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Barolo Pianpolvere Soprano Bussia Riserva 2008

Pianpolvere, il Nebbiolo Soprano

Dalla cittadina di Alba, per raggiungere Monforte d’Alba, si attraversa la seconda più ampia MeGa del Barolo: la somma Bussia. 

Trecentoquaranta ettari in cui le vigne si polarizzano verso un unico obiettivo: restituire vini di grande austerità.

I suoli si contraddistinguono quasi dappertutto per la presenza di marne sabbiose di Sant’Agata e, lasciandosi alla propria sinistra il paese di Serralunga, si arriva a un rettilineo: è la Strada Provinciale n. 9 che, come un ponte, mostra la vigna Pianpolvere, una delle sottozone delle Bussia e del Barolo tutto, tra le più spettacolari per storia e caratteristiche mesoclimatiche. Un terroir già apprezzato da Napoleone Bonaparte che qui fece costruire una polveriera per scopi militari, certamente per la sua posizione strategica e ariosa a 350 metri s.l.m.

Un crinale, quello del Pianpolvere da suddividere in due parti: la Vigna Pianpolvere e Pianpolvere Soprano, riconoscibile per la sua “forma a cuneo” delimitata dalla strada, un piccolo bosco e il torrente che scorre nel fondovalle, il Rio Visette. Ma è Pianpolvere Soprano, già presente nella mappa degli anni settanta di Renato Ratti come “Pian della Polvere”, a restare la più ‘chiacchierata’ e apprezzata per la sua incredibile longevità.

Una “vigna registrata” per tutelarne l’unicità 

Di proprietà di Rodolfo Migliorini dal 1998, Pianpolvere Soprano è un vigneto di 9 ettari che negli ultimi vent’anni ha subito una graduale trasformazione. 

Nei filari più vecchi spalmati nei 3 ettari posti sotto la cascina – che identifica il confine della proprietà di Migliorini – le piante di Grignolino, Dolcetto e Barbera sono state sovrainnestate con il Nebbiolo, mentre i restanti sei ettari sono stati totalmente reimpiantati (sempre con Nebbiolo). Da subito, per ottenere la massima qualità, Rodolfo ha sposato i principi della biodinamica e per farlo ha introdotto l’uso di concimi organici in vigna, l’inerbimento, il sovescio, la confusione sessuale e insediamenti di nidi artificiali per uccelli e pipistrelli. E, nondimeno, vicino al piccolo bosco, trova spazio anche un bacino di acqua sorgiva. Per preservare ed esaltare ulteriormente le caratteristiche che contraddistinguono la vigna, il nome Pianpolvere Soprano è marchio registrato dal 1990.

Barolo Pianpolvere Soprano Bussia Docg 2008

Un vino che, prima di essere tale, rappresenta un valore per la denominazione, e per i grandi appassionati di questa vigna, capace di segnare un punto irremeabile dopo il primo assaggio del Barolo desunto. Soprattutto se si ha la fortuna di aprire una bottiglia di oltre trent’anni. Tra le caratteristiche che plasmano questo vino, spicca al palato una rigidità strutturale imbellita da un tessuto chiffon che, puntellato da tannini finissimi, marca la potenza e la lunghezza del vino, difficili da eguagliare; ma anche il gusto, dalla sua, ha una riconoscibilità: tra le note balsamiche, con il lungo affinamento in legno, il frutto restituisce aromi terrosi, di tè verde e di grafite.

I pochi esemplari realizzati di questa Riserva, volutamente prodotti, solo nelle annate ritenute migliori, diventano opere da condividere, da apprezzare più e più volte nel tempo, per lasciarsi condizionare da quel dividendo emotivo che si crea sommando ogni singola esperienza. 

In questo 2008, un’annata fredda in Langa, dopo i sette anni di affinamento (3 anni legno 1 botte grande e 3 bottiglia), tempo ritenuto necessario da Migliorini prima di immettere il vino nel mercato, la potenza spinge un frutto damascato e fungino, si riequilibra con una cascata acida composta da cristalli di minerali. Un Barolo che si erge in punta di piedi per vedere ancora la lunga strada  che ha davanti a sé così da non togliere ancora totalmente il velo, e mostrare la sua opera per intero. Lunghissimo e pieno nel nucleo gustativo, lascia una sensazione di filigrana sapida che non solo accelera il gusto ma richiama l’abbinamento per un incontro di sapori di Langa autorevoli e memorabili. Di tradizione.

Una storia d’Italia

Questo Barolo Borgogno Riserva 1961 arriva direttamente dalla cantina. Il vino, che ha passato 10 anni in botte e oltre 50 in bottiglia, ha subito un affinamento straordinario: un “livello superiore” di visione.

Cent’anni prima, in occasione dell’Unità d’Italia, il 1861 – anno in cui, peraltro, nelle Langhe arrivava lo zolfo dalla Sicilia per salvare le vigne dall’oidio – il Barolo Borgogno sigilla il patto al pranzo celebrativo. Ricostruzioni e salvataggi in un unico anno, dunque, che chiaramente diventa immediatamente simbolico.

Gli inglesi direbbero “rewrite the stars”, reinterpretare il destino, viverlo e progettarne modifiche, perché è possibile. Attraverso un approccio alla vita e alle montagne da superare, che Borgogno, senza dubbio, ha oltrepassato.

Iconica, a questo proposito, la cancellata in ferro battuto che occhieggia proprio dalla curva che da Barolo conduce a La Morra: è incorniciata da alberi e già s’intravvedono vigneti messi a dimora sui terrazzamenti in pietra.

L’azienda, che fu fondata nel 1751 da Bartolomeo Borgogno, prosperò già durante la Belle Époque: un periodo coronato dalla grande Esposizione Universale di Parigi che, nel 1900, sanciva la sua fiducia nel futuro mediante grattacieli, auto, aeroplani e i primi vagiti di quello che oggi chiamiamo design.

Il moderno, frattanto, era arrivato anche nel Barolo. I cinema, il can can, la moda, e difatti Borgogno già si trova nei salotti e nei circuiti giusti d’Europa: era il 1908 quando la cantina presentava un Barolo al banchetto in onore di Nicola II Romanov, Zar di tutte le Russie, in visita ufficiale al Castello di Racconigi.

Più tardi, poi, una vicenda legale: frainteso il nome, Borgogno, con la blasonata regione viticola “Borgogna”, nel 1955 tramite l’Institute des Appellations d’Origines accuserà la Casa piemontese di averne copiato il nome. Un nome che nel 1967 diventerà Giacomo Borgogno & Figli, e pace fu.

Casa Borgogno e la modernità

Dal 1968 la conduzione dell’azienda passa a Ida e al futuro marito Franco Boschis. La qualità e l’expertise rimangono a livelli altissimi tanto che, nel 1972, un Barolo 1886 raggiunge la cifra di 530.000 lire in un’asta di vini storci tenutasi a Torino. Arrivando, poi, ai giorni nostri, dal 2008 Borgogno è di proprietà della famiglia Farinetti, ed è proverbiale l’entusiasmo e l’attaccamento di Oscar Farinetti nei confronti di un’azienda che, dal 2010, è gestita dal figlio Andrea, subentrato dopo aver terminato gli studi alla Scuola Enologica di Alba.

Nel 2009 è iniziata la ristrutturazione degli uffici, che ha coinvolto anche la produzione, con un occhio verso il passato: dal 2013, infatti, seguendo una secolare tradizione langotta, Borgogno ha ripreso il cemento per le fermentazioni cui è seguita nel 2015 la conversione al biologico e l’acquisto di 3 ettari nel tortonese per la produzione di Timorasso.

L’investimento più recente, in ordine di tempo, riguarda quello avvenuto nel 2016 una delle posizioni più belle delle Langhe, sopra Alba, a Madonna di Como. Questi 11 ettari vanno ad aggiungersi ai 20 già di proprietà: un totale di 39 ettari, di cui 8 coltivati a bosco e 31 vitati (26 a bacca rossa e 5 a bacca bianca). Il 60% è coltivato a Nebbiolo mentre il restante si suddivide tra Dolcetto, Barbera e Freisa.

Tra i cru migliori posseduti spiccano quelli di Liste (6,75 ha), Cannubi e Cannubi San Lorenzo (1,3 ha), Fossati (3,2 ha) e San Pietro delle Viole (4 ha).

Barolo Borgogno Riserva 1961 

La bottiglia, in magnum, vanta un livello perfetto. Prodotto, come da tradzione, con uve raccolte in diversi appezzamenti, già dall’aspetto brillante e dal colore granato scuro con riflessi più chiari, senza derive aranciate, si intuisce l’integrità di questo vino che al naso offre profumi di ribes e prugna, balsamici di anice e menta, e di terra, rappresentata dalla carruba, dall’humus e dalla corteccia di pino. Quanto ai terziari, sono nobili: cenere di camino spento, rosa appassita, cuoio, anticipano una bocca che non tradisce l’aspettativa creata dalla piacevolezza e dalla complessità olfattiva. Ci si imbatte così nell’incanto di un tannino levigato, che ha perso ogni spigolo, acquistando materia in morbidezza ed eleganza, a cui si unisce un’acidità succosa, inaspettata, che dona polposità e bevibilità. Anice, cardamomo e frutta sotto spirito allietano il retrogusto: grandissima, del resto, è la persistenza gustativa. Dopo 60 anni, oltre che un gran vino, bisogna lodare una grande bottiglia.

Uno dei più grandi interpreti delle Langhe

Quando assaggi un vino di Bruno Giacosa tutto quello che credi di sapere delle Langhe viene azzerato. Un uomo schivo che ha sempre mantenuto intatta la sua filosofia produttiva, da sempre noto per la sua inarrivabile capacità d’interpretare i vigneti e le uve che selezionava. Un’arte, la sua, che ha sempre avuto pochi eguali nella zona dell’albese e che sul finire degli anni Cinquanta, e sopratutto nella decade successiva, lo ha visto diventare un’icona, un punto di riferimento del Barolo e Barbaresco, un protagonista, tra gli attori delle due super denominazioni delle Langhe, ma soprattutto all’estero. Ripudiava la botte piccola, così come l’idea di impiantare cultivar francesi; ma ciò non ha mai fermato la sua curiosità. Ben noto infatti, oltre i rossi, il suo – perché si fregia del suo nome – metodo classico prodotto con uve dell’Oltrepo Pavese. Ma non è questo il punto. Con Giacosa, e con la sua magica etichetta rossa, ad esempio, o le bianche, è sempre un ritorno alle origini o, forse, un viaggio in un mondo parallelo per entrare nel “Matrix delle Langhe”, nella gola del nebbiolo. 

Lo stile “giacosiano”

Il solo uso delle botti grandi realizzate da querce francesi, e la fortuna di riuscire a riempirle, lo hanno reso identificabile e decifrabile sin dagli esordi. Tant’è che oggi si parla di “stile giacosiano” o di “giacosiano” quando incontriamo vecchie bottiglie o quei giovani enologi che hanno passato qualche primavera nelle cantine assieme a Bruno e a un altro sommo talento della cantina, Dante Scaglione: enologo che, tutt’oggi, accompagna questi vini nella loro definizione, pulizia e che, con un tocco di austerità, li rende eternali. Giacosa, mancato all’età di 88 anni, ha lasciato in suo ricordo una Langa difensiva e combattiva, valori che portano ancora avanti il pensiero storico e tutelano le denominazioni.

Come detto, grazie alla sua capacità di selezionare, è stato tra i primi ad aprire la strada ad imbottigliamenti più specifici, quelli dei singoli cru, come si faceva in Borgogna, insomma. Ma oltre alle prime vinificazioni  – la prima è del 1967 –  ci sono stati gli acquisti di Asili e Rabajá nel 1966 e più tardi del vigneto Falletto, a Serralunga d’Alba (1982). Una mente geniale che, in quel di Neive, consigliava i colleghi su dove e come piantare Dolcetto – da lui sempre portato in tavola a pranzo – e Nebbiolo. La sua eredità è anche in questi pensieri, ricordati dai produttori albesi e, beninteso, nelle bottiglie che i collezionisti conservano con dedizione, siano essi semplici appassionati o professionisti della ristorazione, sebbene il suo volto non sia mai stato molto familiare al settore dell’Ho.Re.Ca.

Vini che rappresentano un sentimento che riporta alla scuola, agli insegnamenti, e a un passato che ti inseguirà sempre, e che chiunque nelle Langhe, per sempre, ricercherà, immobile nelle proprie certezze ma punteggiato di etichette che ancora riescono a stupire, forti di quanto accaduto negli anni ’60 quando i Barolo e i Barbaresco di Giacosa riuscirono ad imporsi nel mercato europeo e statunitense e a fare di lui un uomo che, ancora oggi, continua ad essere un grande Ambassador del vino italiano.

Bruno Giacosa: la produzione

Oggi gli ettari vitati di proprietà ammontano a una ventina, spalmati tra i comuni di Serralunga, La Morra e Barbaresco riconoscibili in etichetta per la dicitura “Azienda Agricola Falletto” ma anche da altre zone e quelle uve dei conferitoti storici, e nel Roero, dove si produce un soffice e godurioso Nebbiolo d’Alba in quello che viene considerato come il grand cru del Roero, la vigna Valmaggiore. Il protocollo di vinificazione prevede per tutti i vini, basse rese, macerazioni di almeno tre settimane e affinamenti in legni esausti e grandi di rovere francese. Ogni annata, a seconda dell’andamento climatico e della espressività dei diversi vigneti, vedrà vinificazioni e un’uscita nel mercato diverse per frazionare la produzione catalogandola con etichette bianche o rosse, queste ultime destinate solo alle Riserva.  

Barbaresco Docg Asili 2015

Un sensazionale tannino, fitto e puntellato, totalmente avviluppato da un abbraccio di frutti blu; postica la verticalità del sorso, che resta salace benché modulata dalla sua stessa stilistica, riconoscibile per la sua accurata eleganza. 

Barbaresco Docg Rabaja’ 2014 

Tra linguaggio e disegno, un vino che esalta le differenze, rispetto agli altri Rabaja’ che troviamo in Langa, e la certezza di una precisa fattezza oggi già aperta e isolata in un gusto doppiamente saporito. Una polpa carnosa, tra aromi dolci e speziati, si amplia continuamente. 

Barolo Docg Falletto Vigna Le Rocche 2012

Una potenza e una struttura intellegibili, è magnetico in una percezione spaziotemporale lunghissima, prolungata ancora da uno stratto più boschivo e umido. Agisce direttamente sulla mente, tra un richiamo boisé e di bacche blu, e si proietta tridimensionalmente al palato senza dimenticare la sua firma: il controllo assoluto e l’integrazione.

Barolo Docg Falletto 1997

Dal naso al palato, questa dolcezza fragrante è costruita in una sequenziale e uniforme successione di frutti e spezie: amarena, mirtillo e cumino, tutti spalmati con petali di rose. Sorso morbido, ravvivato da tannini gessosi e finissimi, intimi con un corpo che diventa più cupo e terroso. Arriva il momento di cogliere il gusto dell’evoluzione, forse un po’ accentuata ma governata ancora da una buona acidità. Il sorso restituisce complessità e raffinatezza con il frutto ancora in primo piano e tannini larghi che si fanno strada tra erbe aromatiche e note ematiche.

Un nuovo progetto a Monforte d’Alba

Sono 181 le MeGa (Menzioni Geografiche Aggiuntive) del Barolo. La summa del lavoro di mappatura voluto dal Consorzio di Tutela vede tra le sue protagoniste anche la menzione di Cannubi, una collina da sempre tanto ammirata quanto contesa. Lasciando da parte le vecchie diatribe tra i produttori, oggi si può dire di esser arrivati a una nutrita e affiatata flotta di produttori che esprime, con decisione e fierezza, le rispettive parcelle i cui confini definiscono caratteristiche e differenze reali, fatte anche di differenti momenti di maturazione che determinano altrettanto differenti approcci stilistici in fase di vinificazione. 

Cannubi

Un’unica collina, più bassa rispetto a Brunate e Cerequio, che si distende a nord-est ariosamente dal paese di Barolo e che in sequenza le sue interne micro cinque zone prendono il nome di Cannubi Muscatel, Cannubi San Lorenzo, Cannubi Valletta, Cannubi (storici) e Cannubi Boschis. Quest’ultima, assieme al Cannubi Muscatel, vanta un’esposizione più uniforme. Sappiamo che all’interno ci sono diverse conformazioni geologiche ed esposizioni: a sud e al centro, nelle zone più alte, troviamo parti più sabbiose intervallate ad arenarie di Diano, mentre nella parte più a sud (Cannubi Boschis) le marne di Sant’Agata fossili. Il nome Cannubi, salito alla ribalta nei primi anni ’80 del Novecento, apparve già nel 1595 come uno dei grand cru di Barolo e, ancora prima, in un testo di Amato Amati che lo menziona nel borgo cuneese di Torresina il quale, in epoca medioevale, era governato dalla famiglia omonima: Cannubi, appunto. Al netto di questi documenti piace sempre pensare che l’origine del nome, vista l’armonia e l’eleganza che i vini raggiungono nel tempo, derivi dal latino connubium: matrimonio. Un pensiero che, seppur antico, evoca tutto il fascino di questo vigneto e del primo momento, quasi di imbarazzo, che si ha quando sul tavolo appare una bottiglia con su scritto, in etichetta, “Barolo Cannubi”. 

Il progetto

Recentemente, proprio nel cuore pulsate di Cannubi, si è affacciata questa nuova giovane realtà, nata nel 2011, che ha iniziato la sua avventura condividendo gli spazi della struttura del Resort omonimo a Monforte d’Alba. E, appunto, i vini sono a marchio Réva e, come in ogni conoscenza reciproca, dopo i primi anni di studio e rodaggio da parte del giovane team capitanato da uno degli enologi di punta delle Langhe, Gianluca Colombo, oggi si inizia a marcare il mercato in maniera più profonda.

Réva è, senza dubbio, una realtà in via di espansione e lo fa col carattere di chi sceglie di lavorare al proprio progetto passando dall’educazione dei propri vini. A conferma della loro definizione “Réva è molto più di un’azienda vitivinicola, è un organismo agricolo”, l’abbraccio dei vigneti è così ampio da riuscire ad esprimere molte delle sfaccettature del terroir delle Langhe e delle sue grandi uve protagoniste: dolcetto, barbera, nebbiolo.

Ben gli 35 ettari di proprietà, 23 dei quali a conduzione biologica distribuiti in 6 diversi comuni. Per mettere ancora più a fuoco i vini, serve tecnologia e spazio, ed ecco perché recentemente la produzione si è spostata in Frazione Annunziata (Località Gallinotto), a La Morra. Ogni momento, dalla vendemmia alla vinificazione, viene studiato nei dettagli e in cantina non mancano momenti di sperimentazione con nuove presse e nuove diraspatrici. Anche sui legni si è trovata la formula perfetta per definire il proprio stile, certamente d’ispirazione tradizionalista – “giacosiana” – in cui ritrovare agilità di beva, precisione e freschezza. 

Lo scopo è descrivere al meglio l’annata e il vigneto e, dopo anni passati a studiare il Ravera, la novità del 2020 è appunto il Cannubi 2016 a cui si affiancheranno altri emblematici progetti, come il Barolo Lazzarito e la messa in produzione, in quindici ettari di vigneti, a Roddino, di un Alta Langa a base pinot noir e altri vini a base di uve native (barbera, dolcetto e nebbiolo).  Il filo conduttore che lega tutte le referenze unisce un gusto che fotografa freschezza, serbevolezza e gusto.

Barolo Cannubi Docg 2016

Una vitalità che oggi si catapulta in questo nuovo nato che, proprio per questa sua impostazione produttiva fa inebriare per fibra voluttuosa e giovinezza.

A Cannubi Réva gestisce una piccola ma preziosa parcella di circa 0,3 ettari nella parte storica. Una vigna esposta ad est con una altitudine di 320 metri s.l.m., con un terreno composto da marne calcaree tortoniane ed elveziane con presenza di sabbia e microelementi. Una realtà che si distingue e dona vini armonici e dalla tannicità elegante. 

Vinificato solo nelle annate migliori, la 2016 è la prima annata che al suo debutto appare già equilibrato, fine e affatto austero. È giovane ma non per questo privo di complessità. Al naso la spezia leggera e la cipria, impattano la scena introno a una golosa parte fruttata. La lieve tostatura in ingresso è ciò che caratterizza i primi momenti dell’assaggio, dal buon potenziale di sviluppo. In ogni etichetta sono raffigurati degli animali, un ritratto della spontaneità di Réva; quei disegni, nati come schizzi durante una degustazione, hanno dato vita anche al gufo che identifica il Cannubi e che, secondo la tradizione popolare, è simbolo di un’ottima annata.

Barbera d’Alba Doc Superiore 2018

Una delle più emblematiche selezioni di Réva, e che meglio rappresentano la filosofia di questa giovane azienda. Si tratta di una Barbera Superiore – vocalmente “fuori dal coro” – giovane e scalpitante. Un rosso che si spinge al limite senza pensare che sia impossibile trasformare l’immagine del nome del vitigno e del suo gusto, giustappunto non esita a farsi scrutare nelle sue molteplici sfaccettature: intensa, d’impatto e ricca di frutto, la caratteristica che la contraddistingue è l’acidità dirompente ma al contempo elegante e fine, in “stile Réva“. Sicuramente sinonimo di grande potenziale di invecchiamento, l’acidità contornata dal frutto e dalle spezie rende la beva gradevole e tutta da vivere.

 

 

Un’azienda fedele a se stessa

È una storia che si raccoglie come si guarda l’anfiteatro di vigne davanti alla tenuta ancora oggi gestite dalla diciannovesima generazione della famiglia Cordero. Lo ripetiamo, la diciannovesima generazione.

Dal 1340 c’è sempre una luna piena, visibile e brillante alla fine della raccolta delle uve tra cui non sono mai mancate quelle tradizionali di Langa: dolcetto, barbera e nebbiolo, a cui si sono aggiunte le internazionali, negli anni Ottanta, come lo chardonnay.

Oggi in cantina c’è gloria, e una scelta, certa e ordinaria, in continua ricerca per restare fedeli al proprio stile, in frazione Annunziata La Morra, in una sorta di privé un po’ nascosto dalle dorsali più centrali del Barolo, che spicca sempre, e comunque, tra le stelle della denominazione dove ogni tassello di terra, in autunno, e soprattutto nel bicchiere, si raccontano con i colori delle foglie. Ma, evidentemente, ogni interpretazione d’annata dona, in ogni linea produttiva, un cielo senza nuvole, ossia continuità e costanza al gusto. Accade sia per quelle proposte e vinificate solo in acciaio e sia in quelle destinate a uno sviluppo superiore: Barbera e, ovviamente, le versioni esclusive di Barolo.

È un sogno nel sogno, confermato dalla risposta della natura a cui ci si ispira, con i trattamenti, nelle annate successive, e infatti l’azienda è certificata bio da tre anni. Una verità immensa ed eterna, come l’assaggio delle uve prima di raccoglierle, allorquando sopraggiunta la stanchezza la passione si ravviva quando nell’orizzonte appare il profilo imponente del cedro del Libano che, posto sul bricco del colle Monfalletto, è tra i punti di riferimento sia per chi perde la bussola nelle dorsali nel Barolo sia per chi, invece, la bussola la deve ancora imparare a usare. Un monito amico, della terra, che ricorda e ricorderà sempre, alle generazioni future, l’importanza del tempo e il suo potere.

Qui, ogni filare del corpo unico di 28 ettari davanti alla tenuta, a una vista oculata, mostra mutazioni diverse. Chi è curioso può captare ogni dettaglio. C’è una piccola gobba, ad esempio, visibile dal “belvedere” naturale della cantina, in cui si vede una doppia anima: quella esposta in ombra è infatti adatta per un vino da invecchiamento (chardonnay) di grande polpa e sincerità nel bicchiere anche dopo anni, perché il progetto, da sempre, è quello di realizzare un vino fatto per durare e voluto in un tempo in cui nella denominazione si sperimentava anche con le varietà alloctone. Ed è questo stesso tempo che, oggi, fluttua ancora nelle bottiglie, tra nostalgici raconti di campagna e problematiche d’annata dove si afferma la volontà di esser diversi per donare una visione molto personale. Ecco perché in cantina si opta per macerazioni brevi e lunghi affinamenti, più in vetro che in botte, comunque di varia dimensione per agevolare la naturale evoluzione di un frutto che parla già da sé in embrione ma che in realtà necessita solo un accompagnamento e una direzione per esprimersi tramite il suo linguaggio innato.

All’interno della collina, tra i locali di vinificazione e affinamento, c’è un corridoio: una biblioteca di tutte le annate in edizioni limitate, che chiedono con forza di esser assaggiate. Una scarica elettrica invade il corpo da capo a piede, bottiglie e grandi formati di super Riserve, etichettate con meridiane mostranti le distanze dalle migliori mete del mondo e acquistabili esclusivamente in cantina. Una banca, insomma, che abbraccia un ricordo del tempo che si affina e contrassegna il progetto con etichette volute a tale scopo.

Oggi, sono Elena e Alberto i protagonisti di questa storia, e sono loro che promuovono da subito ciò che hanno nel cuore: un lotto di vecchie viti acquistate dagli avi al centro del  Villero, a Castiglione Falletto. Qui, sono solo 2 gli ettari destinati a un vino il cui nome è in memoria di un sesto figlio di una delle generazioni che si sono susseguite: Barolo Enrico VI. Successivamente si è poi ampliato il parco vigna in Alba e nel Roero, per un totale di 51 ettari totali odierni in cui lo stile è sempre, ed inequivocabilmente, personale, identitario di un’eleganza di frutto sottolineata da un mélange melodico tra diversi legni provenienti da foreste diverse, e di grandezze diverse, che si devono ogni anno  plasmare  tra loro per trovare il matrimonio col frutto. Esibizione mai fuori dai confini ben noti alla famiglia che, mai in maniera shakespeariana, è sempre proiettata alla reinterpretazione di se stessa.

ENRICO VI, BAROLO 2016 VS 1995

Un 2016 giovane ed esplosivo, dopo i primi attimi silenti nel bicchiere, e destinatario di un frutto foriero di un’anima potente e certamente ricca che, animata da una verve naturalmente emozionata dalla sua stessa energia, diventa poi più contenuta grazie al legno. Il rapporto è sempre in favore per quest’ultimo elemento che, nel finale, ritorna con dettagli stilistici inconfondibili, che donano una ascensione elettiva e di vocazione del vigne

Barolo DOCG Enrico VI 1995

La vigna Villero sempre stato e sempre sarà  un simbolo per Cordero.

Nel 1995 l’uva raccolta dichiara ancora oggi la sua  volontà  ma non solo, manifesta la sua radice e ne invoglia la comprensione. Per la sua velata sapidità , per la sua decisiva luce stretta nel suo limite -solo di pensiero – temporale. La balsamicità  ancora netta e il tannino, seppure sottile, amplia con carisma un telaio sensibilmente capace di adattarsi alla vigna e a chi la conosce nelle sue più profonde membra.