Passione Gourmet Atomix - Passione Gourmet

Atomix

Ristorante
4 E 30th St, New York, NY 10016, Stati Uniti
Chef Junghyun Park
Recensito da Claudio Marin

Valutazione

17.5/20 Cucina prevalentemente di avanguardia

Pregi

  • Una nuovo modo di coniugare cibo e storytelling, con risultati a tratti potentissimi.
  • L'interessante commistione tra diverse influenze gastronomiche.
  • Una delle sale più precise e, nel contempo, “calde”, mai incontrate.

Difetti

  • La prenotazione è difficilissima.
  • In alcuni casi all’enorme sforzo tecnico - pure percepibile - non segue l’estasi palatale che ci si aspetterebbe.
Visitato il 01-2023

Introduzione alla cultura gastronomica coreana

In questo momento la cucina coreana sta facendo parlare di sé più di ogni altra, in un avvicendamento che aveva già visto sotto i riflettori il movimento peruviano e, ancora prima, quello nordico, quest’ultimo capace, forse – ma lo si vedrà a tempo debito -, di lasciare un segno indelebile. Il fulcro di questa attenzione è New York, la città del Momofuku – la galassia gastronomica di David Chang che per primo ha rivendicato lo spessore della cucina delle proprie origini (prima di lui, quanti conoscevano il kimchi?) – e di Junghyun Park, cuoco salito alla ribalta con Atoboy (ancora in attività e vivacissimo) e ora con Atomix, un ristorante che ha scalato molto rapidamente le classifiche internazionali.

Il manifesto del cuoco è quello di farsi ambasciatore della cucina coreana – ricca di tradizione nonché di ingredienti e lavorazioni sconosciuti -, un obiettivo perseguito con dedizione, consapevolezza e una serie di idee brillanti. Innanzitutto, i riferimenti alla cucina coreana sono combinati con altre culture gastronomiche già metabolizzate dai palati newyorkesi, così da consentire un approccio più confortevole. Inoltre, lo storytelling svolge un ruolo fondamentale – a tratti si percepiscono eco botturiane – ed è declinato in modo originale e innovativo: ciascuna portata è accompagnata da un cartoncino che, su di un lato, reca l’illustrazione di un artista coreano (che cambia ad ogni nuovo menù) e, sull’altro lato, la spiegazione del piatto in termini di riferimenti culturali, ricordi personali e tecnica. Ciò consente all’ospite di “leggere” la portata e comprendere l’intento del cuoco: un escamotage simile a quello sperimentato di recente da Diverxo, ma portato a un livello di sofisticatezza – estetica e contenutistica – nettamente superiore. Un ruolo decisivo è poi svolto dalla sala, un bancone a “U” con poco più di una decina di coperti in cui vi è una meravigliosa commistione tra rigore e calore quasi domestico – sentori di Sol Levante – grazie al personale perennemente intento ad instaurare un dialogo con l’ospite, fornire chiarimenti e ricevere riscontri.

Tra ricerca ostinata dell’equilibrio e memoria

L’utilizzo di numerosi riferimenti gastronomici consente a Junghyun Park di proporre una cucina personale ed autoriale, non imbrigliata in una rigida corrispondenza con la terra di origine, a beneficio di una maggiore libertà tecnica ed espressiva. Il risultato sono alcuni piatti dallo straordinario equilibrio – obiettivo dichiarato – come Tuna, salmon roe, mu, chojang, una combinazione solo apparentemente semplice, in realtà composta da numerosissimi ingredienti: una  sorta di omaggio alla cucina nordica, ai sapori sussurrati e alle fermentazioni che la caratterizzano come, in particolare, il tonno e le uova di salmone vengono servite con il chojang, una salsa – la vera protagonista del piatto – che combina note acide e speziate (la lista degli ingredienti della portata comprende il ganjang – semi di soia fermentati -, alici, olio di sesamo e canola, un gel di mela, cedro, erba cipollina, etc.).  Nella stessa direzione, Kohlrabi, sea urchin, bittergreen, un sapiente intreccio tra la texture del cavolo rapa – cotto e crudo – la dolcezza del riccio di mare californiano (che, tuttavia, paga il confronto con la complessità di quello di Hokkaido mangiato a pochi giorni di distanza) e l’amarotico delle erbe.

I passaggi più interessanti sono tuttavia quelli più evocativi, in cui la Corea viene rappresentata non solo attraverso equilibrismi tra ingredienti, ma più in profondità, come Golden eye, miyeok, surf clam: un ricordo di una zuppa tipica dell’isola di Jeju, in cui abbonda un pesce rarissimo – l’okdom (sostituito dall’alfonsino: l’ingrediente coreano non arriva sempre con puntualità) -, immerso in un brodo di alghe (miyeok guk) e affiancato da pelle croccante di merluzzo e pastinaca.

Nello stesso modo lascia il segno Wagyu striploin, hakurei turnip, un piatto quasi filologico in quanto teso a ricordare come il famoso barbeque coreano sia comparso di recente mentre in origine – quando la carne era un ingrediente raro – si prediligessero le zuppe: il preziosissimo wagyu viene allora “cucinato” al tavolo versandovi sopra un magnifico brodo (punta di petto, rapa, alici, mirin, etc.) e accompagnato da un boccone di rapa nonché, a parte, da una ciotola di riso fritto e anguilla (quest’ultima non memorabile per consistenza: né burrosa alla Gorini né turgida alla Uliassi – due benchmark -, bensì leggermente asciutta). 

Per quanto riguarda la parte dolce del percorso, davvero notevole è Citrus, ssuk, black apple – clementine, artemisia e mela -, un fine pasto che punta a porre l’attenzione sull’assenza di dessert nella cultura coreana, la quale predilige la frutta fresca che, come sottolinea Junghyun Park, ha in sé tutto ciò che si può desiderare, ossia freschezza, dolcezza, acidità e intensità di sapore.

In conclusione, Atomix è un ristorante che offre un’esperienza complessiva di livello molto alto, a cui si può chiedere solamente di perseverare con un’idea di cucina quasi “pedagogica”, più interessante – sia in termini prettamente gastronomici che per i contenuti che è in grado di trasmettere – rispetto ai passaggi più manieristici.

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1 Commento.

  • Eorltheyoung20 Marzo 2023

    Super recensione. Una nota: cambierei "riso fritto" in "riso al salto": il "fried rice" che si mangia più o meno in tutto l'Estremo Oriente è saltato nel wok, non fritto immerso nell'olio. Difatti in inglese fritto si traduce con "deep fried".

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