Le tapas non sono solo cibo, ma una filosofia di vita.
Partiva da questo concetto l’idea di Albert Adrià per quel posto che oggi è il Tickets. Un progetto creativo che andava ben oltre la concezione del miglior tapas bar al mondo. Perché, ancor prima di aprire i battenti, il Tickets era stato concepito come il luogo ideale per tutti.
È iniziato tutto in modo assai curioso. Era il febbraio del 2010 quando Albert festeggiava con amici di famiglia il terzo compleanno del figlio in uno dei suoi ristoranti del cuore. Prima della torta ricevette un regalo inaspettato dal suo amico Juan Carlos Iglesias, attualmente suo partner in affari. Si trattava di un mazzo di chiavi di un immobile le cui mura ospitavano una concessionaria di auto.
Albert si soffermava spesso davanti quella bottega, affascinato dalla spaziosità di quegli interni. Un luogo ideale in cui, un giorno, avrebbe potuto trasferire il suo Inopia Classic Bar. Ma non era soltanto una questione di spazi. Quello era solo un pretesto.
Da quel momento, infatti, i concetti di tapas classici e dell’Inopia si persero tra le mille idee partorite in innumerevoli brain storming, fatti tra le cucine di elBulli e il Taller di Barcellona da quelli che erano le colonne portanti della fucina d’avanguardia di Roses: Albert e Ferran, Oriol Castro, Eduard Xatruch, Andrés Conde e Miguel Estrada.
Nasceva quindi l’idea del Tickets, alla base della quale c’erano due simboli del Bulli: l’oliva sferica e l’air baguette. A seguire, il lavoro sulle ostriche e un altro paio di centinaia di ricette tra tradizione e pura sperimentazione, perseguendo un (ennesimo) nuovo linguaggio gastronomico.
L’obiettivo era diventato sempre più preciso, anzi, non era mai mutato: si continuava a perseguire la ricerca dell’intrattenimento guardando al futuro.
Il Tickets è la dimostrazione di come i parametri culinari degli Adrià siano in continua evoluzione.
Tra queste mura è racchiuso un mondo su di giri, una sorta di automobile con cui, allacciate le cinture, il passeggero fa un viaggio a due velocità. La guida è sicura ma non mancano i grandi virtuosismi. Il pilota conosce come pochi le tecniche di avanguardia e di molte ne è anche l’inventore.
Dai primi snacks, fino ai dessert, si ha sempre l’impressione di oltrepassare il muro del suono, ma pian piano ci si stabilizza, con sorpresa, in una più rassicurante andatura di crociera.
Si fanno i conti con tanta modernità, ma dietro l’angolo, ad attendere il palato, ci sarà spesso il baluardo della tradizione, con la rivisitazione delle tapas che incontra i ricordi di luoghi lontani. Sapori decisi, dall’impronta catalana marchiata a fuoco, si avvicendano alla strabiliante capacità di far viaggiare il commensale con la mente oltre i confini della Spagna. Sensazione che qualcuno aveva già provato a Roses, poi al 41° e che può ritrovare, in un contesto più limitato ma forse più meditato, anche all’eccellente Pakta.
Fa tutto parte di quella marcia in più che contraddistingue da sempre i fratelli Adrià, capaci di racchiudere una miriade di sapori in pochi assaggi.
Il Tickets, il primo dei ristoranti de “elBarri” (ovvero il “quartiere” degli Adrià, come è stato definito), è come un parco di divertimenti in cui l’avventore ha la possibilità di scegliere la giostra che vuole, quando vuole. Senza vedersi imposte sequenze di sorta o particolari restrizioni. Su qualsiasi cosa ricadrà la scelta, si avrà la certezza di mangiare qualcosa di immediata piacevolezza che appagherà repentinamente il palato.
Difficile assoggettare a critiche un luogo così, perché da due assaggi a trenta che siano, ci si trova sempre al cospetto di qualcosa che stupisce.
Ci si sforza anche nel trovare i difetti (!?): forse il fatto che manchi l’identità di un percorso degustazione? No, quello ve lo fanno se lo chiedete. Anzi ve ne fanno di diversi tipi visto la vastità della carta.
E allora è forse il livello di raffinatezza dei piatti che muta alla velocità della luce, passando da armoniose complessità gustative a più semplici bocconi di rassicurante goduriosità, che, molte volte, tendono a lasciarsi alle spalle la componente raffinata e più cerebrale? Si, forse è proprio questo il rischio: di avere troppe idee e di sfornarle tutte nello stesso momento. Si, probabilmente è forse questo l’unico limite del Tickets.
E se invece fosse la sua imprescindibile chiave del successo?
Chi ha cenato a elBulli avrà sicuramente un ricordo straordinario del servizio, replicato perfettamente, con le dovute proporzioni, anche al 41°.
Al Tickets invece non ci sono particolari formalismi e la macchina della sala è particolarmente amichevole, coerentemente con l’ambiente ed il concetto di locale.
Ciò detto, resta comunque un servizio di rara puntualità e cortesia, come quasi tutti i ristoranti visitati a queste latitudini, in cui è facile constatare un livello medio sempre altissimo.
Gli snacks.
L’albero del Tickets.
Goliardica presentazione con tanto di forbicette per tagliare il picciolo ricostruito.
Geniali meringhe al mirtillo (c’è probabilmente del rafano nell’impasto che dona una lieve nota piccante)…
…da inzuppare in una intrigante crema al rafano.
Le abbiamo provate e riprovate. Un po’ ovunque…
…ma vi assicuriamo che qui sono uniche.
Le (super) olive elBulli. E’ facile che ve ne rifilino di diversi tipi in diversi ristoranti e in altrettanti continenti, ma nessuno ha la concentrazione di queste. Un gusto lunghissimo, forse anche migliore di un’oliva di qualità assoluta. Quando la tecnica potenzia la qualità di un ingrediente.
Questa è la varietà Verdial…
…ma abbiamo assaggiato e percepito le differenze con la varietà Gordial, più forti e aromatizzate all’anice stellato e cannella.
Crostino di acciughe con semi di pomodoro e cristalli di olio.
Dalla sezione “Pura Razza”, è il momento di Joselito. Pata negra Gran Reserva.
Accompagnato da pane al pomodoro.
Sezione “Finger Food”.
Tonno in tartare con mille-feuille di alga nori croccante. Boccone strepitoso.
Incredibili gamberi rossi crudi con panatura al “mojo” verde (tipica salsa delle Canarie, a base di coriandolo e prezzemolo). Spettacolo.
Le ostriche: sulla sinistra con kimchi di yuzu e sulla destra, con salsa ponzu e uova di salmone.
“Rubia gallega” arrotolata nella leggendaria air baguette.
“Jowl & Panceta”
Una succulenta brioche al burro con testina di maiale, mozzarella, mostarda, paprika e “ras el hanout”.
Ed ecco i piatti principali del Tickets: le tapas, all’insegna della tradizione.
Insalata di pomodori Raff, straciatella di bufala e aria di basilico. Sotto la schiuma degnamente concentrata si nasconde una caprese, ma non solo. Prima i pistacchi, poi delle fragoline di bosco generano una divertente alternanza di sapori e tonalità di raro equilibrio. Geniale semplicità.
Strepitosi cannolicchi con salsa al cocco, funghi e arachidi. Siamo in Thailandia o a Barcellona?
Carciofi, crema di sedano rapa e vinaigrette al tartufo. Notevole piatto di matrice francese.
Piselli di Maresme (una delle Comarche della Catalogna) con jus di finocchio e pancetta croccante. Piatto da trattoria o preparazione di alta scuola con tecnica sopraffina?
Un altro piatto cult: spalla di maiale con patate confit e salsa di ossa di costine di maiale. Piatto di estrema golosità il cui abuso rischia di saturare le papille gustative. Ne bastano un paio di bocconi.
Il pollo in due sequenze. O meglio, il piatto del viaggio.
Una favolosa variazione del volatile che fonde al meglio lo spirito di questa cucina: tradizione e innovazione.
La schiuma di lime da’ profondità al saporito boccone e il cubo di pane imbevuto nella salsa del volatile creano dipendenza.
Ma il colpo di grazia arriva con il brodo di pollo. Un consommé degno del miglior tristellato francese. Talmente chiarificato da sembrare acqua. È il caso di dire, uno di quei piatti indimenticabili.
Variazione di Payoyo, tradizione e evoluzione.
I dolci. Dai quali, francamente, ci aspettavamo un coinvolgimento emotivo maggiore. Comunque iper tecnici e anch’essi golosi, ma da un grandissimo pasticcere come Albert Adrià ci aspettavamo molto di più.
Mini cheesecake, meringhe al limone e crema di formaggio con composta ai frutti rossi.
Pancake con yogurt, sciroppo d’acero e composta di more. Questa volta il tasso di stucchevolezza va oltre il nostro gradimento.
Altro dessert, spuma di panna e cioccolato.
Tickets’ “crazy coconut”, gelatin alla menta, crema al frutto della passione e stracciatella di cocco. Da mangiare con le mani.
Uno dei tavolini.
Gli interni.
Alcuni banconi.
Merchandising.
Insegna.
“Abbiamo dovuto uccidere la bestia. Dopo tanti anni, avevamo paura che la passione morisse”.
Lo disse qualche tempo fa Albert Adrià. Parlava del Bulli, ovviamente. Per fortuna, però, lui e il fratello si erano sbagliati di grosso. La loro passione per la cucina non è mai stata accesa come adesso.
Tutto ciò che si può scrivere oggi su Ferran Adrià, dopo tutto quello che è stato detto, scritto e pensato da quando il genio catalano è entrato in scena cambiando radicalmente il volto della cucina creativa mondiale, potrebbe essere retorico. È dato certo che in pochi hanno avuto il privilegio di provare la sua cucina.
Sedere ad uno dei tavoli nel leggendario ristorante di Cala Montjoi è stato per molti, compresi alcuni di noi, un miraggio di indefinita durata. Non nascondiamo che, per chi non c’è riuscito, la mancanza di un’esperienza gastronomica di tale peso resterà forse il più incolmabile cruccio di questa passione.
Data l’impossibilità, almeno per ora, di mangiare in quel luogo, i geniali fratelli di Roses hanno trovato una degna soluzione: la cucina esperienziale di El Bulli in un contesto raccolto, informale, innovativo e singolare, nella città catalana per eccellenza. Semplice e geniale. E non poteva essere altrimenti.
Così, a due anni dall’ultima cena servita nel più famoso ristorante dell’ultimo ventennio, ha visto la luce l’impero gastronomico di Albert Adrià che, con ben quattro (ma fra poco ne verrà alla luce un quinto) locali diversi, si sta imponendo come il nuovo re Mida della ristorazione mondiale. E, chiariamo, non è solo una questione di nome se Tickets e compagnia bella sono in overbooking tutto l’anno.
Tra tutte le sue nuove e geniali creature, merita grande considerazione il 41° Experience che ci aveva già impressionato lo scorso anno.
Ubicato in Avinguda del Paral-lel, la strada che coincide con il 41°22’34” parallelo terrestre nord, questo non è un semplice ristorante ma una vera e propria esperienza sensoriale a 360 gradi partorita da una mente perfezionista. Basta accaparrarsi, con largo anticipo, sul web uno degli otto tavolini (non è impresa difficilissima ma tocca pagare una discutibile caparra) per vivere l’essenza di un’esperienza gustativa, olfattiva, tattile, uditiva e visiva totalizzante e farsi un’esaustiva idea di cosa sia la tanto acclamata avanguardia culinaria. Tutto ciò in uno spazio piccolissimo ma confortevole, un vero e proprio cocktail bar.
Sedici coperti, un solo menù.
Del Bulli sono rimasti qualche piatto memorabile che ne ha fatto la storia, ma soprattutto lo spirito e parte del team creativo tra i quali il geniale direttore creativo argentino Sebastiàn Mazzola, ancora poco conosciuto, ma del quale si sentirà parlare nell’imminente futuro. Insieme ad Albert sono anche i creatori dell’originalissimo Pakta, che fa cucina “nikkei”, un ibrido tra la cultura giapponese e quella peruviana.
L’ambiente sembra, d’impatto, crepuscolare, ma una serie indefinita e confusa di immagini proiettate su 20.000 lastre di cristallo pendenti dal soffitto crea un’atmosfera rilassata, calda, quasi ipnotica cui ci si abitua col passare del tempo. Si tratta di un’installazione conosciuta come “Frosted Rain”, opera dell’artista spagnolo Javier Milara.
Le immagini sono accompagnate da un sottofondo musicale che muta al mutare delle portate, dando la sensazione di stare seduti all’interno di un’installazione artistica.
Questo è, più o meno, quello che si trova e vi aspetta al “Quarantunesimo”.
Tutto secondario al cospetto dei piatti-assaggi che vi arriveranno sotto gli occhi. Preparazioni di pochi centimetri di diametro, ogni piatto è un piccolo scrigno che custodisce una supernova di sapori.
Solo al momento dell’assaggio si può avere un’idea della rivoluzione culinaria degli Adrià.
Freddo, caldo, freddo, dolce, amaro, freddo, piccante, carne, pesce, frutta, poi pesce, ancora carne, infine dolce. Una palestra per il palato che azzera, o forse ridefinisce, i canoni delle priorità degli ingredienti a tavola.
Quarantuno portate per un totale di una cinquantina di snack, suddivisi in “paesaggi” geografici di tutto il mondo innestati in un preciso contesto stagionale (nel nostro caso “l’autunno”). Una cucina che consente al commensale di viaggiare tra terre e sapori che spaziano dalla rivisitazione di piatti e ingredienti simbolici della cultura italiana, alla tradizione scandinava, passando per il Messico e il Perù, spingendosi fino al Giappone, al Vietnam e alla Thailandia, senza mai trascurare, ovviamente, la tradizione catalana e i sapori mediterranei. In alternanza verranno serviti cocktail, vini e birre. Anche il mariage cibo-bevande è studiato nei minimi dettagli, così come le singolari, bellissime stoviglie, parte integrante delle creazioni.
E poi c’è il servizio, capace di garantire il medesimo lasso di tempo – circa 4 minuti di attesa – tra un piatto e l’altro (avvertiteli se dovete assentare), sempre pronto a pulire il vostro tavolino ed eliminare ogni briciola dopo ogni portata.
Un servizio realmente su misura. Corale, preparato, multilingue (il nostro cameriere parlava benissimo anche l’italiano) e pronto a raccontare ogni minimo dettaglio del singolo piatto, nonché la storia dietro l’idea, contribuendo attivamente a rendere quella del 41° un’esperienza davvero unica, da fare almeno una volta nella vita.
Picnic Cocktail, a base di fiori di sambuco e more.
Paesaggio autunnale: ricordiamo lamponi caramellati con wasabi, pistacchio con miele di pistacchio; uva con lime e timo.
Pere infuse in succo di barbabietola e arancia.
Perla al sesamo nero.
Olive ripiene di acciughe (un classico del Bulli).
Cozze marinate con patate soffiate e polvere di salsa “espinaler”.
Vermouth.
Con il “pizzicato five” (omaggio ad un gruppo pop giapponese la cui musica era in sottofondo) arrivano le chips piccanti di tentacoli di piovra e mais…
…e alghe croccanti con quinoa.
Inizia il viaggio in Italia con la divertente mini burrata fatta in casa (che pecca solo di una accentuata sapidità della pasta filata)…
…e la rivisitazione in perfetto stile “bulliano” della pizza che sprigiona prima olfattivamente, poi in bocca, ogni singolo ingrediente (pomodoro, mozzarella disidratata, gelatina di olio d’oliva e basilico fresco).
Chiude il trittico italico il gustoso sottobosco autunnale: porcini disidratati e cannolo con crema di parmigiano.
Si fa un passo nel passato al Bulli anno 2004: air baguette con prosciutto iberico gran riserva “Joselito”.
Inizia il “paesaggio nordico” con il fantastico salmone affumicato con uova di salmone e panna acida, adagiati su una pellicola che nasconde un fumo di pino molto denso.
Accompagnato da un succo di frutti rossi.
“Shot Caviar”: variazione di uova con caviale beluga, nocciola e melanzana.
Toast and carrots. Ecco le carotine baby…
e il toast con carne cruda, scalogni, aneto e caprino.
Dai toni freddi a quelli calienti: ecco il “paesaggio messicano”: tequila sferica…
…accompagnata da succo di agave.
Una birra spagnola: Shipa India Pale Ale…
…accompagna l’eccezionale taco coni gamberi “aguachile” (peperoni, lime e cipolle).
Si va in Vietnam: il panino Banh Mi, farcito con maialino iberico cotto per 36 ore. Non siamo nemmeno a metà, ma da qui inizia il meglio della cena.
Ecco il Perù. Un fantastico cocktail rivisitato: l’atahualpa 2.0 (Cachaca, ananas, pesca, zucchero e lime).
Ceviche norteno.
Uno dei paesaggi migliori, quello giapponese. Si parte con il pregiatissimo sakè Sohomare Kimoto Junmai Ginjo.
Temaki fritto ai ricci di mare. Boccone di puro piacere.
Anelli di cannolicchi con salsa di soia. La tradizione delle tapas incontra il Giappone con un’eterea tempura.
Cannolicchio che viene riproposto in un’altra raffinatissima preparazione, in scapece con ciccioli di maiale.
La vetta più alta del piacere si tocca con il “paesaggio Thai”. Magnifica la zuppa di calamari e insalata di mango.
Il delizioso agnello piccante.
Per la serie le sorprese non finiscono mai.. udite udite, è l’ottimo Frappato di Cos ad accompagnare…
…il “mountain fideua”, ricetta andalusa mari e monti, a base di tipici funghi spagnoli (simili ai finferli) e seppia tagliata tipo vermicelli.
Pane, formaggio e tartufo bianco d’Alba.
Un calice di Palo Cortado Vors trentennale accompagna l’ultimo boccone salato.
La tartelletta al foie gras e mandorle.
Si apre lo show dei desserts. Entra la postazione mobile di ghiaccio e azoto liquido…
…per il Nitro Pineapple: una crema di vaniglia, ananas e rhum trasformata in gelato espresso.
Seguito da una micro pesca disidratata al mango. Esplosione di piacere.
Fichi.
Oroley Martini. Fatto con una qualità oro della Lavazza.
Banana Musubi.
Nido al passion fruit, anch’esso esplosivo.
Non una cupcake ma una incredibile torta al limone. Con il pirottino che è in verità una finissima pellicola di zucchero.
Si chiude con i cioccolatini.
Cosa c’è di meglio da fare a Barcellona in un sabato mattina quando fuori c’è un diluvio universale di fine autunno? Il consiglio più vivo che ci sentiamo di dispensare è quello di percorrere la Rambla (di corsa e possibilmente senza scivolare) e, a metà del viale più pittoresco della città, infilarsi nel fantastico mondo della Boqueria. Un mercato unico nel suo genere, affollatissimo e pieno di chicche di ogni genere, il luogo ideale per il vostro pranzo. C’è davvero l’imbarazzo della scelta: dalle cornucopie di jamon iberico tagliato al momento, ai fantastici mega cannolicchi fritti, dalle polpette di baccalà ad una serie infinita di pintxos.
La Boqueria, purtroppo, la domenica è chiusa.
Considerato quanto sopra, cosa c’è di meglio da fare a Barcellona in una domenica mattina quando fuori c’è un diluvio universale di fine autunno che imperversa dal giorno precedente? Beh, proviamo a darvi qualche consiglio.
In città la domenica è il giorno di riposo di gran parte dei ristoranti e il primo pensiero ricade sulla tradizione e sui tapas bar. Ma di posti aperti, neanche l’ombra. Ecco allora l’aiuto provvidenziale da parte di un amico del luogo che ci consiglia un locale molto raccolto e piacevole, in una zona che scarseggia di proposte interessanti e in cui primeggiano doner kebab, sushi bar poco invitanti e qualche tavola etnica di apparente basso livello. Siamo a El Raval, nella zona più a ovest della città vecchia. E’ qui che, da un anno e qualche mese, ha aperto i battenti il Suculent. Un tapas bar (in verità è più bistrot nelle proposte) dove oltre ai più popolari piatti della tradizione catalana, non manca un pizzico di creatività. Ai fornelli c’è un giovane cuoco di 26 anni, Antonio Romero, ma il timone del comando è nelle mani dall’esperto Armando Anta, ex cuoco, ormai imprenditore, con esperienze sul campo all’Alkimia e al Mugaritz che garantisce un servizio gentile e di grande efficienza.
Il Suculent è una piacevole scoperta che propone ingredienti di qualità ad un costo contenuto e consente di fare un incontro ravvicinato con i più tipici tapas della regione rivisitati in maniera divertente ma senza troppi stravolgimenti. La tradizione, infatti, è solo il pretesto per creare qualcosa di nuovo lasciando spazio all’impavida creatività dello chef e al suo bagaglio tecnico acquisito al Bulli e da Arzak. Forse in qualche passaggio si rischia di strafare con pretenziose creazioni che, nell’intento di presentare interessanti variazioni e novità al cliente abituale, diventano dei più comuni déjà-vu sotto la lente critica del girovago gourmet (vedi il piccione del racconto fotografico). Quella di Romero è comunque una cucina ben eseguita che, vista l’età e considerate le evidenti basi tecniche riscontrate, lascia intravedere un sicuro margine di crescita.
Inoltre, non escludiamo che una deriva creativa possa far discostare questo locale dalla nostra categoria di valutazione (ora come trattoria), rivelandosi in futuro più un ristorante a tutti gli effetti che un tapas bar travestito da bistronomia creativa. Per il momento, quello che a nostro avviso prevale maggiormente dai piatti assaggiati è una fedele riproposizione, certamente più raffinata ma sempre nel solco della tradizione, dei famosi piattini spagnoli.
Il locale è davvero minuscolo. Proprio come si vede in foto. Il nostro era l’ultimo tavolo della sala. Una curiosità: sul piccolo soppalco ogni giorno si esibisce una band che allieta e diverte i commensali realizzando un sottofondo musicale con pezzi pop e rock di ogni epoca, eseguiti in una piacevole versione soft.
Qualche stuzzichino senza pretese per iniziare. Qualche vino è presente in carta, ma riteniamo che la birra sia un compagno sicuro per le tapas.
Un buon pane, servito con l’olio.
Buone le “mejillones escabechados” con cubetti di prosciutto Maldonado, con la piacevole marinatura che stimola l’appetito.
Ceviche di gamberi rossi con avocado, cipollotti e lime. E’ il piatto dello chef. Raffinata rivisitazione della tradizione e grande materia prima.
Irresistibile nella sua golosità la crocchetta di coda di bue e funghi trombetta dei morti.
Così come le gustosissime patatas bravas, con immancabili salse al pomodoro piccante e maionese.
I piatti principali hanno una buona percentuale di raffinatezza. Tonno scottato, pomodori confit e salsa allo chorizo.
Ci si sposta sul versante francese il piatto di carne del giorno: piccione con barbabietola, frutti rossi e patè di fegatini.
Dai “postres”, sorbetto allo yuzu (molto usato da queste parti).
La cheesecake con brie e gelatina al moscato. Preparazione non scontata negli ingredienti.
Tavoli.
Ingresso.
Nel 1898 i primi cittadini giapponesi emigrarono in Perù con al seguito i loro prodotti e le proprie tecniche di cucina. Da quel momento si unirono ai colori e ai sapori della cucina peruviana. Agli inizi degli anni ‘80 nasce la cucina Nikkei, frutto dell’unione delle due culture, diversissime tra loro.
Crediamo che queste parole siano perfette per introdurre la spirito del Pakta, che nella lingua Quecha originaria del Perù vuol dire proprio “unione”, la filosofia di questo locale.
E’ l’ennesimo, originalissimo progetto dei fratelli Adrià a Barcellona, fortemente voluto dopo la folgorazione per la cultura asiatica e per la varietà dei prodotti e delle marinature scoperti in Sudamerica. Aperto nella primavera 2013, Albert Adrià è coinvolto in prima persona e cura interamente il menù, con il contributo del geniale direttore creativo argentino Sebastiàn Mazzola, chef del 41° Experience, ma soprattutto con due chef che garantiscono l’autenticità, sotto il profilo tecnico e filologico, delle preparazioni. Al banco sushi troviamo la nipponica Kyoko Li, mentre tra i fornelli della piccola cucina in coda alla sala c’è lo chef peruviano Jorge Muñoz: entrambi sono coadiuvati da cinque collaboratori a testa. Anche in sala il servizio multietnico (peruviani e spagnoli) è preciso, gentilissimo e professionale, come c’è capitato di trovare in tutti i ristoranti dei fratelli Adrià.
L’ambiente è raccolto e l’atmosfera è molto calda: predomina il legno che ricorda l’estetica giapponese, ma la caratteristica principale dell’ambiente sono i telai multicolore che percorrono tutta la sala, conferendo alla stessa i vivaci lineamenti peruviani.
Quanto alla cucina, prima ancora di apprezzare un originalissimo stile fusion con essenziali tocchi alla Adrià, si registrano una serie di dettagli infinitesimali su ogni singolo elemento all’interno e al di fuori di ogni piatto: porcellane giapponesi autentiche, posate specifiche per ogni portata, presentazioni sceniche ma mai banali e tanta, tantissima sostanza. La gastronomia molecolare si intravede soltanto, perché quasi tutte le preparazioni sono frutto di cotture millimetriche da grande cucina classica.
Non c’è la carta, ma due menù: Fujiyama e Machu-Picchu. La sola differenza che il primo prevede nove portate e non è nient’altro che un “best of” del secondo che ne prevede ben quindici. E se la sequenza iniziale del percorso può far storcere il naso a qualcuno, per i contrasti nelle temperature e il solo assemblaggio dei pur grandi prodotti ittici locali e degli ortaggi sudamericani, nella seconda serie di portate Adrià & Co. sfoggiano prepotentemente il loro (elevatissimo) tasso tecnico tra i fornelli. L’inarrivabile tempura di funghi o la triglia panata col panko ci fanno capire che la grandezza di un cuoco non può prescindere da straordinarie basi tecniche. Si susseguono piatti che alternano sapori freschi e profumati con risvolti eleganti, ma che non rinunciano ad essere molto golosi e sempre all’insegna di una sorprendente leggerezza. Un luna park per il gourmet, ma anche per il gourmand.
Impressiona l’intesa tra cucina e servizio che porta a tempi di attesa pressoché nulli.
Anche qui, per ragioni di servizio, come al 41° Experience o a El Bulli, assentarsi per qualche istante implica la necessità di avvisare i camerieri che, a loro volta, provvederanno ad avvisare la cucina.
A nostro avviso, un grande ristorante che ben presto sarà sulla bocca di tutti.
Il percorso è suddiviso in “atti”. Si parte dalla cultura giapponese con una sequenza di preparazioni in stile Kaiseki, ma con una combinazione di sapori e ingredienti nippo-peruviani.
Honzen Ryori
Crema di mais e caviale. Dolce e iodato. Piacevolissimo.
Capasanta cruda con salsa chalaca (tipica salsa di Lima con mais marinato al lime).
Tofu di avocado con ricci di mare, yuzu e wasabi. Viene servito un cucchiaio di legno asettico, per non intaccare il sapore definito degli elementi. Tipici sapori giapponesi.
Melanzana al carbone con kimizu (sorta di maionese con dashi e aceto di riso).
“Olluco” (patata) alla “huancaína”. Piatto tipico della cucina criolla peruviana. La salsa è fatta con latte, peperoncini e formaggio. E’ la preparazione che chiude (in dolcezza) il ryori.
Nikkei Chilcano. Tofu fritto con carote e un intenso brodo di pesce. Il tofu si scioglie in bocca.
Vongole crude con salsa “tozazu”, alghe wakeme e umibudo (detta anche uva di mare, tipica di Okinawa).
Ecco il signature dish di Albert Adrià: il fantastico Ceviche di ricciola con kumquats “leche de tigre” (latte e succo di arancia), arachidi e cipolla. Una combinazione dalle tonalità sudamericane, fresco ed intrigante.
Inizia il secondo atto: The causas.
Due assaggi, l’eccellente boccone di piovra con olive nere sferificate e quinoa fritta…
…e il goloso pollo fritto con “ocopa sauce”, salsa a base di formaggio e huacatay (erba aromatica peruviana).
Te-maki di tonno con alga nori croccante e shichimi. L’alga è croccante e viene utilizzata come un crostino per il tonno.
Atto terzo: i Nigiri.
Tonno con wasabi fresco grattugiato al momento (tutta un’altra storia), seppia con sale allo huacatay, Mahi-mahi (lampugna) con salsa umeboshi. Semplicemente perfetta la temperatura del riso e grande qualità del pescato. Si chiude con una gelatina allo yuzu per rinfrescare il palato.
Soba con una salsa di ponzu, pomodoro e olio all’huacatay.
Piatto condito.
La fantastica tempura di funghi e purea di patate e funghi. Il fungo è praticamente integro all’interno della pastella.
I gyoza grigliati ripieni di maialino iberico.
Per finire: il gambero rosso al fumo di pino è magistrale per qualità del crostaceo ed equilibrio di sapori. Viene presentato in un cartoccio di bamboo e viene servito una polvere di gamberi e lime.
Dettaglio..
Ecco il gambero nascosto, appena cotto.
E questo è il risultato finale nel piatto.
Tecnicamente ineccepibile la triglia con salsa al tamarillo “escabeche” che il commensale sfiletta direttamente con il cucchiaio.
Pregevolissimo.
Si passa alla carne con il filetto di Wagyu grigliato con salsa al miso. Si tratta della famosa razza giapponese cresciuta in territorio spagnolo. Ottimo.
“Arroz con pato”: ennesima rivisitazione di una ricetta della tradizione peruviana, il riso all’anatra. Qui presentata in un cannolo contenente un risotto alle erbe. Buono, anche se forse è il piatto che satura con più velocità le papille gustive.
Chiudiamo con il nigiri al foie gras fiammato.
Per i dessert si ricomincia da dove avevamo iniziato: Honzen Ryori.
Picarones di patate dolci con miele e cannella, bombon di banana con gelatina di umeshu (liquore giapponese), mango ghiacciato con verbena.
“Shikwasa Suri”: fantastici marshmallow di limone e cioccolato.
Fichi con zuppa allo zenzero e tofu di mandorle.
Meringhe al frutto della passione con gelato al “dulce de leche”…
…e Pisco (liquore peruviano).
Post dessert: cioccolato bianco e the verde con sakura e caramella gommosa allo yuzu.
Banco sushi con chef all’opera.
La cucina.
Le corde colorate.
Ingresso.
Recensione ristorante.
Può capitare di essere a Barcellona in una tiepida giornata infrasettimanale di inizio primavera.
Può capitare di voler provare il più famoso e frequentato tapas bar della città catalana.
Può capitare di essere rimbalzati dopo aver fatto una fila di quasi due ore, perché, bontà loro, le prenotazioni non vengono accettate.
Può capitare che il “queue boy” dell’Inopia bar, dopo averci gentilmente chiuso i battenti sul grugno, ci abbia consigliato, senza esitazioni, di ripiegare su un ristorante-tapas bar distante poche decine di metri (vivaddio!).
Accettiamo, volenti o nolenti, il consiglio. Alle 11 di sera la voglia di gironzolare per le Ramblas e dintorni senza un utile ripiego ci ha prontamente abbandonati.