Passione Gourmet Marche Archivi - Pagina 2 di 7 - Passione Gourmet

Lo Scudiero

Uno scudiero che è ormai cavaliere

In ogni storia di cavalleria che si rispetti, il giovane scudiero, apprendista ai princìpi e ai segreti del portare le armi, diventa prima o poi cavaliere. È quello il suo destino: un percorso scandito in tappe di progressivo apprendimento che lo renderà degno di calzare gli speroni e vestire l’armatura. La materia di Bretagna e il ciclo arturiano, che hanno profondamente segnato la cultura aristocratica medievale e rinascimentale, ce ne presentano numerosi casi, in un florilegio di prove e scontri, duelli e tenzoni, che fanno maturare i protagonisti (il prescelto Artù, il superiore Lancillotto, il combattuto Perceval, il senzamacchia Galaad…) da giovani sprovveduti, e talvolta arroganti, a eroi predestinati a grandi azioni.

Noi gourmet ricordiamo bene l’esordio di un “giovane scudiero” della cucina, l’allora ventiquattrenne Daniele Patti, che con tanto coraggio, e altrettanta avventatezza, nel 2012 rilevò la gestione del glorioso Lo Scudiero (Pesaro), insegna che fra gli anni Ottanta e Novanta aveva contribuito a scrivere belle pagine nella storia della ristorazione marchigiana, giungendo anche a ottenere prestigiosi riconoscimenti (uno su tutti: la stella Michelin). Rammentiamo anche come nella solenne austerità del nobile Palazzo Baldassini – tutt’oggi di proprietà della omonima famiglia marchionale – il giovane Patti, scanzonato folletto tutto biancovestito avec la toque in testa, quasi apparisse elemento discordante. E abbiamo pure ben impresso nella mente come i suoi piatti, benché già buoni, apparissero ancora un po’ acerbi. Certo, qua e là si potevano leggere, nella filigrana, degli azzeccati abbinamenti, del consapevole uso degli ingredienti e del fine impiattamento, gli anni passati a Erbusco, dal divino Gualtiero Marchesi, e l’esperienza nelle cucine dell’eccelso Uliassi. Ma pure si coglievano alcune ingenuità e alcune incertezze date dalla giovane età.

Dieci anni sono passati da allora. E, senza tema di smentita, possiamo dire che quel “giovane scudiero” è ora un baldo cavaliere. Le ingenuità si sono trasformate in spunti di riflessione prima e in intuizioni poi. E le incertezze sono divenute pungolo di studio, e quindi conoscenze ben assimilate. Ma, su tutto, in questi due lustri, l’irruenza della gioventù ha lasciato spazio a una olimpica sicurezza, che ha fatto compiere notevoli passi in avanti a questa insegna. Nelle voltate sale dello Scudiero (o, in estate, nel magnifico giardino all’italiana che si articola dietro il palazzo) va ora in scena una cucina elegante e contemporanea, attenta al territorio e ai suoi prodotti, aperta a suggestioni e gusti foresti, di grande impegno tecnico ma scevra da forzature, costruita con materie prime d’eccellenza e dispiegata in proposte di grande impatto. A contorno anche il ristorante è mutato: l’attenzione ai dettagli (oggetti d’arte e di design, luci, tovagliato, stoviglie…) ha reso le sale molto più fini, il servizio (che procede sotto l’occhio attento di Dunia, moglie di Daniele, e del maître Giovanni Stupici) è molto migliorato, ora muovendosi con consumata maestria fra vassoi d’argento e cloche. E pure la cantina, all’inizio scarna, si è ampliata e arricchita con intraprendente intelligenza (a tal proposito merita una visita l’enorme e labirintica neviera del XV secolo che la ospita).

Dalle Marche alla Sicilia, passando per il resto del mondo

La carta delle vivande adesso proposta da Daniele Patti – insieme al suo secondo, Alessandro Furlani (quattro anni a Senigallia, chez Uliassi) – trae numerosi spunti dalla ricca tradizione di terra, e di mare soprattutto, della cucina marchigiana. Le olive all’ascolana, per esempio, si vestono “alla pesarese“, sostituendo alla tradizionale farcia di carne l’impasto dei passatelli (pangrattato, Parmigiano, uova, scorza di limone), mentre il profumo della cotenna della porchetta – altra tipicità – accompagna le raguse con spuma di patata e finocchietto selvatico. Ma la marchigianità – come scritto sopra – non è un limite. Su si innestano alcune inflessioni sicilianeggianti (a cui Daniele, che è nato in provincia di Messina, e lì ha vissuto fino all’età di dieci anni, dedica uno specifico percorso “Vieni in Sicilia con me“) rilette secondo canoni d’alta scuola – come l’eccellente Crépinette di agnello con burro alla nocciola, miele e bietola – oltre a talune suggestioni e ricordi di viaggio in paesi esotici.

L’imperativo categorico che sussume il tutto rimane comunque uno, e uno solo: tenere bene al centro il senso del gusto. I piatti, tutti indistintamente, oltre già a presentarsi con un invitante profilo aromatico (come per gli squisiti Cappellacci ripieni di formaggio caprino con astice e zenzero, o per il soave Sorbetto al mango con frutto della passione e soffice al cocco), si dipanano in un bell’equilibrio fra sensazioni talvolta iodate (come nei casi della azzeccata Panna cotta alle ostriche con crema allo scalogno e caviale di uova di lompo, o della magnifica Ostrica ripiena di ricciola con spuma di peperoni friggitelli e semi di lino), talvolta acide (Scampo, limone, granita al basilico; “Attraversando lo Stretto di Messina“, ovvero cotoletta di pesce spada con spuma di caponata e gel d’arancio), talvolta clorofilliche (“Il 19 marzo a Ramacca“, ovvero pasta mista al macco di fave e finocchietto), richiamate però all’ordine, in fine di bocca, da piacevoli rotondità e modulate tendenze dolci, unite a grande nettezza gustativa.

Non mancano citazioni d’alto classicismo, come la Lepre à la royale, vivacizzata da lampone e caffè, e il Filetto alla Rossini con tartufo (siamo a Pesaro, patria del celebre compositore!), eseguito secondo la lezione filologica impartita dal divino Marchesi. Infine i golosi uno spazio, e magari anche due, per i dolci dovrebbero tenerlo: la proposta, assai variegata, merita l’assaggio anche perché – nota di merito ulteriore – non è mai stucchevole, neppure nelle proposte a base di cioccolato, sempre bilanciate dalla presenza di frutta.

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Il cuoco talassologo

Senigallia è meta nota ai gourmet. Qui sventolano gli stendardi di due fra i più rinomati ristoranti italiani: la Madonnina del Pescatore e Uliassi. Ma, oltre loro, un terzo locale – certo, più piccolo e più informale (stile bistrot) ma decisamente valido – si trova in questa sorridente e pigra cittadina di mare, adagiata sulla costa adriatica. In alcuni spazi del Palazzo del Duca (qui regnavano i della Rovere), giusto in faccia alla quattrocentesca rocca progettata da Luciano Laurana con tratti sì marziali ma comunque ispirati a classica eleganza, si incontra il ristorante Sepia by Niko.

Proprio così, «sepia», con una “p” sola, perché – come sanno gli scienziati naturalisti – il vero nome della seppia, secondo la classificazione di Linneo, è sepia. NikoPizzimenti il family name – lo sa bene, e non potrebbe essere altrimenti, perché fra pesci, molluschi, crostacei e quant’altro viva nelle equoree profondità ci è nato e cresciuto. Il padre del nostro, infatti, è pescatore di lungo corso: proprietario di un motopeschereccio ormeggiato giusto a poche centinaia di metri dal locale del figlio. Il particolare non è di poco conto perché al Sepia si mangia pesce di giornata, che arriva perlopiù dall’imbarcazione di famiglia. E a ben scrutare la non vasta carta delle vivande ce ne si accorge immediatamente, anche perché la proposta cambia ogni primo giorno del mese. Il mare non regala i suoi “frutti”, indistintamente, tutto l’anno: le cozze si trovano in estate, quando invece è assai più raro imbattersi in calamari, polpi e seppie. Le triglie prediligono i mesi autunnali. I meravigliosi scampi quelli invernali. Mentre per i grandi pesci pelagici è meglio attendere il periodo caldo. Niko tutto questo lo sa e, come fine talassologo, studia e interpreta la materia prima con passione, mediando una sua idea di cucina marinara fra Marche e Sicilia. Già, perché dalla Trinacria arriva la famiglia Pizzimenti: e di un’isola lontano dall’isola, più vicina al Monte Conero e alla “spiaggia di velluto” che alla Scala dei Turchi e alle saline, raccontano i piatti del Sepia. Piatti intrisi di ricordi sedimentati attraverso le generazioni, di usi arcaici che, nel lampo creativo, si svelano contemporanei, di tradizioni tradìte e tràdite. In un magma di impeto e di sentimento che mai è però nostalgia.

Piatti mediterranei

Assodato che la materia prima, preziosa o povera che sia, che giunge dal mare qui è davvero top e a km zero, parliamo delle capacità del cuoco. Niko ha una ottima conoscenza delle basi della cucina classica: muove i primi passi nel mondo dei fornelli frequentando l’istituto alberghiero di Senigallia (dove, fra gli altri, ha avuto come insegnante un giovanotto di nome Mauro Uliassi…) e quindi si sposta per lavoro prima in Francia (e la terrina al forno di polpo, caciocavallo e nduja è indizio di questo passaggio…) e poi, per dieci anni, nella lontana Australia.

Questo cosmopolitismo del cuoco – che avrebbe potuto facilmente trasformarsi in un annichilente (e, per chi è seduto a tavola, noioso) stile fusion – in realtà è percepibile più nel suo atto del fare che nel suo fatto. Cioè più nella conoscenza delle tecniche utile a costruire un buon piatto piuttosto che nel piatto stesso (giusto come esempio si potrebbe citare l’estrazione a freddo di senape selvatica che accompagna la pasta mista di Gragnano allo scorfano). E più negli azzeccati e tutti italici abbinamenti – tranquilli, per fortuna nulla di astruso! – che in una “spruzzata” di inutile esotismo. Il risultato prende forma in pietanze solari, d’impianto “mediterraneo”, saggiamente costruite e accattivanti già sotto il profilo aromatico. E, benché complesse gustativamente – come i capelli d’angelo con lepre “alla pantesca” e anguilla glassata – ben bilanciate negli elementi, nei contrappunti sapidi e iodati, e nelle sensazioni (anche tattili, come – per esempio – per il crudo di gamberi rosa, che non è ‘tartarizzato’ ma semplicemente battuto, per salvaguardare le fibre della dolce carne e la sua consistenza).

Uno dei tratti distintivi dei piatti del Sepia è poi la piacevole, e non stucchevole, nota di rotondità, indotta dalla succulenza, che accompagna la deglutizione del boccone, data – per esempio, nei due crudi iniziali – da una bisque di riduzione di soli carapaci di gamberi rosa (quindi senza l’utilizzo della parte della testa) che accompagna il già citato battuto di gamberi, e dal burro acido nel quale viene appena ripassato il crudo di calamaro (con pomodoro arrosto, senape, mollica e olio alla carbonella) per togliergli la possibile sensazione di pelagico.

Capitolo a parte meritano i dolci. Ai tavoli del Sepia gli epigoni di Ciacco possono divertirsi: decisamente goloso, ma ancora una volta non stucchevole, è per esempio il Brownie al cioccolato con uva di Lacrima di Morro d’Alba e crema di arachidi. Ma soprattutto da non mancare sono i cannoli di ricotta alla siciliana. Le cialde sono preparate giornalmente e sono farcite solo pochi secondi prima di essere portate a tavola. Una delizia! Il servizio, diretto da Giulia, la moglie di Niko, è assai efficiente e cortese. E la carta dei vini – che ha ovviamente un occhio di riguardo per le etichette siciliane (ma non mancano le altre regioni d’Italia e una bella selezione estera) – permette di bere bene a prezzi corretti.

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Le fiamme degli Dei. Il fuoco degli uomini

Le fiamme che divorano il Walhalla, in chiusura della Tetralogia wagneriana, non segnano solo la fine della saga dell’anello, che torna nelle oscure profondità del Reno, ma pure il termine del tempo degli dei e degli eroi. Da quel crepuscolo prende vita il tempo degli uomini: la stirpe animale che è prometeicamente chiamati a popolare il mondo terreno – il nostro mondo spazio-temporale – governandone, nei limiti del possibile, le distruttive forze primordiali. La più pericolosa di tutte – il fuoco – è anche quella che, però, producendo energia, permette la vita dell’uomo.

Il fuoco, poi, riscalda e protegge. Ed è da quando lo si è addomesticato (non a caso gli storici parlano di “domesticazione del fuoco”), ormai nella notte dei tempi, che l’istinto ferino ha lasciato posto all’umanità: quando le scimmie primitive hanno preso consapevolezza che arrostendo sulla fiamma il cibo quest’ultimo diveniva più gradevole, le strade dell’evoluzione hanno imboccato differenti tracciati. Tracciati che, nei millenni, sono divenuti mulattiere, e quindi sentieri, e poi strade vieppiù larghe, sviluppando un immenso patrimonio di sensazioni gusto-olfattive non più solo legate alla mera sfera del nutrimento ma all’indefinibile e sfrangiato universo del piacere. Sì, perché il fuoco, caramellando gli zuccheri e favorendo la reazione di Maillard delle proteine, produce quell’imbrunimento della materia che il nostro palato percepisce come “buono”. Ma non solo. Le fiamme, bruciando ossigeno, creano “fumo”: un gas che ha una potente azione di conservazione sugli alimenti, nonché di insaporimento, grazie al processo dell’affumicatura.

Corre l’anno 1959 quando, a Loreto, all’ombra della Santa Casa, Andreina Isidori apre un’insegna che porta il suo nome di battesimo. Era già nota per le sue capacità di cuoca: i cacciatori della zona erano soliti portarle la selvaggina, che lei poi preparava sullo spiedo del camino della sua piccola osteria con mescita. Il successo presto arride ad Andreina e a suo marito Bruno: il locale inizia a farsi conoscere grazie soprattutto a quel camino, fulcro di casa e metafora di buona cucina. Il tempo passa e Andreina (che è venuta a mancare nel 2018, all’età di 94 anni) lascia spazio prima alla figlia Ave (che ancora adesso, con fine eleganza, accoglie gli ospiti e governa la sala) e quindi all’amatissimo nipote Errico Recanati. A lui trasmette i segreti di quel camino, del suo spiedo e delle braci. Custode del fuoco di famiglia Errico – quasi vestendo i panni di Lare protettore – inizia a riflettere sui significati di quella cucina che la nonna proponeva con quella gioiosa spontaneità che contraddistingueva gli anni del boom economico. Ed eccolo, Errico, lungo un percorso d’avvicinamento durato anni, e meditato come pochi, a cimentarsi con una sicurezza sempre maggiore con la forza del fuoco, che tempra, e con i fumi delle braci, che danno sapore. A ponderare il senso ancestrale di gesti millenari (e forse più) che hanno forgiato l’olfatto e il gusto come oggi li conosciamo.

Così che, oggi, da Andreina, la cucina è un atto epistemologico, uno studio sulla metodologia e sui limiti di ciò che è alla base della cucina: l’esposizione di un alimento al fuoco. E come esplicita dichiarazione d’intenti, come richiesta di sottoscrizione di un reciproco patto, all’ospite che varca la soglia del ristorante si para innanzi il camino della fondatrice. «Tutte le cose sono uno scambio del fuoco», proclama Eraclito l’oscuro. Errico ha appreso la lezione: perché quasi tutti i suoi piatti recano il marchio del camino. Come una firma, sono la personalissima espressione di una ricerca che si muove senza confini all’insegna di una fiamma – di una passione – inestinguibile. Carne e pesce, frattaglie e cacciagione, si inseguono in piatti che – obiettivamente – prendono forma in un orizzonte ideale ove l’Appennino incontra l’Adriatico, sussumendosi sul piano del camino: che è innanzi tutto lo spazio immateriale della saga di una famiglia. Di una nonna e di un nipote. Di insegnamenti da trasmettere. E di riflessioni da compiere. Non è più il tempo degli Dei. Spetta all’uomo Errico-Prometeo disegnare un percorso che concili la storia prima della storia e il tempo del presente, il gesto ancestrale alla conoscenza tecnica.

Il domatore del fuoco

Per l’ospite che si accomoda a tavola il racconto di Errico può partire – per esempio – da golose polpette di cacciagione (che paion, per il colore e la favolosa croccantezza della panatura, olive all’ascolana) accompagnate da “carbone” e crema di peperoni: omaggio sintetico a tutte le tradizioni dell’insegna. E quindi allargarsi al “benvenuto della brace”: crostolo (piadina marchigiana tipica della zona appenninica) cotto sul camino con lardo di maiale nero, erbe di campo e pepe.

I primi colpi di teatro giungono con quegli antipasti che legano il mare alla terra: l’ostrica passa sulla brace, in un piatto dalla lunghissima persistenza aromatica, dolcemente acidula, che la vede protagonista insieme a lamponi, senape e aceto di lamponi. E quindi dal gambero crudo con la sua testa fritta, pomodoro arrosto, acqua di conditella e una sottilissima fetta di filetto di scottona Podolica, appena “bruciata” al tavolo, in burro chiarificato, “al ricordo di brace”, in un gioco di consistenze e centripete tendenze allungate e amalgamate dalla persistenza aromatica. E, infine, dal tanto friabile quanto buono tacos di farina di nocciole farcito di cervo cotto al fieno (secondo ancestrale tecnica giapponese), miso ed erbe dell’orto, creazione ove trionfa un balsamico gusto di clorofilla (altra nuance tanto amata da Errico) unitamente a finissime note di tostatura.

Piatto firma rimane l’imperdibile – e ormai giustamente inamovibile dalla carta – spaghetti “cacio e 7 pepi“. Qui è la pasta a finire sul camino, sotto una cloche: dopo la cottura e prima di essere saltati in padella nel ricco intingolo speziato, gli spaghetti subiscono un rapido processo di affumicatura sulle braci. Il risultato – “frutto di anni di studio“, sottolinea con giusto orgoglio Errico – è memorabile e meriterebbe un posto nel pantheon delle ricette più buone e più personali della scena di questi anni della cucina italiana.

Il pasto si sta avviando a conclusione. La brace del camino è quasi spenta. Inizia ad accumularsi, lungo i bordi della graticola e dello spiedo, la cenere. Ed è così che è proprio l’idea della cenere a siglare l’ulteriore connubio fra pesce e carne: lo straordinario piccione e anguilla con patata sfogliata al lardo e fiori di sambuco marinati nell’aceto. A colpire in bocca sono le consistenze, i gusti, i profumi e ancora la lunga persistenza vivificata dal tocco acetico.

I golosi avranno in fine una bella sorpresa: la teoria dei dolci (buonissima la tarte tatin!), dei pre-, dei post- e dei post-post- dessert è quanto mai ampia, e quasi costituisce un’enclave a sé stante. Non rimane che prendere commiato: il passaggio davanti al camino ricorda ancora dove tutto ebbe inizio. Lì il fuoco non è spento, non si spegne mai: cova sotto i tizzoni, pronto con i suoi guizzi alla vampa. In attesa di Errico, il suo prometeico domatore.

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Il Merlot secondo Stefano Antonucci: fra taglio e monovitigno

Vinificare Merlot in purezza è una sfida. Assai rischiosa. Il pericolo – ben lo sanno i viticoltori – è quello di fare vini ‘piacioni’ (quante volte si è utilizzato questo aggettivo per i Merlot!), oltremodo rotondi e morbidi. ‘Merlottoni’, insomma, che si distinguono per ruffianeria piuttosto che per carattere. Ebbene lo diciamo subito, non è il caso di Mossone di Stefano Antonucci.

In fondo i francesi lo insegnano: il Merlot è il principe dei vitigni da taglio, quell’uva che contribuisce ad ‘ammorbidire’ i Cabernet Franc e Sauvignon, i Petit Verdot e i Carménère del bordolese. A Saint-Estèphe, con il suo terreno argilloso – per esempio – il suo apporto è stato fondamentale per raggiungere quell’apprezzabilità di risultato che ha portato i vini di quella AOC ai più alti riconoscimenti. Eppure, nonostante la sua importanza, il Merlot, solo in casi rarissimi, e praticamente solo sulla riva orientale della Dordogna, a Pomerol, viene lavorato ‘in solitudine’. Si può citare, a tal proposito, il campione dei campioni, Pétrus, eppure anche questo vino – fra i più blasonati al mondo – solo da poco più di una decina di anni è Merlot al 100%.

In questo senso in Italia si è osato prima e di più. Innumerevoli sono, nella Penisola, i Merlot in purezza, seppure pochi si dimostrino realmente interessanti. Fra questi, senza tema di smentita, i grandi bolgheresi – Masseto e Messorio – e i chiantigiani Poggio ai Merli e L’Apparita (prima annata 1985) la quale, in effetti, è stato il primo Merlot 100% prodotto in Toscana. E, poi, come non ricordare il raffinato Ilmerlot di Ca’ del Bosco, uscito, nella sua prima annata, nel 1990, e quindi di nuovo solo nelle annate eccezionali del 2001, 2003, 2009 e 2011?

Insomma, vini – quelli citati – che di ‘comune’ hanno punto o nulla e che, al contrario, grazie alle loro straordinarie e irreplicabili condizioni pedoclimatiche, alle centrate pratiche agronomiche e ai giusti accorgimenti di cantina, si confermano monumenti della nostra produzione enologica nazionale.

La sfida di Cantina di Santa Barbara

Nella valle della Misa, a ridosso della dorsale collinare che da Senigallia svalica verso Jesi, si trova il piccolo paese di Barbara. Qui l’uva a bacca bianca – il Verdicchio – regna incontrastata. Eppure, in queste contrade, c’è chi ha voluto tentare l’avventura di un 100% Merlot. Un’ulteriore sfida con se stesso, come quella fatta nel 1994 quando decise di lasciare il suo lavoro in banca per dedicarsi completamente al vino, con un obiettivo dichiarato: «fare vini che piacciano».

La storia del personaggio – sì, personaggio, perché Stefano Antonucci, con i suoi occhiali colorati, il suo eterno sorriso, la sua incontenibile gioia di vivere, è un vero personaggio – è nota agli appassionati. Così come lo sono i vini della sua Cantina di Santa Barbara: i Verdicchi. E il suo rosso ‘internazionale’, Pathos, frutto di un uvaggio di Merlot, Cabernet Sauvignon e Syrah.

Eppure, non pago dei traguardi raggiunti, Antonucci ha perseguito un’idea: un Merlot in purezza che raccontasse la terra marchigiana, ma che pure non avesse paura di confrontarsi con gli altri ‘grandi’ Merlot italiani. Da una vigna posta a 260 metri d’altitudine, orientamento Nord-Est, con un terreno ricco di pietre e ciottoli, vede la luce, nel 2011, la prima annata di Mossone (così battezzato dal soprannome che gli amici hanno affibbiato ad Antonucci: Mossi). Un vino IGT che Lucio Pompili (grande amico di Mossi) definisce «da beccacciaio», e che difatti, nel suo elegante Symposium, propone in accompagnamento alla «beccaccia alla Santa alleanza» (ovvero con foie gras).

Ma com’è Mossone?

La degustazione

Ricchezza. Ecco l’aggettivo che meglio definisce questo 2018 del quale scriviamo, annata che nella zona del Verdicchio jesino si è distinta per picchi di calore non indifferenti e che ha costretto ad anticipare leggermente la raccolta, per preservare un po’ di più l’acidità.

Nel bicchiere il vino si presenta di un magnifico rosso rubino, quasi impenetrabile nella sua consistenza. E, nei suoi fugaci riflessi di chiusa vivacità, tradisce tanto la sua giovinezza quanto la sua sontuosità. Ruotandolo, l’occhio rimane rapito dalle doppie cadute di ‘archetti’ che, nel loro susseguirsi paiono disegnare le slanciate e fitte arcate di una cattedrale gotica. Rompendone poi la rotazione, il liquido si assesta compatto nel bicchiere con quell’elegante oscillazione tipica dei vini ‘consistenti’.

Nel bicchiere il vino si presenta di un magnifico rosso rubino, quasi impenetrabile nella sua consistenza. E, nei suoi fugaci riflessi di chiusa vivacità, tradisce tanto la sua giovinezza quanto la sua sontuosità. Ruotandolo, l’occhio rimane rapito dalle doppie cadute di ‘archetti’ che, nel loro susseguirsi paiono disegnare le slanciate e fitte arcate di una cattedrale gotica. Rompendone poi la rotazione, il liquido si assesta compatto nel bicchiere con quell’elegante oscillazione tipica dei vini ‘consistenti’.

Al naso Mossone è tutt’altro che timido. Il vino avviluppa immediatamente in una miriade di emozioni. Coloro che hanno avuto la ventura di conversare con Antonucci sanno bene quanto sia coinvolgente una chiacchierata con lui. Ebbene, i profumi del Mossone lo sono altrettanto. Plurimi e generosi, quasi inebrianti, paiono proclamare, sin da subito, esuberanza e prodigalità. Ma l’impressione è solo prefatoria di altro. Rimettendo il naso nel bicchiere ci si accorgerà della presenza di un ordine e, soprattutto, di una eleganza non scomposta. Molto intenso, complesso e fine, il profilo aromatico di Mossone abbraccia il mondo del fruttato, del minerale e dello speziato, con alcuni tocchi floreali ed erbacei. Frutta matura, come prugna e ciliegia marasca, mora e mirtillo, accompagnati da un tocco di macchia mediterranea e di iris appassito (del famigerato peperone verde neanche l’ombra!). Un leggerissimo sottofondo balsamico sostiene poi l’intelaiatura minerale – che a tratti può ricordare un po’ la grafite e un po’ l’humus – sulla quale si dipana la grande varietà di spezie data dal lungo affinamento (18 mesi) in barrique nuove di media tostatura. Ecco quindi l’immancabile vaniglia, e poi la liquirizia, il caffè, l’anice stellato, un tocco di cioccolato…

Il sorso, come per gli aromi, è subito generoso, come una lunga, forte e calorosa stretta di mano. Ma poi, come a ricomporsi in una dimensione di eleganza, ecco subito apparire quel tocco di freschezza che lega tutte le componenti, sostenendole senza slabbrature o concessioni. In bocca Mossone è caldo, senza essere alcolico, morbido, sapido e con tannini assai fini e perfettamente integrati. L’acidità, che permette al vino una agilità che né la densità della materia né la ricchezza degli aromi avrebbero lasciato presagire, puntella l’intensità e la persistenza del sorso, in una struttura generale che si presenta sì complessa – di corpo – ma che sfugge la pesantezza. La finezza di Mossone è ancora di più percepibile in fondo di bocca: qui le sensazione gusto-olfattive (bellissime le molteplici percezioni speziate) continuano a vivere lungamente, accompagnate dalla morbidezza dei polialcoli, con apollinea pulizia e classica nettezza.

Le Marche in grande spolvero

Quando si parla di Marche e alta ristorazione, il pensiero del gourmet inevitabilmente percorre il litorale a volo d’uccello fino a posarsi su Senigallia, che della regione è tuttora l’incontrastato faro gastronomico.  Con il tempo, però, la scena si è estesa ben oltre la città della Rotonda. I “dioscuri” del luogo, del resto, hanno formato allievi su allievi, i quali hanno a loro volta contribuito ad ampliare l’offerta culinaria tanto a Nord quanto a Sud del Monte Conero.  In tale processo, il Piceno, forse penalizzato anche dai terremoti e dalle difficoltà conseguenti, si è dimostrato leggermente più pigro rispetto ad altre aree, ma sembra oggi aver recuperato il gap accumulato negli anni.

Curiosamente, in una riedizione – è la nostra speranza per il futuro – della scena senigalliese di un paio di decenni fa, la cittadina di Porto San Giorgio ha finito per ospitare le due nuove tavole più interessanti delle Marche meridionali. All’Arcade di Nikita Sergeev si è infatti aggiunto Retroscena, che Pierpaolo Ferracuti ha aperto nel 2018, al termine di un periodo di lavoro presso l’Osteria Francescana.

Da giugno 2020, lo chef nativo di San Benedetto del Tronto divide i fornelli e la conduzione del locale con Richard Abou Zaki. Venticinquenne, con due anni presso Le Gavroche e un triennio passato a fianco a Massimo Bottura in valigia, Abou Zaki ha portato a una cucina già assai valida ulteriore rigore tecnico e nuove idee gustative, permettendo allo stesso tempo a Ferracuti di sviluppare nuovi progetti come Opera, il ramen bar a lato di Retroscena, e il rilancio del Sombrero, lo chalet di famiglia nel vicino Lido di Fermo dove Pierpaolo aveva mosso i primi passi nel mondo gastronomico.

La concentrazione e la pulizia di una tavola promettente

I piatti del duo Abou Zaki/Ferracuti si distinguono per concentrazione e pulizia, quest’ultima davvero rimarchevole. Lungo tutto il menu degustazione non abbiamo riscontrato la presenza di alcun elemento di troppo rispetto allo stretto necessario, per una cucina che lavora in sottrazione ma, allo stesso tempo, insiste sempre su più fronti palatali, evitando tanto i piatti monodirezionali (solo acido; solo amaro etc) quanto, con istinto e una maturità impressionante, di spingere gli ingredienti oltre il loro potenziale gustativo. L’aggettivazione gustativa degli elementi è minima ma sempre individuabile e, per il momento, lo stile si tiene lontano da un ermetismo culinario che, a lungo termine, potrebbe essere una direzione interessante per la cucina di Retroscena.

La formidabile leggerezza della mano ai fornelli permette di muoversi con grazia fra preparazioni totalmente calate nel lungomare adriatico a passaggi dal tono classico, sulla carta persino opulenti, omaggianti l’entroterra non tanto in senso territoriale ma come luogo gustativo: il cervo, servito con torta al foie gras, ciliegie, pepe rosa e una salsa al bitter, regala così un momento davvero sublime che per nulla stride con l’altrettanto entusiasmante Un mare in estate, gioco di freddi proposto in apertura con polpo, capasanta e spigola.  Fenomenale per misura quanto per coraggio il monocromo di caviale, assai botturiano in una misura che travalica di molto il mero fatto cromatico, con l’accurato umami a sostituirsi in gran parte all’abbraccio gustativo del brodo tradizionale.

Al di là dei singoli piatti, però, teniamo a segnalare tanto la coerenza del percorso quanto i tempi perfetti di un menu perfettamente scandito ed esaurito, malgrado il numero di portate, in meno di due ore: annotazione d’obbligo, quest’ultima. per un aspetto che molti chef – soprattutto i più giovani – tendono a sottovalutare.

Audrey Croccel, moglie di Ferracuti, dirige un servizio di ottima empatia, con Luca Luciani appassionato narratore dei vini in degustazione, ben scelti e abbinati con cura malgrado un tono più convenzionale rispetto alla cucina. A nostro modo di vedere, il menu Rinascita è un appuntamento da non perdere per gli appassionati: ci sentiamo così di scommettere su una valutazione d’ingresso assai elevata, certi che Pierpaolo Ferracuti e Richard Abou Zaki sapranno mantenere o ulteriormente alzare l’asticella e confermarsi con i prossimi menù.

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