Splendori e miserie dell’umanità. La scena merita di essere riportata per intero nelle parole attraverso cui Flaubert viviseziona le viscere della realtà. Parole spietate che, senza forzare troppo la mano, possono essere lette quasi fossero la radiografia della limitatezza mentale anche ai nostri giorni. Parole rivelatrici della fatua decadenza dei vini di pregio “clamorosi e debosciati”. Parole accusatrici della mediocrissima bestialità di chi ancora adesso nel XXI secolo beve con superficialità senza pensare e giudica le etichette “pregiate” (che pena!), restando sempre a galla senza mai penetrare la sostanza oscura di cui il vino è fatto. L’oscura sostanza cioè di cui sono fatti i sogni di un personaggio della grande letteratura universale. Basta sostituire una bottiglia di Sassicaia al “vecchio duca di Laverdère” e il gioco – un feroce gioco al massacro – è fatto. Ecco, ora leggete pure e sputate:

Seduto a capotavola, solo in mezzo alle signore, curvo sul piatto e con il tovagliolo annodato al collo come un bambino, un vecchio mangiava sbrodolandosi con i sughi delle vivande. Aveva gli occhi infiammati e portava il codino annodato con un sottile nastro nero. Era il suocero del marchese, il vecchio duca di Laverdère, il quale, si diceva, aveva goduto i favori del conte d’Artois più d’ogni altro, al tempo delle partite di caccia al Vaudreil, presso il marchese di Conflans, ed era stato l’amante della regina Maria Antonietta fra de Coigny e de Lauzun. Aveva condotto una vita clamorosa e debosciata, piena di duelli, di scommesse, di donne rapite, dilapidando la sua fortuna e gettando nella costernazione l’intera famiglia. Un domestico, in piedi dietro la seggiola, gli nominava ad alta voce nell’orecchio i piatti che lui gli indicava con il dito, balbettando qualcosa. Lo sguardo di Emma era irresistibilmente attratto da questo vegliardo dalle labbra cascanti, come da qualcosa di straordinario e di augusto: egli aveva vissuto a corte e si era coricato in letti di regine.

Un riferimento nella Maremma Toscana

In un angolo posto letteralmente fuori dal mondo, nel cuore della Maremma, a Pescina, frazione di Seggiano, un incrocio nel centro del paese darà l’impressione di essere trasportati da una DeLorean indietro nel tempo.

Da un lato della strada il vero e proprio ristorante, una storica locanda di paese, ristoro per i viandanti del tempo che fu, cresciuta nel corso dei decenni fino a diventare accogliente ritrovo gastronomico, riferimento di una zona dal perimetro sempre maggiore; dall’altro, quasi due ettari di orto con piacevolissimo dehor dove fare aperitivo, degustare un dolce o pranzare nelle giornate che lo permettono.

E proprio l’orto, e in senso lato la terra, sono la linfa vitale dell’ultratrentennale lavoro di Roberto Rossi, chef patron, e di Marinella Seminara, suo braccio destro in cucina, rappresentando la suggestione e il fondamento di una cucina in simbiosi con la feconda natura circostante.

Territorio e materia prima costituiscono l’ossatura di una proposta il cui primo obiettivo è preservare, presentando al meglio possibile, quanto la terra abbia da offrire, senza fronzoli né dispersive elaborazioni. Così, i ricordi di un tempo andato in cui cortili, aie e campagne erano lo sfondo dove venivano eseguite ricette gelosamente e golosamente tramandate, è stata per lo chef la fonte di un’ispirazione in grado di permeare  l’esperienza, mediante un tocco irresistibile di romantica nostalgia.

Una nostalgia impossibile da non evocare quando si assaggia la buonissima scottiglia – la zuppa di carne di origine contadina, vero e proprio distillato della memoria, con gli spaghetti risottati – o il soffice tortello maremmano, farcito di ricotta e spinaci, che nella sua semplice efficacia racchiude un passato quanto mai vivido o, ancora, l’ottimo coniglio accompagnato dal suo delizioso intingolo.

In una sala governata dallo chef che assai piacevolmente saprà descrivere, come un oste d’altri tempi, le pietanze in arrivo, il tempo passa piacevolmente in questo scrigno dell’Italia nascosta, e meno celebre, meritevole di tutta l’attenzione di chiunque si trovi nei paraggi del Monte Amiata, e non solo.

La Galleria Fotografica:

Friuli e Toscana: due bianchi a confronto

Friuli Pinot Grigio DOC “Grin” 2019 – Volpe Pasini

Volpe Pasini è una delle aziende vinicole del Friuli Venezia Giulia che più si imposero sul mercato – divenendo una cantina di riferimento del Nord Est Italia – negli anni di transizione in cui il vino non veniva più visto come alimento ma come accessorio al pasto. Dagli anni settanta ad oggi la loro crescita crebbe in modo incisivo: 50 ettari di proprietà su terreni ricchi di marne arenarie tra le colline di Prepotto e Togliano.

Dal colore giallo paglierino scarico, al naso si denotano sentori erbacei e di frutta bianca. Al gusto è fresco e lievemente acido. Un vino semplice che può accompagnare piacevolmente degli gnocchi con sugo fresco di pomodoro.

Prezzo e -commerce Tannico 8,90 euro

 

Costa dell’Argentario Ansonica DOC 2018 – La Parrina

L’azienda agricola La Parrina si trova nel cuore della Maremma Toscana circondata da vigneti, uliveti e frutteti delimitata dal Monte Argentario con i tomboli naturali di Giannella e Feniglia, separati dall’oasi della laguna di Orbetello. Dei 200 ettari dell’azienda destinati alla coltivazione, 60 sono vigneti allevati a cordone speronato e dislocati su di un terreno prevalentemente sabbioso-argilloso. Tra i vini bianchi prodotti si trova l’Ansonica, re tra i vitigni locali e divenuto D.O.C con la denominazione di “Ansonica Costa dell’Argentario”.

Dal colore giallo paglierino tenue, al naso si denotano sentori di frutta con una lieve nota iodata e di macchia mediterranea sul finale. Al gusto è fresco, morbido e persistente con rimandi fruttati e salini. Esempio di una buona corrispondenza gusto-olfattiva. Si consiglia in abbinamento a piatti a base di pesce.

Prezzo e -commerce Tannico 9,90 euro

L’ascetismo di Leonardo Pini, a Pitigliano

Angiolina era il nome della nonna, la stessa “angiolina” che, stilizzata nel tratto di un bambino, occhieggia dalle ceramiche dei piatti fatti fare, appositamente per lui, da un artigiano campano.

Lui è Leonardo Pini, romano, oste e cuoco autodidatta, grande panificatore nonché selezionatore e manipolatore della materia ma, soprattutto, istrionico protagonista di questa storia il cui incipit potrebbe esser proprio “c’era una volta”, ambientata com’è tutta in una stanza e, in estate, nel bagliore lunare del selciato in travertino di Piazza della Repubblica, a Pitigliano. Dentro, poco più che una cucina e qualche tavolo a vista o, meglio, a precipizio sul burrone scavato dal torrente Meleta attorno alle pendici dello sperone di tufo in cui il paese, che già da solo costituisce un vertiginoso miracolo urbanistico, architettonico e ingegneristico, è scolpito.

Qui, Pini, cucina. E cucina con quello che c’è, e come lui comanda, tanto da render velleitario un menù vero e proprio sostituito da generici “pranzi e cene per i suoi ospiti”, nel senso che pure gli ospiti va a finire che li decide lui. Intransigenza? Forse. Del resto siamo a casa sua e, a casa sua, lui non cucina mai per più di dieci persone alla volta, non ricorre al soffritto, ma solo olio a crudo, né usa mai sale, ma solo fiocchi di sale, e mai sul pane; a tale proposito fate caso a quello, taumaturgico, di farina di Saragolla.

La materia pura

Eppure, nonostante queste premesse, sarebbe riduttivo definire la sua una cucina di materia e, a maggior ragione, a dispetto della ricorrenza pressoché costante di nomi come quello di Simone Fracassi, Paolo Parisi, Gianni Frasi e Silvio Bessone, solo per dirne alcuni. Perché nei piatti di Pini alberga una semplicità serafica, una monastica serenità che, come tale, richiede concentrazione – e gratitudine, quando non penitenza – a coloro che li fruiscono anche in assenza di riferimenti celebri come nell’Assoluto di pomodoro GiaGiù con bottone di pasta (senza uovo), caprino e santoreggia, nello Spaghetto con rigaglie di piccione e nello stesso piccione servito, subito dopo, col suo cuore fumante. Colpisce, poi, la cura di alcuni dettagli: l’eterea cipolla fritta è quasi glassata nel suo involucro evanescente di pastella di lievito madre mentre la gelatinosa e serica consistenza dell’aringa marinata nel latte sono, e auspicabilmente saranno, molto più che attori comprimari in futuro.

In attesa che siano presto finiti i lavori di ristrutturazione dell’Angiolina non possiamo quindi che augurarci di tornare presto, magari in inverno, a far visita a Leonardo e a questo suo mondo di francescana, intima bellezza.

La Galleria Fotografica:

 

“Forma e Sostanza. La classe intramontabile del gusto secondo un’insegna storica della Maremma Toscana”

Il fuoco della Maremma arde libero e audace. E’ una storia romantica legata al mondo enogastronomico, quella di Valeria Piccini e Maurizio Menichetti. Due pilastri della ristorazione italiana, che hanno saputo stanziare un approdo inossidabile in oltre 20 anni di attività nella frazione di Montemerano.

La rotta per scoprire il Ristorante Da Caino non è semplice: bisogna avventurarsi con curiosità e determinazione tra paesaggi remoti dell’entroterra toscano. La meta però sarà in grado di ricompensare il viaggio, mettendo in scena una cucina ancora ricca di stimoli e di energia creatrice. Valeria Piccini è una cuoca temprata, capace di riassumere in ogni esercizio una sintesi di potenza gustativa e levità tecnica, nonostante le difficoltà riscontrabili in una zona così decentrata e poco battuta. Uno stile devoto a tradizione e prodotto, che ama confrontarsi assiduamente con le tendenze attuali, senza rinnegare la propria natura.
Da Caino regna il verbo incontaminato del territorio, contemplando uno spettro di sapori poderosi modulati con assoluta finezza. Ogni dettaglio coniuga egregiamente questa filosofia, dall’entrée di benvenuto, passando per il ricco aperitivo, la sequenza di portate e l’ottimo pane, servito con olio auto prodotto. Nel menu fanno recente ingresso elementi “di mare” selezionati in coerenza con l’impostazione della linea. Piatti che preservano con fierezza un’identità classica e confortante, che parlano alla pancia lasciando fluire garbati spiragli innovativi.
Armonia saporosa e certosina nel “sandwich di lingua arrosto con patate allo zafferano, cipolla e mirtilli”, come nel “piedino di maiale, cedro, seppia e caviale”, che si mostra in un passaggio complesso dalla risolutiva limpidezza gustativa. Mano incantevole sulla pasta fresca, dove gesto ed esperienza fanno la differenza. Il “tortello con tordi e ali di razza” dal corroborante brodo orientale; o gli assuefacenti “bottoni di patate, cipolla al sale e tartufo”, esibiscono sfoglia impalpabile, modernità e un didascalico equilibrio. Meno efficace il risotto, compromesso da una cottura border line.

La sequenza di portate principali, dall’impeto carnivoro, racchiude tutta l’eleganza esecutiva di questa cucina. Un agnello amiatino dal morso favoloso; seguito da un ever green di haute cuisine come il “piccione arrostito su legno d’olivo e toni di rosso”. Sorprendente infine lo studio sulla pancia di cinghiale, a ribadire il valore del polso ai fornelli. Cotenna soffiata, cuore tenero che elogia la bontà di una materia prima da record e un intenso consommé selvatico a chiudere il piatto.

I dolci, belli e vivaci, inseguono freschezza conservando l’appagamento di un vero dessert.
La sala coordinata da Andrea Menichetti, rientrato Chez Caino dopo numerose esperienze all’estero, trova simmetria perfetta con la monumentale cantina strutturata da Maurizio negli anni. Se è vero che il concetto di avanguardia smuove innovative rotte poetiche in opposizione ai gusti correnti, qui troverete un confortante esempio anacronistico. Non saranno contrasti estremi o azzardi stilistici a stupirvi, bensì la costanza tecnica, la precisione e la salvaguardia del gusto che divampano da ogni frammento di questa storica tavola.
Se avete possibilità, non esitate a soggiornare nelle stanze, per godere di una colazione stellare composta da prodotti di piccoli artigiani locali.