Al netto di doverose considerazioni riguardo al costo che comporta un’esperienza del genere non si può non valutare la “Vague d’or”, ristorante del Rèsidence de La Pinède, e il suo grande chef Arnaud Donckele, per quello che sono: una di quelle mete da raggiungere, possibilmente, almeno una volta nella vita con il fine di regalarsi emozioni indimenticabili.
Tutto, dal servizio di sala condotto da Thierry Di Tullio (probabilmente uno dei migliori al mondo), alla location au bord de mer, alla cucina, trova nella classe, nell’eleganza e nella finezza il minimo comune denominatore.
Soprattutto in cucina, poi, ed è ciò che a noi più preme, tutto è giocato in punta di fioretto.
Il percorso di crescita dello chef è stato oltremodo istruttivo e significativo.
Donckele infatti nasce, figlio di un pizzicagnolo, a Rouen in Normandia e passa anni da Michel Guerard, al Louis XV di Ducasse e Cerutti a Monaco e da Nomicos al tempo del Lasserre a Parigi, prima di trasferirsi definitivamente in costa azzurra in una zona di Saint Tropez distaccata dal congestionato e frenetico centro cittadino.
L’excursus professionale è importante per sottolineare ancora una volta, ovemai ce ne fosse bisogno, che anche i cuochi più talentuosi necessitano di solide basi e maestri che le sappiano inculcare.
A questo impianto così valido, dall’imprinting certamente classico, Donckele ha aggiunto una capacità tutta personale di operare con raffinato equilibrio e vivace freschezza, firme indelebili della sua cucina.
Altro pregio non da poco dello chef è l’abilità a coniugare felicemente elementi appartenenti a territori diversi come il Var, in primis, che ospita Saint Tropez, e in senso più ampio la Provenza e il Mediterraneo, operando un mirabile blend fra ingredienti e influssi differenti.
La perfetta sintesi di tutti questi componenti è la sua cucina, forse non clamorosamente azzardata, senz’altro, però, espressione di una levità e di un gusto straordinari.
Nel menù provato nulla è men che soddisfacente e curatissimo nei particolari: basti pensare a una variazione di pomodori che accompagna la leccia, tutti di diversa e adeguata acidità o alla “semplice” oliva ricostruita con acciuga affumicata e nappata da una gelatina al nero di seppia o, ancora, alle verdure selezionate per il pot au feu, tutte di qualità eccellente.
Se poi si va sui fondamentali, qui non ce n’è per nessuno: cotture da manuale, fritture dall’impalpabilità tutta giapponese, salse tirate senza indulgere in eccessiva grassezza, nuance dosate col bilancino definiscono un quadro di livello assoluto.
Persino un passaggio dalla golosità palesemente ostentata e apparentemente fuori contesto come gli ziti al tartufo e foie cela in sedicesimi i principi ispiratori della cucina di Donckele: salse alleggerite ma dal gusto intatto, proporzioni impeccabili, per non parlare della cottura perfettamente al dente del maccherone in un omaggio evidente a Jean-Louis Nomicos ma che chiaramente si riallaccia agli insegnamenti della cuisine minceur di Michel Guèrard.
Il pasto, ambientato in una cornice incantevole, scorre, così, sospeso in una dimensione separata dove gli affanni e le inquietudini appaiono lontani e indefiniti.
Mise en place.
Primo, scenografico, amuse bouche: Marshmallow con arachidi e rosmarino, oliva ricostruita con acciuga affumicata e gelatina al nero di seppia.
Tuile croccante alle alghe e sugo di crostacei.
Tempura di acciughe.
Grande salsa bèarnaise al pomodoro.
Calamaro e polpo in brodo al basilico thai, tartelletta al pomodoro ed erbe.
Selezione degli ottimi pani.
Servizio di burro al timo e olio.
Leccia appena grigliata, avocado e variazione di filetti di pomodoro confit. Grande salsa con bonito essiccato, Lambrusco ed erbe.
Scampo arrostito, verdure crude, dressing di carapace alla maggiorana e pomodoro, gocce di limone…
…gazpacho con le chele…
….ed eterea tempura
Particolare.
Ziti ripieni di tartufo estivo e foie gras, carciofi, nuvola di basilico, leggero pesto, salsa al tartufo. Momento massimamente goloso. Omaggio a Jean Louis Nomicos.
Branzino cotto in alghe, spinaci, caviale, nappata con squisita salsa di abalone.
La guancia con caviale, salicornia, polpa di granchio e nuvola di vervena.
Sorbetto al finocchio su granita di limone e timo con assenzio.
Faraona e aragosta servite con un pot au feu di verdure e un infuso squisito, in stile tè, dei due protagonisti con erbe. La foglia di spinaci cela, in un boccone da re, le interiora della faraona.
Convincente mix dessert formaggio:
Brousse du Rove, formaggio di capra, Yogurth marsigliese di Les Caillols, pera al vino, miele allo zafferano di La Mole (località alle porte di Saint Tropez).
Albicocca e mela verde…
…in solido con infuso di combava…
…e in forma di eccellente soufflé.
Petit fours con, in evidenza, una notevolissima tarte tropèzienne seguita da kumquat e arancia e tartelletta di cioccolato e vaniglia.
Deliziosa mousse di aloe vera e pompelmo a chiudere.
Gran Chenin bianco in purezza, ricco di personalità scelto da una carta dei vini che non brilla causa ricarichi proibitivi (a tratti folli) e con poca personalità sul versante Borgogna e Bordeaux.
Blanc & jaune….
Tramonto di lusso sul lusso….
Vague d’Or reloaded – Roberto Bentivegna
Siamo ripassati in questa oasi alle porte di Saint Tropez in un fine settembre di avvolgente tepore, quasi a farsi beffe di una estate 2014 che non ricorderemo certamente per il sole.
Una cena alla carta questa volta, per approfondire ancora meglio la conoscenza di questo trentaseienne della nuova cucina francese.
Il giudizio è stato solo confermato.
Incredibile il servizio guidato da Thierry Di Tullio, che sfidando ogni conformismo ha voluto con sé una squadra quasi tutta al femminile: uno dei migliori servizi di sala di tutto il panorama europeo.
Stupefacente il team di cucina, con il pastry chef Guillaume Gaudin su tutti, da sempre al fianco dello chef Donckele, pasticcere di cui si sentirà molto parlare in futuro: la sua millefoglie ai dieci agrumi è un vero capolavoro.
E poi la grande cucina di Arnauld Donckele, capace di dare una nuova lettura della cucina classica francese, rivestendola di freschezza e rendendola attuale con una semplicità disarmante.
Mediterraneo da scoprire e gustare in tutte le sue sfumature.
Piatti complessi, completi, volutamente lontani dal minimalismo imperante. Forse non sempre ancora completamente a segno, ma abbiamo chiaramente visto in lui le caratteristiche del fuoriclasse.
Nel segno della assoluta eccellenza.
Una eccellenza che non va ricercata negli abbinamenti inconsueti o nei contrasti sorprendenti, ma nella perfezione dei singoli dettagli, tale da rendere tutta l’opera memorabile.
Gamberoni del Mediterraneo
Sottile fette marinate nel cedro Mano di Buddha, corallo ghiacciato.
Medaglioni e ravioli vegetali in un brodo fatto con le teste e olive
La coda leggermente scottata in un carpaccio multicolore di pomodori
Giardino d’estate e scampi alla maggiorana
Scampi arrostiti, vegetali croccanti al cedro
Tempura
Salsa choron con buccia di limone e corallo
Pasta Zitone accompagnata da una supreme di pollo
Primo servizio: cotto lentamente nella sua vescica
Secondo servizio: cosce, ali, boccone del prete e punta di petto in un brodo infuso come un the.
Agnello in due servizi
Primo servizio: barone di agnello al timo selvatico, jus all’olio di argan, melanzane siciliane con pomodoro e marmellata di cipolle
Secondo servizio: piede, trippe, spalla, animella e rognone
Millefoglie di 10 agrumi leggermente mentolata
Cioccolato nero e lamponi del Var, alcuni al naturale e altri marinate nel cedro Mano di Budda.
Quando pensiamo a una grande capitale gastronomica, certamente Parigi sta nelle primissime posizioni. Perché Parigi non offre solamente una straordinaria offerta ristorativa: Parigi è anche botteghe di spezie, di formaggi, enoteche…E poi le vere perle per tutti gli amanti di zuccheri e affini: le pasticcerie.
Italia e Francia sono da sempre in contrapposizione su moltissimi aspetti e, in maniera anche goliardica, la gara al “chi lo fa meglio” è un leitmotiv del nostro rapporto con i cugini d’Oltralpe.
Probabilmente, se c’è un campo in cui i Francesi hanno da insegnare al mondo, questo è proprio la pasticceria. Non che in Italia manchino i grandissimi (Biasetto, Massari, Fabbri, Assenza e chi più ne ha più ne metta) ma il livello medio a Parigi è incredibilmente alto: in qualsiasi posto entriate, è molto difficile vi rifilino un dolce pessimo. Se poi puntiamo l’obiettivo verso i mostri sacri, allora il godimento sarà assoluto.
Da qualche anno anche i pasticceri giapponesi hanno aperto delle loro insegne a Parigi: la commistione tra scuola classica francese e sapori tipici giapponesi, dà forma a un connubio interessantissimo che già in Giappone abbiamo avuto modo di testare.
Ma il top si raggiunge con gli interpreti francesi, con quella generazione di pasticceri che è riuscita a svecchiare la maniera storica francese di intendere il dolce, diminuendo gli zuccheri e aumentando le concentrazioni dei sapori.
Mostri sacri come Jacques Genin, Philippe Conticini, Pierre Hermé, a cui si sono aggiunti e si stanno aggiungendo una lunga lista di nomi dalle capacità fuori dal comune: Claire Damon, Hugues Pouge o Carl Marletti solo per citarne alcuni.
Se poi anche un top chef come Jean François Piège decide di aprire la sua pasticceria, allora non ce n’è più per nessuno.
Un tour ad alto tasso glicemico da un capo all’altro del centro parigino.
E se è vero che l’amore per il gusto “dolce” sia l’effetto di un cordone ombelicale mai reciso con i sapori dell’infanzia, lasciateci tornare bambini, almeno in questo modo, almeno questa volta.
Des gâteaux et du pain
Cominciamo con la prima coppia della scena parigina: Claire Damon et David Granger.
Lei pasticcera: dagli esordi con Pierre Hermé nello storico Fauchon, passando dalle cucine del Bristol, fino al Plaza Athénée,
Lui fornaio: un maestro di impasti, lievitazioni, cotture.
I due si incontrano e decidono di dare vita a questa gioielleria del gusto.
Per una volta parliamo di pane e non di dolci, perché i prodotti di Granger fanno gridare al miracolo. E’ un pane straordinario, esposto sugli scaffali proprio con la stessa dignità dei più delicati gâteux: la spiccata nota acida dell’impasto, la crosta croccante e quasi caramellizzata dalla lunga cottura. E’ pane di personalità, fatto di amore e cura. Il consiglio è di farne larga scorta e portarvelo a casa. La boule de campagne dà dipendenza: farina biologica macinata a pietra, lievito madre, sale di Guérande. Tagliato a fette e messo in congelatore si conserva benissimo e potrete gustare a lungo questa meraviglia comodamente a casa vostra.
N.B. Croissant da primato
Hugo et Victor
Ancora una coppia, questa volta al maschile: Hugues Pouge, un passato da Pastry chef di Guy Savoy, e Sylvain Blanc, ex-direttore generale dei Magazzini Printemps. Ci sono loro dietro il nome “Hugo et Victor”, insegna nata nel 2010.
Cioccolato, pralinato e caramello sono i tre elementi ricorrenti nelle preparazioni. Gli altri si diversificano seguendo il ritmo delle stagioni. Si predilige un maggior grado zuccherino rispetto alla tendenza generale della nouvelle vague parigina.
Da non perdere le semisfere al cioccolato ripiene di caramello: decisamente sopra la media.
Pain de sucre
Altro giro, altra coppia. Nathalie Robert and Didier Mathray: galeotta fu la cucina di Pierre Gagnaire per il loro incontro (entrambi ci hanno lavorato a lungo).
E’ la pasticceria meno coreografica tra quelle top, di solito molto vicine all’aspetto di una gioielleria. Qui si bada decisamente alla sostanza, nell’esposizione così come nella pasticceria.
Ne sono un esempio i macarons: tra i migliori di tutto il globo terracqueo. Molto distanti dalla finezza ed eleganza delle creazioni di Hermé, questi sono grossi, panciuti, un po’ rustici forse ma una esplosione di gusto all’ennesima potenza. Buonissima anche l’interpretazione del babà: lievitazione favolosa e bagna da dosare a piacere; sul fondo una crema alla vaniglia di disarmante bontà.
Da segnalare la presenza di un piccolissimo tavolino per degustare in loco: non è facile trovarlo libero, ma è già qualcosa (la maggior parte delle pasticcerie ha solo la possibilità dell’asporto). A fianco c’è anche il negozio in “versione salata”, dove mangiare panini e lievitati di ottima qualità.
Gâteaux Thoumieux
Jean-François Piège non ha bisogno di presentazioni. Questa è la sua ultima creatura, una boutique-pasticceria aperta proprio davanti al Thoumieux con la collaborazione dello chef pâtissier Ludovic Chaussard. Fiori freschi, teche di cristallo che proteggono meraviglie tanto belle quanto buone.
Imperdibile il Paris-Brest, soave e mai stucchevole. Ottima anche la millefoglie, giusto un gradino sotto il top cittadino di Genin.
Dimensioni dei dolci un po’ più contenute come anche i prezzi, considerando città e quartiere. Un’altra piccola perla per i fortunati parigini.
INTERVALLO
Epices Roellinger
Non si vive di sola pasticceria. Oppure, volendo continuare a parlare di dolci, sappiamo bene tutti che il segreto di una grande crema è una grande vaniglia. Qui troverete tutto quel che vi serve e ancor di più.
Olivier Roellinger a Cancale ha segnato un’epoca con la sua cucina dalle mille spezie. Il suo ristorante tristellato ha da tempo chiuso i battenti, ma le sue spezie continuano a raggiungere quanti hanno amato il suo modo di cucinare. Le sue “poudres d’epices” sono capaci di resuscitare qualunque piatto.
Ci sono Vaniglie da ogni parte del mondo: sono conservate in una antica cantina di affinamento posizionata sotto il negozio di Rue Saint Anne (l’unica altra cave à vanilles è a casa sua, a Cancale).
Anche solo fare un passaggio qui per annusare quanto possa essere diversa una varietà del Madagascar da una del Messico è una eperienza didattica.
Per non parlare del pepe, della cannella, del cardamomo, del peperoncino: tantissime varietà e un mondo mai troppo esplorato.
Di Hiroki Yoshitake e del suo Sola (“cielo” in giapponese e non fregatura in romanesco) avevamo parlato già anni fa, individuandolo come una delle aperture più interessanti in una Parigi già in piena bistronomie.
Lo chef, dopo un lungo apprendistato in Giappone (suo maestro Hiroyuki Sakai, star televisiva come “iron chef”) è partito in giro per il mondo per arrivare finalmente in Francia, suo obiettivo originario. Qui fa il suo apprendistato in cucine prestigiose e stimolanti (Astrance, Ze Kitchen Galerie, l’ormai negletto alla stampa italiana Magnolias di Jean Chauvel, grande promessa di una decina di anni fa) prima di stabilirsi a Singapore.
Insoddisfatto dell’avventura del suo locale, non ha resistito alle lusinghe di Youlin Li, imprenditore franco-tunisino e sino-cambogiano al tempo (una fusion vivente) che aveva avuto modo di apprezzarne le doti in passato e che già aveva lanciato locali asiatici di successo nella Ville Lumière (Guilo-Guilo su tutti).
Il Sola è nato così, nei locali del vecchio Toustem della Darroze, riorganizzati mantenendo la sala superiore in uno stile tutto rustico “vecchia Parigi” (piuttosto incongruo con la cucina) e ammodernando quella inferiore in perfetto stile nipponico.
In questo contesto, lo chef propone la sua idea di cucina: una rilettura sapiente della grande cucina francese in una chiave leggera e arricchita dall’uso di presentazioni e ingredienti non necessariamente transalpini. Con esiti davvero notevoli per finezza, pulizia, nettezza dei sapori, in cui è facile ritrovare i paradigmi ispiratori (soprattutto Barbot e Ledeuil abilmente meticciati).
Cucina piacevolmente raffinata, dicevamo, proposta a prezzi formidabili (48 euro a pranzo per un menu di 4 portate più amuse-bouche e petit fours; 98 la sera per il menu più ricco), accompagnata da impeccabile carta dei tè (per noi un prezioso Gyokuro) o da una stimolante carta dei vini, molto ben pensata e prezzata in maniera introvabile a Parigi in locali di questo livello.
In un pranzo tutto notevole, le punte sono state la sogliola con declinazione di cavoli, dalla cottura millimetrica e una rilettura davvero indimenticabile del tiramisù (delle mille versioni provate in giro per il mondo, di una spanna la più bella e la più buona. Un grande applauso al pasticciere, Hironobu Fukano).
Non è il locale di cui si parla di più a Parigi: meglio così, trovare posto non è impossibile e ne vale davvero la pena.
Il tè, servito in bellissime tazze
Eclair con foie gras caramellato e crema dauphinoise. Perfetta la consistenza dell’éclair, ottimo l’insieme
Carpaccio di orata con finocchio, pompelmo e salsa al pompelmo. Pompelmo un po’ coprente, non esalta l’ottima qualità della materia prima
Raviolo di poulet de Bresse in brodo, con radicchio, rapa e tartufo nero. Quando la cucina “fusion” ha un senso.
Sogliola con declinazione di cavoli, piselli e salsa agli spinaci. Un grandissimo piatto, che non ci stupiremmo di gustare da Barbot
Piccione, petto e coscia con radicchio. Realizzazione impeccabile e bella presentazione (meno cruenta della moda attuale, ma bene così…)
Rilettura del tiramisù. Un esempio di grande pasticceria: bellissimo, contrasti di consistenze e temperature, leggerezza e zucchero in giusta quantità. Da applauso.
A circa tre chilometri dalla congestionatissima e ipergriffata Cannes, in prossimità dell’autostrada, il borgo di Le Cannet ospita Villa Archange, oasi di buon gusto e serenità.
All’ingresso, su un lato, c’è la graziosa veranda del “Le bistrot des anges”, la risorsa più semplice della scuderia Oger, nonché avamposto ormai d’ordinanza di ogni grande ristorante che si rispetti.
Sovrastante a essa, alla fine di un piccolo vialetto, troviamo il delizioso e silenzioso giardino della Villa Archange, ai cui tavoli esterni, nella bella stagione, sarà possibile rilassarsi unendo le gioie del palato a quelle del benessere derivante da un ambiente così confortevole.
Bruno Oger è stato il delfino di Georges Blanc e questo trascorso emerge nitidamente dallo stile adottato, chiaramente improntato alla grande cucina classica di cui il cuoco di Vonnas è grande interprete.
A un retaggio così importante lo chef ha apportato un tocco personale che conferisce interessanti tonalità eleganti e mediterranee, caratterizzando i piatti con raffinata leggerezza, cifra stilistica di questo ristorante.
La leggiadria quasi eterea delle commis addette ai tavoli, è il degno completamento di un cadre dove tranquillità e autorevolezza culinaria si fondono mirabilmente.
Se una grande tavola è tale anche per l’attenzione dedicata a tanti piccoli particolari, oltre che per la presenza di grandi piatti, qui ne troviamo conferma assoluta.
I pani, ad esempio, di bontà inenarrabile, rappresentano un attentato alle capacità gastriche di qualsiasi gourmet. La gelatina di pomodoro che avvolge l’aspic di astice è di per sé già golosamente ricca di note acide e speziate così come nella memoria rimane ancora il cappuccino di vin jeaune e scalogno di cui, senza esagerazione, si potrebbe abusare spensieratamente.
Ma è un fondo di cottura, nello specifico caso quello dello stinco di vitello, a stabilire l’esatto livello della cucina, mostrando in tutta evidenza quanta abilità e sapiente tecnica occorrono per tirare alla perfezione una solo apparentemente semplice e affascinante salsa.
Conseguenza di tale perizia sono anche le impeccabili cotture e le concentrazioni di sapori, la cui persistenza, intensa e appagante, è affidata a un utilizzo di grassi e spezie quanto mai misurato ed essenziale.
Niente è affidato al caso qui, ma tutto concorre a un’armonia che rende l’esperienza a lungo impressa nel ricordo.
I costi sono senz’altro proporzionali al valore del ristorante (anche se è presente un interessante menù a pranzo di 65 euro), come i ricarichi di una lista dei vini non molto accessibile né particolarmente ricca di produttori minori.
Mise en place.
Meravigliosi pani: baguette classica, al pomodoro e pistou, ai cereali, burro aromatizzato al limone. Che ve lo dico a fare…
Foie fritto, maccarello, millefoglie ai funghi, Creme Dubarry (vellutata di cavolfiore).
Zenzero e agrumi, chips di riso.
Insalata di polpa di granchio con seppia alla griglia. Qui c’è una nuance citrica in accompagnamento di gran classe.
Astice in gelatina e spuma di pomodoro su crema di piselli, olio del suo corallo.
Cappuccino di rane e vongole allo scalogno e vin jeaune.
Scampo, rapa, sedano e royale al dragoncello.
Rombo su royale di crostacei…
…accompagnato da squisito potagère de legumes e cannolicchi.
Granita al limone su marmellata di agrumi, un defaticante e adeguato intermezzo.
Stinco di vitello cotto 24 ore, patata schiacciata e divino fondo di cottura.
Tarte al cioccolato e guaranà di alta scuola con sorbetto al cacao e sciroppo di ciliegie.
Petits fours.
Ottimo interlocutore.
Sala interna.
Le bistrot des anges.
Giardino.
La storia dell’Hostellerie Jerôme si perde nella notte dei tempi, un po’ come il refettorio dei monaci cistercensi risalente al XIII secolo in cui è ospitato il ristorante.
Lo chef e patron Bruno Cirino insieme alla moglie Marion sono l’antologia dell’alta cucina provenzale. Il locale, infatti, è sempre stato un punto di riferimento per tutti i gourmet più incalliti, che varcando la frontiera di Ventimiglia possono assaporare la grandeur della sua cucina. (altro…)