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Friday Five #9


(Tris di tartare: tonno, ombrina e ricciola – Un piatto di Fabio Tammaro all’officina dei Sapori – Verona))

Nono appuntamento con il Friday Five! Continuate a mandarci le vostre segnalazioni: brevi, incisive, precise, nel puro stile Friday Five!
Scrivete all’indirizzo fridayfive@passionegourmet.it, vi invieremo le specifiche per la compilazione e il vostro pezzo sarà pubblicato nel Friday Five!

Officina dei Sapori

Classe 1985 e già un curriculum internazionale di tutto rispetto. In una città dove forse sarebbe più facile rivolgere il tiro verso turisti mordi e fuggi, proporre una selezione di pesce di altissima qualità non è una scelta facile, ma Fabio Tammaro e il suo staff si dimostrano determinati e competenti, sicuramente all’altezza dell’obiettivo che si propongono.
La ricerca della materia prima si spinge dalla vicina Chioggia fino ai mercati più grandi d’Italia o alla Bretagna per i coquillages. Niente pesce allevato o di incerta provenienza, completa tracciabilità di ogni ingrediente utilizzato.
Molto coreografico il tris di tartare servito su una pietra scura e lucidissima: tonno rosso, ombrina, ricciola, impeccabile il fritto, interessante la seppia confit cotta a bassa temperatura su ceci e olio del Garda, insospettabilmente equilibrata.
Aldilà del coraggio che accompagna sempre imprese di questo tipo, me ne vado con l’idea di una gestione professionale e di una cucina supportata da mani sicure, esperienza, scelta di ottime materie prime e qualche guizzo di fantasia.
(Cristiano “Gillo” Giliberti)

Via G.B. Moschini, 26 Verona
Tel: +39.045.913877
www.officinasapori.com

The Test Kitchen

Una delle migliori tavole dell’emisfero australe! Una cucina fusion di ottimo livello, con sprazzi di eccellenza, in una città che più caleidoscopica e multietnica non si può. Certo, siamo ancora entro il paradigma della golosità e di una cucina intesa come “servizio” che deve risultare gradito al cliente che paga (e non, avanguardisticamente, come espressione di uno chef che si emancipa dalla logica di mercato “offendendo” giocoforza gran parte del proprio stesso pubblico), ma qui c’è senz’altro equilibrio, capacità compositiva, gusto.
L’Africa sarà il continente a cui guarderà la cucina del futuro.
(Giovanni Lagnese e Valentina Nappi)

375 Albert Road, Woodstock, Città del Capo, Sudafrica
Tel:+27(0).21.4472337
www.thetestkitchen.co.za

Bleu Salento

Chiusa tempo fa l’avventura al Villino di Lecce, ritroviamo Francesco Tornese alla guida del suo nuovo locale all’interno del porto turistico di Gallipoli. Lo chef conosce bene la materia prima che il mare del Salento è in grado di fornire, ed è molto bravo a selezionarla. La cucina non si mostra però eccessivamente attenta a valorizzare gli ingredienti per cui, quando si esce dal seminato di crudi di alto livello e pesci al carrello in cotture semplici, i nobili prodotti finiscono per essere qualche volta coperti dagli altri elementi.
Il servizio si mostra inoltre eccessivamente distratto, svagato, poco attento anche a fondamentali come la presentazione dei pesci e la loro deliscatura, praticata lontano dallo sguardo dei clienti e in modo davvero deficitario. Peccato, perché i risultati potrebbero essere ben diversi.
(Carlo Cappelletti)

Lungomare Marconi 34, Gallipoli (LE)
Tel. +39.338.4425208
www.bleusalento.it

Romano

Come si fa a non andare da Romano quando si è a Viareggio? Chi ci viene per la prima volta non può che divertirsi passando da un frittino aereo e saporoso, gamberesse incluse, a un orologio di crudi di mare da far perdere la nozione del tempo, semplicemente conditi con un extravergine così che la freschezza del pescato con tutte le sue sfumature iodate sia assoluta protagonista. Chi lo conosce già , non può che rallegrarsi nel constatare che la passione e la competenza con cui Romano ricerca le materie prime sono ancora intatte, che la mano in cucina della moglie Franca non perde un colpo sia che si tratti di cavalli di battaglia come gli sparnocchi con i fagioli schiaccioni o i calamaretti farciti sia che “improvvisi” un gomitolo di tagliolini alle arselle, cremosi grazie a una mantecatura “a polso” impeccabile. Carta dei vini infinita, servizio sorridente e preciso capitanato dal figlio Roberto sono altri dettagli che fanno la differenza.
(Errica Tamani)

Via Mazzini, 120 – 55049 Viareggio
Tel. +39.0584.31382
www.romanoristorante.it

Ristorante Righi
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A pochi metri dall’ingresso del centro storico, sulla panoramica Piazza della Libertà, il ristorante Righi rappresenta il fiore all’occhiello della ristorazione sammarinese. Tra le proposte dello chef Luigi Sartini che spaziano dalla degustazione di carne a quella vegetariana passando per pesce e “territorio”, l’attenzione cade sul menù “Scoprendo la mia cucina”. Materie prime di assoluta qualità che purtroppo non sempre trovano il giusto equilibrio nei piatti. Nel carpaccio di ricciola con burrata la delicatezza del piatto è sovrastata dalla nota vegetale dei fin troppo abbondanti germogli di barbabietola. Al risotto con porri e triglia, eccessivo nella porzione, non bastano le gocce di aceto tradizionale per lasciare il segno sul palato. Decisamente meglio la dadolata di foie gras con porcini su salsa di ceci ed il piccione grigliato su salsa alla curcuma al quale, per la verità, poco aggiunge il cavolfiore di accompagnamento. Gradevole infine l’ananas alla vaniglia con gelato alle lenticchie e coulis di lamponi ma non basta per alzarsi da tavola soddisfatti.
(Giuseppe Malvetani)

Piazza della Libertà, 10, Repubblica di San Marino
Tel: 0549.991196
www.ristoranterighi.com


(Officina dei Sapori – Verona)

Benevenuti nella galassia Nobu, anche a Cape Town, ultima gemma della sua corona.
Matsuhisa è un imprenditore prima che uno chef. Come pochi altri cucinieri al mondo (pensiamo a Ramsay, a Ducasse, per altri versi al buon Jamie Oliver) è riuscito a creare un vero impero della ristorazione, estesosi nel giro di pochi anni a macchia d’olio, presente, ad oggi, con venticinque ristoranti in ben ventuno città, quasi un record.
Ma ciò che più conta è che il suo nome è sinonimo di cucina giapponese di buona qualità, ovunque nel mondo.
Nemo propheta in patria, però. Nobu ha fatto fortuna oltreoceano, dapprima lavorando per alcuni anni a Lima (evidenti sono le influenze di cucina peruviana nei suoi menu), poi trasferendosi in Alaska ed a Los Angeles, dove è stato consacrato sull’altare dei grandi chef.
Noi che delle creature di Nobu ne abbiamo visitate alcune, possiamo affermare che è riuscito a consolidare uno standard qualitativo accettabile, in alcuni casi buono (pensiamo alla Grande Mela), mai insufficiente.
Indubbiamente la diffusione capillare dei locali di Nobu ha i suoi risvolti negativi. Lui, globetrotter, non ha il dono dell’ubiquità e non riesce sempre a sovrintendere perfettamente alla gestione delle sue attività.
Può, quindi, accadere che il servizio sia distaccato, per non dire infastidito, o che qualche piatto esca dalla cucina senza le dovute accortezze.
La nostra esperienza sudafricana ha evidenziato tali pecche, ma anche che la selezione della materia prima è decisamente accurata.
La cucina di Matsuhisa non è giapponese tout court, ma notevoli influenze sudamericane ed orientali la pervadono, probabilmente il termine “fusion” è il più appropriato a descriverla; non potrebbe essere altrimenti per un cittadino del mondo.
Al piano terra del One&Only Waterfront, la sala open è ben arredata con legni scuri ed enormi lampadari, anche se è desolatamente vuota. Pochissimi i tavoli occupati. Ciò nonostante il personale di sala è riuscito a farci notare il suo disinteresse. Peccato.
La carta è dispersiva, un centinaio le preparazioni disponibili. Disorientati, con un maitre assai poco prodigo di consigli, decidiamo di puntare sull’omakase, lo “chef fai tu” in chiave nipponica.
Molte spezie, peperoncino a farla da padrone in un paio di portate, e grande freschezza, con scarso utilizzo di grassi.
Qualche spunto interessante come il white fish, verdure di stagione e piacevole “dressing” allo Champagne, o la “oyster ceviche”, ma ci saremmo aspettati di più dal sushi, servito a temperatura non corretta.
Un’esperienza tutto sommato soddisfacente, ma il rapporto spesa/felicità non è ottimale. Certo il nome si paga, ed i prezzi sono in linea con quelli dell’alta ristorazione locale.
E Nobu Cape Town non fa eccezione.

Edamame (fagioli di soia).

White fish, verdure crude, champagne dressing.

Ceviche di ostrica, tataki di yellowfin, branzino con salsa “Las Vegas”. Trittico dalle mille sfumature.

Sogliola fritta, aceto, salsa al peperoncino. Carni sode e saporite, peccato per il chilli, saturante.

Manzo, funghi shitake, foie gras, salsa alla soia. Preparazione piaciona che strizza l’occhio alla danarosa clientela che frequenta Nobu.

Sushi, o quel che rimane… la foto è riuscita ad immortalare solo lo yellowfin, la forchetta questa volta è stata più veloce. Scampo, capasanta, marlin e tonno completavano la composizione.

Sfera di cioccolato con gelato alla vaniglia, granola. Discreta chiusura dolce.

Cioccolata calda che fonde la sfera.

S’intravede il gelato.

Cape Town e la Table Mountain dal Waterfront.

La geografia dell’alta cucina sta cambiando.
Probabilmente solo 10/15 anni or sono sarebbe stato impensabile avere in Sudafrica, ed in particolare nella regione di Città del Capo, una così alta concentrazione di grandi ristoranti.
Ciò che più ci ha colpito della ristorazione di qualità è senza ombra di dubbio la grande commistione di tecniche ed ingredienti provenienti da ogni dove, un vero melting pot di cultura del cibo.
Il cursus storico sudafricano ha influito notevolmente sulla formazione dell’identità culinaria del Paese, fortemente differente nei vari strati sociali.
Checchè se ne dica, la differenza, soprattutto economica, tra etnie bianche (solo il 9% della popolazione) e nere, è ancora evidente, e ciò si riflette anche sul cibo, davvero basic sulle tavole della stragrande maggioranza dei sudafricani.
Tutt’altra musica al Greenhouse, il miglior ristorante del Sudafrica a parere della più seguita guida gastronomica locale.
Non possiamo, per ovvi motivi, avallare con cognizione di causa quest’affermazione, ma crediamo che, per la nostra limitata esperienza sul suolo nazionale, ben si possa collocare nelle primissime posizioni.
Peter Tempelhoff è cuoco di caratura internazionale, riconosciuta anche, per quanto possa valere, nella nota “classifica dell’acqua”, e lo dimostra sin dalle prime battute della nostra cena.
Mai una sbavatura, percorso degustativo lineare, con utilizzo di materie prime notevolissime, ed eccellenti cotture. Si ha la netta sensazione di trovarsi in una grande casa, dove tutto (o quasi) gira alla perfezione.
Anche il servizio è di gentilezza estrema (ma con qualche sbavatura), con una doverosa menzione per il giovanissimo sommelier, calato magistralmente nel suo ruolo e prodigo di preziosi consigli, utilissimi per orientarsi nel vasto panorama vitivinicolo sudafricano.
Certo, avere alle spalle il Cellars-Hohenort, un Relais&Chateaux di aristocratico fascino, aiuta non poco a bilanciare i costi ed i ricavi di un ristorante gourmet da soli 40 coperti (ed immaginiamo non sempre full) ed a proporre una cucina non semplice, anzi indubbiamente complessa, non per tutti i palati ma molto ben riuscita.
La sensazione è che Tempelhoff sia riuscito a carpire il meglio delle maggiori realtà gastronomiche mondiali, non piegandosi, però, all’imperante tendenza della sottrazione.
A noi la sua cucina è piaciuta tanto, piena di spunti interessanti, di elementi vegetali, di influenze orientali, e di materie prime locali, tutto al servizio di una tecnica invidiabile.
Gli ingredienti utilizzati sono tanti, ma la gestione dell’equilibrio tra le componenti acide, grasse e sapide è risultata sempre impeccabile.
Il costo, davvero vantaggioso se confrontato con la spesa (pressoché identica) che sosterrete nei turistici locali del Waterfront cittadino, invoglia ancor di più a tornare ed a godere dell’accogliente sala e dell’indimenticabile sapore del filetto di hartebeest.

Samoosa, con stufato di carne e salsa di soia in cui pucciarli. Eccellente interpretazione di un classico sudafricano.

Lollipop all’ananas e zenzero con bacon e formaggio. La lettura degli ingredienti può far storcere il naso, ma, credeteci, ne avremmo mangiati una dozzina.

Pane, molto buono, burro e sale nero di Cipro, verdurine croccanti

Il resto del nostro menù, dalle foto pessime e non pubblicabili causa illuminazione scarsa.
“Nicola Potato” con topinambur, remoulade di barbabietola, pere confit, legger fondue di formaggio (all’interno della cipolla). Giocato sulle consistenze e le note vegetali, molto bene la fondue a dare la spinta finale.

Yellowtail e ostriche della West Coast, panna cotta di mele e wasabi, noodles di saba, avocado, tempura di funghi Enoki. Piatto palatalmente complesso, ma notevole per il giusto dosaggio degli ingredienti.

Foie gras scottato, con granola (muesli glassato al miele), pastinaca e composta di cipolle. Magistrale interpretazione di un grande classico della cucina internazionale.

Tortellini di struzzo (tirati alla perfezione) nel loro consommé , purea di patate affumicate, tempura di sedano. Grande concentrazione di sapori.

Filetto di Hartebeest con fegato di springbok, patate, mais, gelée di uva muscadel rossa, purea di madumbi. Sapori ancestrali.

Variazione di anatra e cavolo. Sulle carni ci sanno fare in Sudafrica.

Bavarese al cocco, sorbetto di vaniglia e lime, gelatina di caipirinha. Fresco e concentrato, buon viatico per il reparto dolce.

Cheese cake al Camembert in due servizi: gelato all’ananas arrostita, biscotti melba ai pinoli, parmigiano, ananas candita

Secondo servizio: cheese cake al Camembert con friabili tegole. Dessert sicuramente goloso, grasso, ma ben bilanciato dall’acidità della frutta.

Piccola pasticceria, con particolare menzione per i torroncini.

Sala

Murales all’esterno

Un’esperienza travolgente.
Così definiremmo la nostra cena al The Test Kitchen di Cape Town.
Luke Dale Roberts, una celebrità in Sudafrica, ha da un paio di anni abbandonato La Colombe, per trasferirsi all’interno dell’Old Biscuit Mill, complesso architettonico rivalutato da una convincente ristrutturazione, teatro di manifestazioni, spettacoli e sede di negozietti etnici.
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Questa recensione aggiorna la precedente  valutazione che trovate qui

Recensione ristorante.

Nel 2009 Roberto Bentivegna descriveva così la sua esperienza. Interessante e stimolante. Quest’anno torniamo, ben disposti dal tam tam gourmet del nostro caro amico Roberto, e proviamo a cambiare le regole del gioco: non scegliamo il menù degustazione ma peschiamo, a turno, dalla carta. Il risultato? Molto meno confortante di quanto Roberto racconta. Sarà stato il viaggio di nozze, caro Roberto, che ha reso idilliaca anche questa normale ed anonima (per noi) esperienza ? Ma va la … come dubitare del Robertone nostro. E difatti e’ semplicemente successo che lo chef, pluri-decorato, se n’è andato in altri lidi, aprendo la sua boutique in centro a Cape Town. Noi invece, due allegre famigliole con figli al seguito, abbiamo deciso di dare fiducia a chi ha sostituito lo chef, provando il locale lo stesso. E ci siamo comunque divertiti, anche se per noi il Rust en Vrede ha una marcia in più rispetto a La Colombe, oggi come oggi. (altro…)