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Torre del Saracino

Gennaro Esposito è grande uomo e chef

La sua cucina “retro innovativa” è matura, un invito a lasciarsi coccolare dalla migliore tradizione napoletana proiettati verso una dimensione culinaria più moderna e contemporanea.

Vico Equense è Gennaro Esposito, Gennaro Esposito è Vico Equense. Il legame viscerale dello chef con la sua terra ha radici antiche e va indietro al 1992, quando, a Seiano, un giovanissimo Gennaro apre con non pochi sacrifici il suo ristorante credendo fortemente in un progetto di vita: fare grande la sua cittadina. Festa a Vico è la naturale evoluzione del Gennarino-pensiero: una grande intuizione di sedici anni fa, un’occasione d’incontro di tanti amici, tantissimi chef stellati ed emergenti, artigiani del gusto, nonché un aiuto concreto a sostegno di progetti benefici.

Gennarino è uomo grande: un generoso, un buono, “uno di cuore”, si direbbe al Sud, ma anche e soprattutto un grande chef: una gavetta fatta di tanti sacrifici che trova compimento in una location fantastica sul mare della costiera sorrentina e in una filosofia di cucina ormai matura e definita: retrò quando guarda alla cucina tradizionale napoletana e a ricette e piatti di un tempo, innovativa e moderna quando le contaminazioni donano un nuovo equilibrio al piatto, le cotture alleggeriscono le preparazioni, l’eleganza definisce la presentazione.

La Torre del Saracino suscita, fin da subito, un ventaglio di emozioni: arrivati al porticciolo di Marina d’Aequa, si erge, a memoria delle scorribande saracene, la torre di avvistamento di Capo Rivo del VII° secolo d.C. La storia, anche in questo caso, è integrata in un quadro di insieme rinnovato: si accede al ristorante dalla torre, si passa per la magnifica cantina scavata nella roccia che ospita tantissime etichette italiane e internazionali, e si giunge in una sala bianca, elegante, con bellissime vetrate che danno sul mare e sul golfo di Napoli, con il Vesuvio a fare da sfondo.

A proposito di scenografia, diciamo subito che il servizio di sala, qui, ha pochi eguali in Italia. Ciro, Vincenzo e Gianni hanno la sala nel DNA: discreti, garbati e precisi all’inverosimile, ma al tempo stesso portatori sani di buon umore e sorriso, naturalmente portati all’empatia, al racconto del piatto come fosse una loro creatura, alla risposta scherzosa per alleggerire il servizio.

In otto piatti, la storia di un territorio e di uno chef

Un percorso ricco di colori vivi e profumi, una giostra per il palato, una cucina di mare autentica e deliziosa. L’apertura è affidata ad un aperitivo servito nella torre: tra gli amuse-bouche spiccano una quasi “classica” e golosa Crocché napoletana con patate e stocafisso, crema di capperi e olive e un Panino cotto al vapore con coniglio all’ischitana e scarola maritata. Tre piatti ci introducono alla filosofia di Gennarino: mare e territorio, materie prime comuni, piatti con una base tradizionalmente sapida che scaldano il cuore. Le alici, fichi bianchi del Cilento, salsa verde e noci sono un invito a provare i diversi accostamenti: diverte il crunchy della lisca fritta. Il fagottino di pomodoro del piennolo, seppia, inchiostro ed emulsione del suo fegato ha cuore caldo e una delicata dolcezza, ben equilibrata dagli altri elementi del piatto. La Triglia fritta, non fritta è un gioco di consistenze, ben riuscito anche grazie al contributo di una superba trippa di baccalà. Il Risotto anni ’80-’90, coi frutti di mare e il finocchietto, rappresenta invece una sfida personale dello chef alla diffusa usanza nazionale di mortificare due grandi classici: il risotto ai frutti di mare e quello allo champagne, qui combinati in un’unica portata, alquanto audace! Quindi le Fettuccelle con ragù di anguilla, pesto di prezzemolo e pinoli tostati, un piatto bellissimo (supporto compreso!): equilibrato, nato “grasso”, ma alleggerito da evidenti contaminazioni orientali. Un elegante Filetto di lucerna, zuppetta di scampi, mandarino e zafferano chiude la parte di mare del menu e introduce, anche grazie al contributo dei funghi, la successiva portata, che guarda più al lato montagna della costiera: la variazione di maialino nero, involtino di verza, papaccelle e salsa di senape.

Da questo momento in poi entra in scena Carmine di Donna, pastry chef di Torre del Saracino, maestro pasticcere di grande esperienza, appassionato di lievitati, fine ricercatore di gusto. Il pre-dessert sorprende perché protagonista è il locale Provolone del Monaco accompagnato da una crème brûlé di cedro e liquirizia, noci e fonduta di provolone stesso: un dolce – salato che prepara il palato ai dessert veri e propri. Degno di nota è il Mango confit con soffice al finocchietto, spuma di cocco e gelato al curry: sapori d’oriente e freschezza dei paesi tropicali in un delizioso dessert. La chiusura è affidata alla migliore tradizione napoletana con una egregia pastiera e l’incursione meneghina di un goloso panettone.

Ancora dubbi, o Gennarino è entrato anche nel vostro cuore?

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All’ingresso della Penisola Sorrentina, lontano dai clamori della folla, la conferma di un approdo sicuro

Nella Penisola Sorrentina, ma lontano dalle mete turistiche più gettonate, poco fuori dall’abitato di Vico Equense sulla strada che porta al Monte Faito, si trova il piccolo locale portato al successo dal vulcanico Peppe Guida. Un cuoco autodidatta che, con  duro lavoro, determinazione, competenza e grandi capacità ha saputo negli anni trasformare il suo piccolo locale – aperto nel cortile della casa di famiglia nel 1994 come pizzeria e rosticceria – in un luogo di culto. Come? Coniugando una perfetta riproduzione delle ricette della tradizione campana – in particolare napoletana – con preparazioni di carattere più moderno ricche di abbinamenti originali e stimolanti.

Al centro di tutto, le fantastiche materie prime di una zona prodiga di eccellenze, delle quali Guida è un grandissimo conoscitore, cultore e attentissimo selezionatore: carni, pesci, formaggi e, soprattutto, verdure e ortaggi in larga parte provenienti dall’orto di famiglia come nell’inarrivabile giardiniera nel tonno appena scottato e maionese alle alghe.

Dal ragù alla genovese ai fritti, passando per il tortano e i polipetti affogati e fino alla pastiera e ai babà la sua cucina è imperniata sulla grande napoletanità a tavola: piatti famigliari e domestici per la pur cospicua parte di clientela autoctona del ristorante. Ma Guida non gioca solo in casa e, partendo dal presupposto di materia e tecnica impeccabili, dà vita a interpretazioni  equilibrate, che sanno andare all’essenza  con squisita eleganza di fondo, complice un eccellente palato che gli fa trarre il meglio anche da abbinamenti inusuali.

Un ristorante custode della tradizione, ma anche officina gastronomica

Negli ultimi tempi, poi, va registrata la magistrale interpretazione di grandi primi piatti: ne sono un esempio gli Spaghettini all’acqua di limone, olio e Provolone del Monaco: pochissimi ingredienti dosati alla perfezione per un piatto che, benché di esecuzione tutt’altro che facile, abbiamo trovato da applauso: tanto amido, cremosità spinta, grande consistenza e gusti decisi che si ritrovano anche negli Spaghetti, acciughe, peperone dolce e pecorino.

Ora, tributati allo chef tutti i meriti del caso, ci tocca di rilevare che, forse nell’ultimo periodo, la cucina di Peppe Guida sembra aver trovato una serenità che prima non aveva e che la spoglia, forse, di quella tensione creativa che invece si respirava fino a due anni fa. Lo slancio c’è ma è più misurato, più contenuto, come se il buon Guida dopo aver tanto faticosamente pedalato per raggiungere la meta stia ora godendo dei frutti del suo, meritatissimo, successo.

E noi con lui!

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La cucina di Cristian Torsiello approda in un albergo a pochi passi da Paestum

Quello di Cristian Torsiello è un nome noto agli appassionati. Per anni nel suo piccolo e nascosto ristorante, il primo mai aperto nella città di Valva, nell’alta Valle del Sele, ha proposto la sua idea di cucina moderna di territorio, mettendosi in mostra come uno dei più talentuosi e promettenti giovani cuochi campani. Quest’anno, Torsiello ha abbandonato la città natìa e si è trasferito, con la sua Osteria Arbustico, presso l’Hotel Royal Paestum nel cuore di Capaccio. Così come il suo maestro Niko Romito, ha un grande rispetto per la materia prima e una notevole capacità di estrarre dagli ingredienti il massimo in termini di gusto. Con il passare degli anni, la sua cucina è andata progressivamente perdendo il legame forte con il territorio, ma è cresciuta in termini di eleganza, superando qualsiasi residuo di rusticità. I piatti ci sono sembrati centrati e leggeri, fatta eccezione per l’astice, sovrastato dall’intensità degli altri ingredienti, e per la scelta singolare di presentare tra gli antipasti una portata impegnativa come una quaglia accompagnata da uno zabaione all’aceto.

Cotture centrate, preparazioni armoniose, gusti evidenti

La sua cucina, ormai nel pieno della maturità, si dimostra capace di giocare con ogni sfumatura di gusto e di calibrare perfettamente le componenti aromatiche dei piatti. Ne sono un esempio i primi, fra i quali abbiamo apprezzato gli essenziali ed eleganti Spaghettini allo zafferano – da manuale! – e un risotto, nel quale bisogna sottolineare il sapiente utilizzo di un ingrediente non semplice come la sarda affumicata che, senza prevaricare, arricchisce in maniera quasi sussurrata lo spettro aromatico del piatto.
Niente pre-dessert, ma un ottimo dessert, fresco, ben concepito, e che regala molto in termini di gusto senza appesantire. Petits fours appena accennati, e un piacevolissimo grappolo d’uva. In sala, il fratello minore dello chef, Tomas Torsiello, firma una carta dei vini a prevalenza territoriale, non estesissima, che si fa apprezzare per i ricarichi non eccessivi. Anche nella nuova veste, l’Osteria Arbustico ci sembra mantenere notevoli elementi di interesse, grazie ad un giovane cuoco, ormai professionalmente maturo, che conferma di possedere una buona tecnica e uno spiccato senso del gusto. La votazione, per ora arrotondata per difetto, fa presagire un traguardo prossimo alla portata del luogo e dello chef.

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Alle porte dell’Irpinia un inno alla cucina di territorio in chiave giovane e moderna

Giovanni Arvonio, cuoco irpino poco più che trentenne della Taberna del Principe, rientra a pieno titolo tra i protagonisti della nouvelle vague della cucina campana. Una schiera di giovani e coraggiosi cuochi campani che, piuttosto che emigrare nelle grandi città del Nord o all’estero, ha scelto di restare a casa propria e di proporre una cucina diversa.
Diversa da quella che si trova abitualmente nella zona tanto nella sostanza quanto nella forma: difficile a causa di una clientela spesso avvezza alle “abbuffate a basso costo” e che va, quindi, introdotta ad una ristorazione di qualità.
La Taberna del Principe, a poche centinaia di metri dall’uscita Baiano dell’autostrada Napoli-Bari, è un ristorantino (solo 26 i coperti) simpatico e di buon gusto in cui si respira un’aria di entusiasmo giovanile. Il locale raccolto e curato è stato da poco rinnovato e l’ambiente, in cui prevalgono i toni scuri, trasmette immediatamente una sensazione di calore.
Il servizio è attento, veloce e preciso, la carta dei vini – piuttosto ridotta per la verità – è su tablet e viene raccontata da un competente e appassionato sommelier: Elia Casale.

Una cucina diretta e immediata, irpina e, più in generale, campana di terra

Il cuoco classe ’86, diplomato all’ALMA di Colorno ha conseguito un importante stage formativo presso le cucine della famiglia Fischetti all’Oasis Sapori Antichi di Vallesaccarda.
Ora, nel suo ristorante, propone una cucina irpina e campana di terra rivisitata in chiave attuale secondo la sua personale visione in cui, fra spunti interessanti e una buona padronanza delle tecniche, si scorgono ancora alcune imperfezioni.

La Tartare di scottona è eccessivamente ricca di ingredienti e sapori che confondono il palato e non permettono di apprezzare fino in fondo la bontà della carne (peraltro di ottima qualità), mentre la reinterpretazione della Parmigiana, fredda e con la melanzana in spuma, ci è sembrata essere più adatta per un amuse-bouche piuttosto che per una portata vera e propria.

Buono il risotto, eseguito perfettamente seppur un po’ monocorde, mentre una nota di merito va ai pre-dessert e  ai dessert, tutti di buona fattura.
Ci si alza contenti e leggeri, anche dopo il conto che risulta del tutto onesto.
Una tavola da provare, una cucina interessante, fortemente identitaria e capace di raccontare in chiave moderna il territorio anche se, per il definitivo salto di qualità, che a nostro giudizio è nelle corde dello chef, manca ancora qualcosa.

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Tradizione e innovazione convivono, passando attraverso tre generazioni, in un luogo cult campano

Ernesto Iaccarino ha saputo plasmare l’ennesima storia di successo del Don Alfonso 1890, costruendo nel solco della tradizione una sua impronta personale e stilisticamente originale. È interessante vedere come fra il tripudio di piatti della tradizione si insinui qualche piccola, e anche più importante, provocazione moderna. Tutto quanto è frutto di talento, sensibilità, ricerca e viaggi; quelli compiuti da Ernesto in tutto il mondo per curare le consulenze di un’azienda oramai multinazionale del gusto. Crediamo di non sbagliare dicendo che, assieme ai grandi potenti francesi, la famiglia Iaccarino sia l’unica a vantare ristoranti in ognuno dei 5 continenti del globo. Un bel successo, davvero.

I grandi piatti della tradizione di questa famiglia, che ha segnato la storia della cucina italiana e non solo, sono ancora lì a far bella mostra di sé, inossidabili nel tempo. Come una grande scarpa di Berluti o un vestito di Chanel non tramonteranno mai, anzi, ma continueranno ad appassionare fiumi di clienti che passano da Sant’Agata sui Due Golfi nel desiderio continuo di poterli trovare e degustare.

In questo tripudio di ospitalità come non ricordare una delle donne più affascinanti e profondamente importanti dell’enogastronomia, l’immensa Livia Iaccarino? Sempre lì, presente, orgogliosa dei suoi ragazzi, Mario ed Ernesto, dispensatrice di attenzioni, con una passione infinita ed instancabile. Il vero gioiello di Sant’Agata sui due Golfi.

Origini salde e tradizione, ma con un occhio verso il futuro

Il Don Alfonso 1890 è un luogo d’elezione che affianca ad un costante fully booked con fiumi di stranieri che inondano le sue splendide sale, una cucina tutt’altro che ferma ed immobile. Una cucina fatta di sussurri eleganti, molto femminile nel senso più nobile del termine, e che ci ha sorpreso per spunti di originalità e carattere davvero unici. Forse, l’unico appunto che potremmo fargli è che manca lievemente di lucentezza, freschezza visiva, e che si insinua una lieve ossidazione d’impatto. Ma sono virgole, quasi impercettibili, di fronte alle Tagliatelle di rosa canina con gelato di anguilla e caviale, un piatto di personalità e gusto davvero unici, o all’interpretazione del ceviche, un tripudio di ingredienti centrati e millimetricamente bilanciati. Ottimi e super classici i dolci, che gioverebbero di qualche inserimento moderno maggiore, a fianco della decantata tradizione.

Un luogo della vita e per la vita, un luogo magico: il Don Alfonso 1890.

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