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Kirazu

L’offerta gastronomica di Londra è infinita e in perenne cambiamento, e chiunque la voglia definire con un unico aggettivo pecca d’immodestia.
E’ in parte vero, come dice qualcuno, che i costi altissimi impongono, più che altrove, il successo di pubblico e, di conseguenza, l’adozione di “format” che rispondano a una delle possibili formule di successo della ristorazione contemporanea; è anche vero, però, che la dimensione di città-mondo lascia spazi anche per tutto il resto, compresa la proposta filologicamente impeccabile di modelli esteri poco o nulla replicati.

E’ il caso di questo Kirazu, un izakaya che non sorprenderebbe affatto trovare in un cortile di Tokyo o un vicolo di Kyoto, e che ha il merito di presentare un tipo di ristorazione nipponica popolarissimo in patria e poco conosciuto in occidente.
Questi locali informali accolgono di solito gli impiegati al termine del lavoro, per una “bevuta sociale” accompagnata da un numero cospicuo di piccoli piatti saporiti, utili per accompagnare i frequenti giri di saké che ci si versa vicendevolmente. Una versione giapponese del pub o del tapas bar o, se preferite, di quelle che erano le nostrane osterie.
La cosa rilevante per l’appassionato di gastronomia è che in alcuni di questi izakaya si mangia splendidamente e ci si rende conto di quanto varia, ricca e al tempo stesso leggera e sana sia la cucina del sol levante, anche al di fuori di sushi e sashimi.
Da Kirazu, che è un izakaya coi fiocchi piantato in piena Soho, si mangia, per essere chiari, in maniera eccellente.
Location col fascino spartano del legno grezzo e di arredi semplici e funzionali; menu sulla carta già pieno di “spuntini” molto diversi (carni, pesci, verdure cotti di solito alla brace o marinati, ma anche gyoza e dumplings di tutti i tipi) affiancato da tre lavagne di piatti del giorno che lo chef realizza ispirato dalla spesa fatta. Si sceglie cosa si vuole, si riempie un foglio ricevuto all’ingresso (segnando con una crocetta i piatti della carta o scrivendo per esteso quelli del giorno), lo si consegna alla cameriera e si viene sommersi di piccole delizie che accompagneranno saké, shochu o un vino al calice o in bottiglia (la carta dei vini, piccola ma piena di chicche, è l’unica concessione al fatto di trovarsi in Europa).

Dalle seppioline marinate al sake fino a un formidabile dessert a base di daifuku e dorayaki che anche a Osaka non sfigurerebbero, non un piatto che non sappia di fresco, leggero, saporito; ci si può limitare a gustarne 4 o 5 a testa per un pasto leggero ma pieno di stimoli, o esagerare con una decina se si decide di accompagnare una grande bevuta conviviale da film di Ozu.
Nel primo caso si scoprirà anche un conto molto leggero che inviterà al ritorno frequente se avete la fortuna di essere spesso da queste parti… o al rimpianto, se siete soltanto in gita.

Calamaretti marinati al sake: fulminante apertura iodata-alcolica.
calamaretti marinati, Kirazu, Izakaya, Londra
Tataki di manzo.
tatatki di manzo, Kirazu, Izakaya, Londra
Dumpling di gamberi al vapore: versione davvero riuscita di un classico.
Dumpling, Kirazu, Izakaya, Londra
Gyoza.
Gyoza, Kirazu, Izakaya, Londra
Sashimi di polpo con uova di salmone: le uova di qualità mai provata, sashimi profumato e di perfetta consistenza.
sashimi, Kirazu, Izakaya, Londra
Guancia di salmone.
guancia di salmone, Kirazu, Izakaya, Londra
Dorayaki.
Dorayaki, Kirazu, Izakaya, Londra
Daifuku: basta guardarlo…
Daifuku, Kirazu, Izakaya, Londra
La postazione dello chef.
chef, Kirazu, Izakaya, Londra
Due delle tre lavagne del giorno.
lavagne, Kirazu, Izakaya, Londra

Londra è probabilmente la città europea in cui la cucina asiatica si esprime ai livelli migliori.
Quella Giapponese si è ritagliata uno spazio importante: locali costosi dove gustare sushi di altissimo livello (su tutti Araki e Sushi Tetsu) ma anche spazi più popolari, più accessibili economicamente, dove trovare la cucina giapponese di tutti i giorni.
Tra questi, Koya è senza dubbio l’indirizzo da segnare in agenda: specialità Udon, varietà Sanuki, i famosi noodle di farina di frumento da mangiare freddi o caldi, in brodi di varia natura.
Ma ancora più interessanti sono i piccoli piatti da scegliere da una striminzita carta che cambia giornalmente: piccole perle di cucina giapponese, più o meno contaminate dall’estro europeo.
Koya nasce nel 2010 dalla passione sfrenata per gli Udon da parte di un irlandese, John Devitt.
Gli Udon non erano certo una novità a Londra, ma Koya ha portato la qualità e l’attenzione per i dettagli tipiche dei migliori indirizzi giapponesi. Quindi udon fatti a mano giornalmente, brodi freschi e ricchi di umami, ingredienti di primissima qualità.
In cucina Junya Yamasaki, un passato importante da Kunitoraya a Parigi prima di mettere radici in questo locale di Soho.
Il successo è stato travolgente.
Il locale è piccolo e molto semplice, non sarà raro mangiare gomito a gomito con perfetti sconosciuti. Non si accettano prenotazioni, perciò cercate di scegliere gli orari meno inflazionati oppure armatevi di pazienza perché spesso si trovano persone in attesa fuori dalla porta. Il servizio è comunque rapido, quindi non ci sarà mai molto da attendere.
In alternativa, sulla stessa strada, c’è anche il Koya Bar, stessa proprietà e filosofia, aperto in orario continuato da colazione a cena.
Il concetto è quello di applicare la filosofia giapponese al contesto: quindi ricette e idee della tradizione giapponese ma con ingredienti locali, come il pesce delle coste del Galles o i vegetali coltivati da agricoltori autoctoni.
Risultato di ottimo livello, sia per quanto riguarda gli udon, sia per i piccoli piatti del giorno, nel nostro caso una sogliola fritta nella sua interezza di grandissima fattura. Una esperienza che certamente non ha moltissimo da invidiare a quelle fatte a Tokyo.
Fortunati questi londinesi…

Insalata di spring greens, erbe selvatiche & ponzu.
insalata di spring greens, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
Sogliola al limone fritta croccante con daikon al peperoncino.
sogliola al limone fritta, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
daikon al peperoncino, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
Gyushabu udon (con manzo shabu shabu).
Gyushabu udon, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
Té verde giapponese (della casa).
tè verde, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
I menù alle pareti
menù, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
menù, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
locale, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr

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Soho è uno dei quartieri più affascinanti di New York, non lontano da Little Italy e da Wall Street. Siamo a Lower Manhattan, nella zona dello shopping per antonomasia, anche se negli ultimi anni Soho è diventata anche meta residenziale e culturale, grazie ad un attento recupero che l’ha salvata da un pericoloso degrado sociale. E’ una delle tante anime della “città universo”, quella New York che rimane la fiera permanente delle meraviglie e delle fobie del mondo, lo specchio abbagliante della nostra civiltà, con tutto il suo fascino e la sua asprezza.

Non è difficile ambientarsi a New York, un repentino cambio di vita nella Grande Mela è spesso sinonimo di successo. Certo bisogna sottostare alle sue regole, avere una mentalità vincente e, soprattutto, “convincente”, ma a New York le possibilità sono per certi versi ancora infinite. Come quella di inserirsi nella nutrita comunità di ristoranti italiani che popolano ogni angolo dell’isola, e trovare il proprio spazio. Così ha fatto Markus Dorfmann, altoatesino, a New York dal 1995, e con L’Emporio di Soho alla sua terza esperienza di ristorazione “made in Usa”.

La sua ultima impresa nasce, infatti, nel 2009 e questo dato è già di rilievo, visto che stare sulla piazza per 4/5 anni qui significa essere un indirizzo “storico”. Già perché le parole chiave negli Stati Uniti sono “project”, “concept” o “reastaurant chain”: tutti termini che nel microcosmo delle osterie italiane probabilmente non si sono mai udite. Ma un pizzico di questa nostra cultura di provincia, intima e familiare, Markus l’ha portata proprio nel cuore di Soho.

Arredamento semplice e corrispondente allo spirito della bottega italica, il grande bancone, i tavoli di legno. Si parla beatamente il nostro idioma, anche se condividiamo lo spazio con un intellettuale di colore dai capelli rasta, con studenti asiatici e giovani manager in giacca e cravatta dai tratti tipicamente anglosassoni.
L’ambiente è quindi di rara piacevolezza e con la giusta compagnia ti vedi “costretto” a trascorrere più tempo di quello richiesto per consumare un pasto. Il menù non è il solito (come testato personalmente in locali molto più blasonati e costosi di questo) incomprensibile e spesso irritante potpourri di tutto ciò che identifica banalmente la cucina italiana: qui si parte dalla pizza (farine selezionate e lente lievitazioni) come spina dorsale dell’offerta, con gradite digressioni figlie soprattutto della cultura e delle predilezioni di Markus. Pochi piatti (paste e carni su tutti), ottima ricerca di materie prime provenienti sia dall’Italia sia dalle “farm” locali, buona carta dei vini con etichette non ordinarie.

In sostanza un posto ideale, anche per un italiano disilluso e pretenzioso, a zonzo per la Grande Mela.

Tavoli semplici e confortevoli.
tavoli, L'Emporio, New York
Il bel bancone.
sala, L'Emporio, New York
Piacevoli incontri a New York…
vino, friuli, L'Emporio, New York
Focaccia all’uva.
focaccia all'uva, L'Emporio, New York
Crocchette di riso.
crocchette di riso, L'Emporio, New York
Pizza Margherita.
pizza margherita,L'Emporio, New York
Pizza con speck (le origini di Markus vengono fuori…).
pizza, L'Emporio, New York
Maltagliati di farro con funghi (il piatto migliore). Come a casa…
maltagliati al farro, L'Emporio, New York
La succulenta e ottima Grass Fed Bone In Rib Eye, patate fingerling e peperoncini shishito.
carne, secondo piatto, L'Emporio, New York
contorno, patate, L'Emporio, New YorkL'Emporio, New York
Pannacotta.
pannacotta, L'Emporio, New York