Passione Gourmet Bologna Archivi - Pagina 2 di 7 - Passione Gourmet

Posto Ristoro

Un posto per sentirsi altrove

Un ristoro non solo per il palato ma anche per lo spirito, giacché questo Posto Ristoro si prefigge di offrire riparo dalle convenzioni e, soprattutto, dalla retorica di genere sebbene questa sia, a tutti gli effetti, un’altra storia. E difatti l’ostessa e patron Eleonora Tadolini, Nora per gli amici, prima ancora di vestire i panni della persona che è oggi è anche indefessa gourmet e, come tale, vanta un corollario di piatti feticcio come il piccione che, come vedremo, è l’animale guida di questa storia. Ma Posto Ristoro vanta pure un’altra non trascurabile peculiarità: pur trovandosi nella provincia bolognese, in quel di Castenaso, l’ambiente è così à la page da dare l’illusione di trovarsi altrove e, precisamente, nel cuore di Londra prima ancora che a Milano.

E difatti, ancor più della sala con l’eleganza informale del suo blu di Klein, è il menù a suggerire che il modello, qui, viene dal mondo anglosassone: a magnificarlo, una certa latitanza dei primi piatti e poco importa se ci troviamo quasi nell’epicentro della terra delle sfogline. Qui non troverete né lasagne, né tagliatelle, né tortellini, bensì una cucina che riesce nell’impresa di fare della marginalità il centro, non solo da un punto di vista ideologico ma anche di costumi se è vero, com’è vero, che proprio qui, in quel di Castenaso, abbiamo concluso la cena con uno dei migliori Gin Tonic mai assaggiati. Ma cominciamo dall’inizio.

Il gusto di rompere i confini

Tre menù costituiscono le tre direttrici portanti ed esaudiscono, volendo, anche le possibilità delle proposte alla carta, visto che si può attingere liberamente da tutti e tre nel corso della stessa cena. Si tratta, del resto, di menù antipodoci giacché la carne, qui solo di selvaggina, trova un fiero contraltare nel menù vegetariano, con sconfinamenti anche vegani. A metà tra i due mondi c’è, però, anche un menù interamente dedicato al pesce. Pizzichiamo dunque da questi tre mondi con la disinvoltura con cui Nora si aggira tra i tavoli. Il “Benvenuto delle ragazze” è rappresentato da un trittico di entré che, per stratificazione e concentrazioni di gusto, rappresenta il presagio perfetto di quanto accadrà, di lì a poco, nel piatto, e precisamente nei due antipasti che rappresentano, ciascuno a modo suo, la cifra stilistica di Posto Ristoro, e questo sebbene non tutti i piatti vantino lo stesso livello di definizione.

Dolmadakia è un poemetto pastorale capace di traghettare immediatamente nella terra di Teocrito, combinando tra loro elementi di facile decodifica e accostamento come la bieta, lo yogurt, la robiola di capra e il limone fermentato. Si cambia completamente registro, e velleità, con Porcino, porcinae, porcinam: piatto ambiziosissimo nonché di difficile collocazione, tanto imponenti sono sia la carica gustativa che quella texturale. Il fungo, in varie consistenze, è incalzato da una bisque molto concentrata in cui il cioccolato bianco va a mimare e incalzare le carni della polposa mazzancolla marinata, creando una sovrapposizione ton sur ton di note dolci, marittime e boschive. Difficile, s’è detto, tanto in termini di collocazione – il dolce prevarica – quanto di decodifica, eppure proprio in questo piatto, oltre che in tutti i secondi, sussiste, crediamo, la chiave espressiva più calzante di questa cucina che appare tanto cosmopolita quanto solidamente attaccata alle sue radici classiche. Una sintassi culinaria confortante e straniante al tempo stesso che si corona, ça va sans dire, nel Piccione col suo fondo bruno alla salsa agro-piccante cinese e l’involtino primavera con le sue interiora, mentre non raggiunge lo stesso livello, né tecnico né lirico, nella Pezzogna con verdure fermentate, dove la fermentazione prevarica le carni, delicate e soffici, della pezzogna. Un equilibrio presto ritrovato, ed esaltato per precisione esecutiva, nel bel Babà alla Tequila dalla consistenza filante e leggerissima.

I prezzi – correttissimi – e la carta dei vini, divertente oltre che divertita, oltre al succitato Gin Tonic, fanno il resto rafforzando complessivamente un’esperienza gastronomica originale e promettente.

La Galleria Fotografica:

Make Bologna great again!

Bologna la dotta, la grassa, la rossa, la turrita. Che la si veda nelle sue molteplici sfaccettature la città dei portici trova nel suo Oltre l’ennesima sintesi, targata Daniele Bendanti e Lorenzo Costa. Atmosfera cosmopolita, con poltrone avvolgenti a preludio di una carta cocktail/vino davvero stuzzicante. Un profondo lavoro sul bere miscelato a cura del modenese Nico Salvatori, che contamina con argute incursioni nostrane i grandi classici del mondo della mixology. Il tutto coadiuvato da una sala che marcia precisa e con una certa disinvoltura.

Lo avevamo già visto nella nostra prima visita, come a pensare che fosse solo un fenomeno del momento quella tipologia di avventori fuori dalla cerchia cittadina, anzi nazionale! Una clientela che senza troppi panegirici sconfina di gran lunga da quella italiana, confermando nel sold-out serale, il traguardo raggiunto. Sembra che siano andati, appunto, Oltre, con una fama che precede il locale, punto di riferimento anche iniziatico per ragù, tagliatelle e zuppa inglese.

Intorno al nostro tavolo, diverse lingue commentano il menu, a fumetti, interrogando la sala su che cosa siano balanzoni, garganelli o cotolette alla petroniana. La risposta è unica e non arriva dalla comprensione linguistica bensì dalla mimica facciale, autentico denominatore comune del godimento che scaturisce dai piatti serviti. Il tutto è saldamente ancorato alla tradizione cittadina, che ha fatto di questa città uno dei sancta sanctorum italiani del gusto e, va detto, della sana caloria. Menzione speciale per due piatti nella sequenza “regionale”: il ramen all’emiliana con la caratteristica callosità del tagliolino all’uovo, qui in veste di noodles e il tipico uova nitamago, marinato nell’aceto balsamico tradizionale, e la cotoletta alla bolognese in versione autentica e, quindi, dannatamente golosa grazie al tocco finale di cottura nel brodo.

Due nei, il primo nell’acustica, da migliorare considerando la capienza del locale quasi sempre a pieno regime, la seconda è una certa reiterazione gustativa e di alcuni ingredienti, se viene intrapreso il percorso di degustazione. Confermiamo dunque la valutazione, lasciando presagire però quel salto definitivo che possa consacrare Oltre, oltre sé stesso, non solo per i turisti, dunque, ma anche coloro che questa città la abitano, la vivono e la sentono.

La Galleria Fotografica:

Un’ottima izakaya in bolognina

Yuzuya è un progetto che, sin dall’apertura, assorbe buona parte della nostra attenzione. Non solo per le piccole, semplici ma curatissime preparazioni ma anche perché, dalla stradina in cui risiede, via Nicola dall’Arca, a due passi dalla stazione dell’alta velocità, apre una finestra appassionata oltre che autentica sul Giappone contemporaneo, che da luglio 2016 prende vita tra le mani di Tsuruko Arai e Takako Kawano.

Una storia, la loro, tutta imperniata sullo Washoku, l’arte culinaria autoctona del Paese, decretata nel 2013 Patrimonio Intangibile dell’Umanità. Così può capitare che la proposta sia cucita attorno alle feste nazionali o in ossequio a ricorrenze come l’hinamatsuri, la festa delle bambole (o delle bambine) cui è stato dedicato uno divertente box gremito di un abbondante chirashi zushi e una moltitudine di hosomaki misti.

Quanto al sushi, qui è d’uopo un’avvertenza che, del resto, campeggia già nel sito del ristorante: questo, infatti, rappresenta solo una minima parte del vastissimo panorama culinario giapponese: “nella sua forma attuale il sushi – ci spiegano –  compare soltanto in epoca moderna a Edo (l’attuale Tokyo) e viene, da allora, consumato prevalentemente fuori casa, non rientrando nella quotidianità di famiglia. Un buon sushi richiede elevata qualità della materia prima, grande attenzione nella realizzazione e tempi adeguati per preparare i pezzi che andranno a guarnire il riso – continuano – Per questi motivi il nostro menu comprenderà certamente sushi, ma lo proporrà soltanto quando gli si potrà dedicare la giusta attenzione.

Niente sushi, ma molto di più

Niente sushi, dunque, e men che meno a domicilio, ma degli ottimi makizushi dove il salmone si combina con la frittata dolce e una foglia croccante di cuore di lattuga, che ordiniamo, fatte le dovute premesse, anche nella versione con gamberi cotti, avocado e insalata e assieme al bento: ovvero il vassoio che mutua il nome alla caratteristica scatola con coperchio – qui di plastica (sic!) – tradizionalmente di legno laccato e divisa in scomparti per ciascun boccone.

E dove spicca, senz’altro, il pollo fritto che, in effetti, ha un’esegesi più che domestica, essendo questa ricetta quella della madre di Tsuruku: splendida la croccantezza e la frittura, saporita grazie alla marinatura di sake, salsa di soia, zenzero, aglio e pepe. Il condimento? Maionese e salsa Tonkatsu, giusto per stare leggeri.

La Galleria Fotografica:

A Villa Aretusi, la vivace cucina d’autore di Alessandro Panichi

Al piano superiore della villa che ospita anche la trattoria, al pianterreno, da nove anni Alessandro Panichi affina e combina tra loro estro e tecnica. Classe 1978, con esperienze da Gualtiero Marchesi, Paolo Lopriore e Silvio Salmoiraghi, negli anni lo chef di Sarzana ha sviluppato una sua propria  identità, sempre in limine tra sperimentazione e classicismo, irrequietezza e comfort.

Costantemente teso tra questi due poli, l’esperienza, tutta in battere e levare, dimostra quanto lo chef sia il primo a interrogarsi sulla contemporaneità, culinaria e non, nonché su se stesso: un’indagine perenne che si riflette in una cucina che non s’è mai adagiata e che forse proprio per questo può sembrare, benché solo a tratti, anche interlocutoria. È il prezzo che pagano gli spiriti liberi.

Così, nel menù non mancano certo vertiginose accelerazioni, giocate sull’amaricante, sulle acidità e sulle fermentazioni, né  virtuosismi realizzati con accostamenti insoliti come accade nello stimolante scampo con gelato alle noci, salsa al topinambur e tartufo bianco. Medesima concentrazione anche nella tartare di cervo e midollo al caffè Borghetti, che ci è parsa divertente, divertita, e pure intellettuale. Credevamo sarebbe stato più coraggioso, invece, lo spaghetto dedicato a Scabin, che a dispetto del nome celava invece un registro morbido e rassicurante, di cui certamente lodiamo l’esecuzione, rifinita a tavola secondo l’arte del servizio alla lampada.

Una menzione a parte va poi riservata ai dolci, dove è soprattutto la continuità stilistica a colpire il palato  più edotto.

La sala, molto bella e ariosa, consta di soli cinque tavoli: tavoli tondi, grandi, americani, vestiti di tutto punto di tessuti preziosi e distanti, tra loro, almeno due metri. Questo è il regno dell’invisibile eppur onnipresente Giuseppe Sportelli, maître e sommelier di questa storia, capace di premure sincere e di gesti d’antan che ricordano le grandi sale del passato.

La galleria fotografica:

Una cucina rural-chic nelle campagne bolognesi

Massimiliano Poggi è parte integrante della storia moderna della cucina bolognese. Da qualche anno ha deciso di spostare con immutato successo il suo domicilio principale dalla città alla provincia, scelta “tranchant” come quella di inserire il proprio nome e cognome nell’insegna del nuovo indirizzo, manifesto della volontà di dar vita a una cucina autoriale e identitaria. Non troppo mediatico ma tanto empatico, Massimiliano Poggi entra subito in sintonia con il commensale grazie alla sua idea di cucina rurale e ruspante, che non disdegna sprazzi innovativi e ludici, a tratti sorprendenti.

Massimiliano Poggi, atleta del gusto

Sia centometrista che maratoneta, i suoi piatti giungono immediati al palato e al tempo stesso sono dotati di grande profondità e persistenza di gusto. Ciò è il risultato di un approccio agli ingredienti rispettoso della loro essenza e attento alle loro interazioni, valorizzato da preparazioni che rendono i sapori nitidi e perfettamente distinguibili. Il menù “Divertiti di +” è un perfetto mix tra tradizione, territorio e innovazione che si fondono tra loro trovando nuova espressione: nelle dolci acidità dell’insalata russa; nell’intrigante collosità della trippa di baccalà con pomodoro datterino alla brace; nella goduriosa base del battuto di alici e pesto di pistacchio e basilico che aggiunge sapidità e dolcezza allo spaghetto AOP; nei fusilli mantecati con un’avvolgente salsa agrodolce al burro e cipolla di Medicina dall’esaltante persistenza; nel ricordo infantile del lecca-lecca, però di anguilla alla brace con salsa di levistico; nella succulenza delle carni del germano guarnito con le bacche di sambuco posizionate nel piatto in modo da riprodurre il divertente effetto dei pallini di fucile appena sparati e, infine, nell’enigmatica grigliata di pesce.

È proprio quest’ultimo il piatto che maggiormente denota la ricerca in cucina di Massimiliano Poggi e che si presenta, rispetto allo scorso anno, in una versione più evoluta. Il cuoco, infatti, rende ancora più evidente il contrasto visivo/gustativo eliminando qualsiasi riferimento al pesce con lo spiedino sostituito da una foglia di lattuga salanova grigliata per creare consistenza al palato nonché mantenere inalterato il sentore di affumicato e aggiungendo il nero di seppia alla salsa di pesce per esaltarne il sapore e rendere ancor più fitto l’alone di mistero su ciò che il commensale andrà ad assaporare.

Da Massimiliano Poggi si gode di una cucina in evoluzione con solide basi, strutturata e ben congegnata, capace di regalare un’esperienza di sano piacere conviviale, servita da una brigata di sala giovane, coadiuvata da una carta di vini sufficientemente fornita e gestita da un’appassionata Elisa Paganelli.

La Galleria Fotografica: