Passione Gourmet Abruzzo Archivi - Pagina 2 di 6 - Passione Gourmet

I vini buoni liberano la testa

Siamo quello che siamo

Roger Ebert (1942-2013) il celebre critico cinematografico del Chicago Sun-Times aveva il raro talento di farsi leggere da chiunque, colti e illetterati, senza apparire mai volgare né banale. La grande cultura; la sensibilità popolare, era figlio di gente semplice; un punto di vista originale quasi mai “mainstream” sul mondo e sui film; la non comune capacità di sintesi, lo hanno reso negli anni una delle voci più ascoltate d’America in merito al cinema e all’opinione sui film e all’industria ad essi correlata. 

Qualche anno prima della malattia che gli avrebbe tolto la possibilità di parlare in pubblico ma non quella di scrivere, in una conferenza tenuta ovviamente in un cinema, ha fatto questa dichiarazione commovente:

Siamo tutti nati con un dato bagaglio. Siamo quello che siamo.
Dove siamo nati, da chi siamo nati, come siamo cresciuti. Siamo come bloccati dentro a quella persona.
L’obiettivo della civilizzazione e dello sviluppo è sapersi aprire ed empatizzare un po’ con gli altri. Per me i film sono come una macchina che  genera empatia. Ci dice qualcosa di più su speranze, aspirazioni, sogni e paure differenti. Ci aiuta a identificarci  con le persone con cui condividiamo questo viaggio.

Obiettivo della civilizzazione

Il discorso sia etico che estetico di Ebert traslato dai film ai libri giusti e al buon vino non cambia di una virgola il suo profondo, il suo democratico senso di civiltà. Certo il punto sta tutto a capire cosa intendiamo per giusto o per buono. Come facciamo a stabilire i gradi, le sfumature e i livelli di cosa sia giusto e cosa sia buono relativamente a quel che leggiamo, ascoltiamo, osserviamo o beviamo. Rimaniamo sempre in ambito di gusti personali. Un ambito piuttosto ambiguo dove predomina la relatività delle preferenze individuali.

Ognuno, al netto della propria esperienza e cultura, il “siamo bloccati dentro quella persona” di Ebert, deve poi fare i conti con i condizionamenti sociali, le pressioni dell’ambiente in cui vive, si relaziona e agisce. L’apertura agli altri, l’empatia qui è l’elemento oggettivo fondamentale. L’ingrediente che può e deve fare la differenza. Il buon vino, senz’altro veicolato dall’alcol, può essere una macchina che genera empatia e condivisione. Come i film di cui parlava Ebert, oltre all’ebrezza che suscita, e nel migliore dei casi ci predispone con calore agli altri: ci dischiude e identifica al prossimo. Ci rende più partecipi di noi stessi e degli altri. Ma cosa ci fa dire che un vino rispetto ad un altro sia più o meno buono, più o meno carico d’energia e vitalità, più o meno empatico?

Empatia ed ebbrezza

A proposito di identificazione. Osservando nei decenni alcuni comportamenti sociali della gente al ristorante ho avuto modo di notare che tanti più parlano, più si gonfiano i polmoni d’aria, gesticolano, fanno moine teatrali e meno ci capiscono di cibo e di vino. Chi sa invece spesso si limita a tacere con understatement, si esprime cioè con un semplice cenno di approvazione o diniego. È anche una questione di stile personale spesso e quindi di esperienza maturata sul campo, di conoscenza tecnica delle trasformazioni (del vino e del cibo), di stimoli effettivi e sensibilità acquisita da studio, ricerca continua, curiosità. 

Certo, come ci sono film e libri pessimi eppure sopravvalutati da molti, non possono non esserci anche vini terribili e sovrastimati. Eppure c’è un pubblico per tutto. Giuseppe Bonura, critico della cultura, parlava giustamente di industria del complimento, quella attività ammiccante e mai neutra né indipendente, generata dai mezzi di comunicazione di massa dove si recensiscono migliaia di libri film dischi ristoranti vini ed ognuno è quasi sempre “un capolavoro imprescindibile” anche se alla prova dei fatti è robaccia di basso consumo. Il consumismo esasperato della nostra epoca ha talmente abbassato il livello qualitativo dei prodotti alimentari e culturali in circolazione sul mercato, che il rischio più evidente è l’incapacità assoluta da parte del pubblico di distinguere il buono dal cattivo, il vero dal falso, il ben fatto dal fatto male.

Citizen Kane di Orson Welles, Sátántangó di Béla Tarr o il Moses und Aron dei registi radicali Straub/Huillet, fermentano nello stesso calderone con i vari Batman e i Transformers dove non si riesce più a distinguere il cinema d’arte, il cinema di pensiero, i film che “liberano la testa” come diceva Fassbinder, dalle produzioni squallidamente da botteghino e dal cinema d’intrattenimento. Così le definizioni formali di vino biologico, vino naturale, vino biodinamico perdono completamente valore una volta shakerate nel frullatore del mercato globale che si nutre con avidità diabolica di frasi fatte, aggettivi svuotati di senso e slogan a effetto, fregandosene altamente della sostanza.

Vini di terra e anima

Detto questo, la mia empatia per “i vini di terra e anima” di Cristiana GalassoFeudo D’Ugni a San Valentino in Abruzzo Citeriore – è pressoché totale. 

La Riserva Askoj 2009 è il suo Montepulciano d’Abruzzo più visionario; fermentazione spontanea in vasche di cemento e affinamento per anni in botte scolma. Vino che non ho alcun dubbio a definire buono e giusto. La cui fibra bruciante glorifica la resistenza massiccia, l’asperità rigenerativa della Majella. Vino empatico che nell’ordine della sua concezione sia etica che estetica lo accosto al romanzo più vero e amareggiato di Milan Kundera, Lo Scherzo, assieme a un film meravigliosamente struggente di Agnès Varda Le Bonheur, dove si mostra che il confine tra felicità e sofferenza è effimero come effimere sono le nostre opinioni, le nostre idee se ci limitiamo a riceverle passivamente dall’alto senza elaborazione critica né approfondimenti continui. 

Alla fine della fiera, più conosciamo le varie sfaccettature di un argomento, – letteratura, arte, cinema, musica, gastronomia, enologia… – più è probabile avvicinarsi al cuore pulsante di quel che definiamo buono, giusto, ben fatto evitando di sembrare troppo naïf, futili o velleitari. 

Niko Romito e lo studio sul vegetale

L’approccio al mondo vegetale, e conseguentemente sostenibile, è la nuova moda del decennio. Sembra che ormai non si possa parlare d’altro, della sostenibilità, della sconvenienza della proteina animale o ittica che sia, tanto che molti cuochi affrontano questo tema proprio perché attuale, perché la gente e tutto il movimento della comunicazione enogastronomica spinge in tal senso. E sebbene ci sia chi utilizza questo veicolo come semplice pretesto, c’è anche chi ne fa un punto di partenza: una leva per esplorare in maniera ancora più pervasiva e intensa il proprio talento e la propria ideologia di cucina, come Niko Romito.

Non è un mistero, a questo proposito, che lo Chef del Reale affronti l’ingrediente da un punto di vista risolutamente inedito e personale. Da tempo immemore la sua concentrazione, la sua capacità di sviscerare tutte le peculiarità e le spigolature della materia, è il paradigma del suo stile culinario. Pensiamo all’Assoluto di cipolla, al Carciofo, alla Melanzana. Pensiamo alle laccature, alle concentrazioni di fondi vegetali, a lavorazioni che sono in pista, per il cuoco abruzzese, da molto più di un decennio.

Il Carciofo, paradigmatico, è il risultato di un lavoro di concentrazione e di spinta amaro-dolce-sapida che non ha veramente eguali al tempo in cui è stato pensato. E ha aperto strade, terreni inesplorati a flotte di cuochi che hanno preso questo piatto come simbolo di una nuova cucina fondata sulla concentrazione e sullo studio sull’elemento. Sempre il Carciofo ha iniziato ad esplorare la strada della textura, altro aspetto che Romito ha esaltato e decisamente ridefinito. Non che la textura, dalla grande rivoluzione della nouvelle cuisine sino ad Adrià, non sia stata presa in considerazione, si badi bene. È anche qui l’uso che ne fa Romito, la profondità con cui l’analizza, che fa la differenza, tanto che la utilizza come un ulteriore sapore, il sesto o settimo, come vogliamo contarli, che produce una energia e una sensazione gustativa differente tanto quanto l’uso, più o meno accentuato, del sale, del limone, dell’aceto, di una essenza di genziana. Deforma il gusto, lo stravolge, lo plasma e, soprattutto, lo produce.

Sempre il Carciofo è forse uno dei primi e timidi esperimenti di esplorazione degli amari per il cuoco abruzzese. Amaro è maturità, amaro è gusto difficile, scorbutico da maneggiare, rischioso per la platea di clienti. Amaro è, però, una sfida, importante e unica, di essere veicolo di profondità gustativa e di riverbero degli altri gusti. È conduttore formidabile, l’amaro, se ben armonizzato, integrato, dosato.

Ebbene, tutte queste aree e tratti distintivi della cucina di Niko Romito sono letteralmente esplosi, portati all’apice, concentrati e deflagrati, in questo menù vegetale. Un menù che è un pretesto, lo ripetiamo, per spostare ancora più in alto l’asticella del gusto, la profondità dell’analisi, la spinta avanguardistica. Una valutazione che, continuando così, potrà crescere facilmente – e a breve – ancora di più rispetto all’attuale.

Amaro, concentrato, elegante, masticabile intenso in trasformazione, traslazione del gusto. Non serve aggiungere altro, se non chiedere a tutti voi di leggere i semplici titoli dei piatti, guardare le foto, e immaginarsi, crediamo con discreta facilità, cosa sta dietro a questo percorso e, allora, prenotare immediatamente un tavolo a Castel di Sangro.

La Galleria Fotografica:

L’ascesa Reale di Romito

La vita continua a sorprendermi. E anche questa volta sono uscito sconvolto da una cena che scorderò difficilmente. Non basta un breve messaggio per descrivere tutte le emozioni che mi hanno attraversato. Un percorso in cui Niko Romito approccia terreni per lui inediti con un vigore, una comprensione e una profondità davvero unici. Il tema dell’amaro declinato e studiato sino alle viscere, l’approccio alle fermentazioni, i liquidi che in questo menu sono a dir poco sensazionali. E quella “pasta patate e calamaro” che demolisce tutti i preconcetti conosciuti. Ma l’ostrica e l’animella, quest’ultima uno dei feticci dello chef abruzzese, assieme alla trota fanno comprendere sino in fondo come questo cuoco e questa cucina siano fondati sulla progressione continua, sullo studio attento, sulla forza di identità personale che continua ad evolversi, a mutare, a sorprendere nella sua continua crescita. Dove arriveremo? Solo il tempo saprà dircelo, ma sono certo che non passare di qui, in questo luogo magico, non può che far mancare a tutti gli appassionati un gran bel pezzo di storia, di presente e di futuro della cucina d’avanguardia italiana. Identitaria come non mai. Un grandissimo applauso anche a Cristiana Romito, Gianni_Sinesi, Dino Como degni partner in crime di questo grande talento italiano, di cui non si parla mai abbastanza. Perché la forza di questo luogo passa anche attraverso il duro lavoro della squadra di Ristorante Reale.”

Il profumo del primo amore

Questo è stato il nostro scritto, d’istinto, pubblicato sul profilo Instagram personale. Uno scritto che contiene in sé già tutte le riflessioni possibili su questo nuovo ed entusiasmante percorso vissuto da Niko Romito al Reale. Lo chef abruzzese ha infatti deciso di intraprendere la via più difficile, di questi tempi, e di rischiare, di osare, di andare oltre i propri limiti e cliché. Ecco quindi svilupparsi una nuova idea di cucina, in cui gli spigoli e le asperità si modulano e rivestono dell’eleganza monastica tipica della cifra stilistica di Niko Romito. Forse sarebbe meglio dire si travestono, perché a fronte di una apparente eleganza e tenue equilibrio, questi piatti sprigionano una energia fenomenale.

L’ostrica, con i suoi sentori amaricanti-iodati e finanche lievemente grassi, allungano ogni boccone quasi fossero un grandissimo e impareggiabile grand cru di Borgogna. Le varie tonalità entrano in bocca con passo lieve ma si fanno largo in maniera dirompente e folgorante. La pasta e patate sovverte, come abbiamo detto, tutti i paradigmi conosciuti. Una pasta e patate fredda, a bassa temperatura davvero, che non si aggruma ma rende scioglievole e lungo ogni boccone, scorrevole come non mai. Qui la tecnica è indirizzata alla estrema sublimazione del gusto e delle consistenze.

Eh, già, le consistenze. Le strutture della materia. Un’impalcatura che ritroviamo nella spigola, cruda ma dalla texture mai vista prima. E l’animella, che fa intravedere l’approccio alle fermentazioni, nuovo da queste parti, ma incredibilmente centrato. Sì, le fermentazioni. Che trovano il loro azimut nei liquidi, serviti durante il pasto, che assurgono a veri e propri piatti autoriali. Quello di carote, incredibile, e quello di pomodoro, fantastico. Lavoro intenso sulle fermentazioni e sul mix di aromi che creano le derivate del gusto più incredibili e inaspettate, spiazzanti. L’agretto di pomodoro ci ha riportato alla mente la fragola Hatsukoi no Kaori Ichigo giapponese, la famosa fragola bianca che ha sentori dolci lievemente acidi, eleganti, sopraffini.

Sapete qual è il significato del suo nome ? Profumo del primo amore, e qualcosa vorrà pur dire!

La Galleria Fotografica:

Appassionante variazione di Montepulciano

Montepulciano d’Abruzzo DOC “Il Tralcetto” 2018 – Cantina Zaccagnini

La Cantina Zaccagnini nasce sul finire degli anni 70 in quel del pescarese, a Bolognano. Nel tempo cresce, con estrema rapidità, fino a contare oggi una superficie di 300 ettari vitati. Il vino che proponiamo oggi è un Montepulciano d’Abruzzo appartenente alla linea “il Tralcetto”, che comprende bacche bianche e rosse per poter offrire una vasta gamma di etichette di vini bianchi, rossi o anche rosati.

Rosso rubino intenso, così come intenso è il suo profumo. Ricorda il frutto rosso, la ciliegia selvatica, la mora. Apre a note tostate di caramello e di caffè, e svela la sua complessità varietale a poco a poco nel calice. Si approccia al gusto con decisione, mettendo in mostra il suo corpo pieno e la sua eleganza, binomio tipico del vitigno. Setoso e potente, fresco e morbido, tannico e snello: la bacca dei contrasti si sintetizza anche questa volta in un ottimo equilibrio, che scorta il sorso in una lunga persistenza. Perfetto se abbinato a delle costolette d’agnello arrosto.

C/o Vino.com: 7,50 €

Montepulciano d’Abruzzo 2018 – Torre dei Beati

Il nome dell’azienda prende spunto da un dettaglio di un dipinto del 1400. La torre che raccoglieva le anime dei beati ha assunto un valore simbolico per l’attività agricola dell’azienda. Montepulciano, Pecorino e Trebbiano costituiscono la trilogia viticola dell’azienda, che insiste orgogliosamente sulla produzione delle uve locali, assicurandosi della loro qualità dal campo fino alla bottiglia. Oggi l’azienda, sita a Loreto Aprutino, si estende su 21 ettari, distribuiti fra i 250 e i 300 metri sul livello del mare.

Dal calice color rosso rubino luminoso si eleva un profumo boschivo, di terra e bacche scure, di note tostate e di altre che sfuggono alle categorie. Affiora la propoli, poi una nota di salsa di soia e il tabacco. Ancora giovane, come ci insegnano la sua freschezza spinta e il tannino vibrante, eppure già instradato sul cammino dell’eleganza, di cui accenna già i passi fini. Da godere subito oppure da lasciare attendere in bottiglia, certamente con belle sorprese nei prossimi anni. Lo possiamo abbinare a tutti quei piatti che prevedono il protagonismo delle frattaglie.

C/o Vino.com: 9,50 €

Piacevolezza ed Eleganza

Trebbiano d’Abruzzo 2019 – Masciarelli

Masciarelli è il titolo di un capitolo di storia d’Abruzzo, prima ancora che il nome di un’azienda. Fu Gianni Masciarelli, per primo, a scommettere sulla viticoltura regionale e ad investire tutto su essa. Fu lui uno dei primi a battersi per la vinificazione delle proprie uve, fino ad allora destinate per lo più alla vendita fuori regione cosicché le altre zone viticole d’Italia potessero ricavarne dei tagli utili ai propri scopi. È per questo che, ancora oggi, il nome Masciarelli riecheggia quale fiero vessillo di una viticoltura di qualità, capace di osservare le proprie uve e la propria terra, e di interpretarle. Si originano così numerose etichette, ciascuna con la sua identità. Dal vino più semplice, al più complesso. Oggi vi proponiamo una delle sue creazioni più beverine, piacevoli e “quotidiane”, il Trebbiano d’Abruzzo.

Naso fresco, piacevole. Gioca il suo carattere gioviale tra le note di pesca bianca, banana, ananas e fiore di sambuco, sull’omogeneità di una tela gessosa. La bocca si veste di sapidità, con questo Trebbiano d’Abruzzo. In seconda battuta è la freschezza a trainare il sorso, che risulta scorrevole e di grande beva. Perfetto per un fresco aperitivo estivo. Lo consigliamo in abbinamento a torte salate a base di zucchine o asparagi, ma anche a una frittata porri e patate.

Su Tannico: 7,90€

Beaujolais-Villages Rouge “Le Perréon” 2018 – Domaine de la Madone

Siamo nella regione vitivinicola francese del Beaujolais, regno incontrastato del Gamay, vitigno dalle sfaccettature ingannevoli che paiono dapprima semplici e poi rivelano una complessità inaspettata. Il Domaine de la Madone ben conosce le potenzialità di tale bacca, con vigneti di proprietà da più di 500 anni. Oggi l’azienda conta 28 ettari in totale, con viti che vanno dai 15 fino ai 100 anni di età che compongono un patrimonio storico, oltre che viticolo, che estende la sua firma anche in territorio borgognone, proponendo una rosa di vini varia ed elegante. Eleganza è, infatti, la parola d’ordine di questo Beaujolais, purezza di Gamay proveniente da diverse parcelle di proprietà.

L’amarena, la marasca, la ciliegia e poi la rosa rossa, il pepe nero e una profumata traccia di muschio: la complessità suadente di questo Gamay Noir mostra il suo sovoir-faire, tutto francese. L’ingresso di bocca è deciso, tanto sapido quanto morbido. L’ottimo equilibrio si attua sulla solidità di un corpo statuario, pieno, vestito di un’espressione aromatica perfettamente corrispondente all’olfatto, persistente di una scia vibrante, sapida. Accompagna egregiamente un filetto di fassona.

Su Tannico: 9.90€